Recensione a: Pier Giorgio Ardeni, Le radici del populismo. Disuguaglianze e consenso elettorale in Italia, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 264, euro 18 (scheda libro)
Scritto da Massimo Aprea
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Gli anni turbolenti che stiamo attraversando hanno molti tratti distintivi. Uno di questi è il peso politico che hanno assunto, in Italia come altrove, partiti e movimenti genericamente etichettati come “populisti”. Nonostante il termine sia ormai diventato di uso comune e sia al centro di un acceso scontro politico, non è chiaro cosa si intenda con “populista”. O meglio, il termine tende ad assumere significati diversi a seconda della prospettiva dalla quale si prende parte allo scontro.
Nel suo ultimo libro Le radici del populismo. Disuguaglianze e consenso elettorale in Italia Pier Giorgio Ardeni, professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna e presidente dell’Istituto Carlo Cattaneo nel quadriennio 2016-2019, fornisce la sua prospettiva sulla declinazione italiana di questo fenomeno. Come suggerisce il titolo, l’idea attorno alla quale è costruito il libro è che il populismo tragga linfa vitale dalle crescenti disuguaglianze di reddito e di opportunità che le politiche dei partiti mainstream non sono riuscite ad affrontare credibilmente. Le radici del fenomeno populista, in altre parole, sono da ricercarsi nella combinazione di una crescente domanda di protezione di ampie fasce della popolazione che – almeno dalla crisi del 2008 – hanno visto peggiorare il proprio standard di vita, e della totale inadeguatezza della proposta della parte politica – la sinistra – che a questa domanda avrebbe dovuto dare ascolto.
Per dare corpo a questa tesi, il saggio di Ardeni segue uno schema logico molto chiaro ed essenziale. Il primo capitolo pone le basi per le argomentazioni successive descrivendo il complesso quadro delle disuguaglianze in Italia. Come si dirà meglio in seguito, emerge come esse siano rilevanti su molteplici livelli e derivino da tendenze in atto da molto tempo. Il secondo capitolo, invece, si occupa dell’altra faccia della relazione oggetto di studio cercando di rispondere alla cruciale domanda di cosa sia il populismo. Dopo averne passato in rassegna alcune definizioni teoriche, l’autore sottolinea come non lo si possa considerare un fenomeno monolitico e che si debba piuttosto fare riferimento a una varietà di populismi, ognuno con caratteristiche differenti. Il terzo e il quarto capitolo, cuore dell’originale analisi empirica del libro, ricercano il nesso tra populismo e disuguaglianza analizzando il voto delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, in cui Movimento 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia hanno ottenuto un consenso straordinario. I dati elettorali, disponibili al livello comunale, vengono riaggregati lungo due dimensioni: da un lato l’appartenenza a una delle sei macroaree geografiche (Nord-Ovest, Nord-Est, Zona Rossa, Centro, Sud, Isole) in cui viene suddiviso il Paese; dall’altro la collocazione lungo l’asse centro-periferia (definito in termini di distanza rispetto al polo più vicino). Ne risulta una caratterizzazione geopolitica molto complessa che viene messa in relazione alla distribuzione del reddito e al consenso dei partiti populisti e tradizionali. Come forse è facile intuire, la tesi che vi sia una relazione tra consenso populista e disuguaglianze trova ampia conferma nei dati.
Il saggio di Ardeni è interessante per vari aspetti e se ne consiglia senz’altro la lettura. Quel che resta di questa recensione, più che analizzare in dettaglio i contenuti del libro, si propone di ricostruire il nesso tra disuguaglianze e populismo che ne ha motivato la stesura. A questo proposito il prossimo paragrafo si occupa della definizione di populismo, mentre il successivo rintraccia nelle elevate disuguaglianze la fonte della domanda politica di protezione a cui i partiti populisti hanno offerto una sponda. Il paragrafo finale conclude cercando di tirare le somme.
Quale populismo?
«Non un’ideologia in senso proprio, ma più che altro uno stile, un insieme di caratteri, un registro: elementi di populismo sono presenti in più formazioni, […], e tutte, con sfumature diverse, fanno appello al popolo per scardinare un ordine costituito, per superare l’egemonia dei partiti tradizionali e uscire dallo steccato del discorso politico dominante». Così Ardeni sintetizza la sua definizione di populismo poco dopo averne identificato le tre caratteristiche fondamentali: l’idea di popolo come comunità omogenea dotata di intrinseche qualità etiche e pratiche, la contrapposizione tra popolo e oligarchie corrotte e l’ostilità verso forme di mediazione e rappresentanza.
Emerge con grande chiarezza la centralità del concetto di popolo, che da un lato è la fonte di legittimazione per il sovvertimento di schemi sociali considerati inaccettabili, e dall’altro agisce da semplificatore ideologico, spesso riducendo lo scontro politico ad un noi-contro-loro che rischia di pregiudicare una lettura più profonda della società e del momento storico. A colorare questa definizione, fornendole la flessibilità necessaria per abbracciare manifestazioni politiche anche molto diverse fra loro, è la nozione di popolo al quale i diversi populismi fanno riferimento. Così, i populismi di destra radicale identificano il popolo con l’ethnos, focalizzando lo scontro politico sulla contrapposizione tra autoctono e straniero; i populismi definiti post-ideologici, che dunque rifiutano esplicitamente la categorizzazione lungo l’asse sinistra/destra, fanno invece appello al popolo come demos, all’insieme di cittadini che abitano la polis e che si trovano schiacciati da oligarchie arroccate nei propri privilegi – classe politica inclusa; i populismi di sinistra radicale, infine, fanno riferimento al popolo come plebe, ai molti che sono penalizzati dalle dinamiche sociali ed economiche prevalenti. È evidente che, pur condividendo uno stile comunicativo semplice ed efficace, uno schema ideologico esile e la tendenza a opporre il noi al loro, queste differenze di “appartenenza” si riflettono in proposte politiche anche molto diverse fra loro.
Elemento coessenziale alla centralità popolare è il carattere almeno apparentemente sovversivo del populismo: non si può essere considerati populisti se non si minaccia di cambiare lo status quo. Questo aspetto è estremamente importante se messo in relazione con la subalternità della sinistra rispetto ai dettami del capitalismo finanziario, ma di questo si parlerà meglio nel paragrafo finale.
Lungo questa definizione è possibile classificare i diversi populismi nostrani: Lega e Fratelli d’Italia hanno sicuramente un carattere più sovranista-identitario e fanno appello al popolo degli “Italiani” minacciato da un lato dall’ondata migratoria e dall’altro dai processi di globalizzazione e integrazione europea che ne hanno minato l’autonomia e la sovranità. Il Movimento 5 Stelle, invece, ha un carattere post-ideologico. Il suo riferimento è il popolo laborioso ed onesto della gente comune, ostaggio di una casta politica autoreferenziale e non in grado di comprenderne le istanze. Non sorprende, infatti, che molte delle sue battaglie abbiano riscontrato un successo trasversale alle divisioni di classe.
Ma cosa ha determinato il consenso populista in Italia, iniziato con l’exploit del Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013 e culminato nel voto del 4 marzo 2018? La spiegazione mancante secondo Ardeni è da ricercarsi nella combinazione di alte disuguaglianze (lato della domanda) e mancanza di proposta politica a sinistra (lato dell’offerta).
Disuguaglianze in Italia. Il lato della domanda
Che le disuguaglianze siano ovunque in crescita è un fatto ormai noto e il primo capitolo del libro descrive come la situazione italiana sia particolarmente complessa: il nostro Paese è disuguale e immobile, il che rende le disuguaglianze particolarmente inaccettabili. I dati citati sono molti e vogliono sottolineare come le diverse dimensioni della disuguaglianza siano collegate fra loro. Da un lato, la concentrazione del reddito è aumentata a partire dalla metà degli anni Ottanta con contributi sia del mercato del lavoro sia dei redditi da capitale, dall’altro la mobilità sociale sia tra generazioni che nell’arco della vita è diminuita lungo varie dimensioni: il tipo di occupazione, il livello di istruzione e, in generale, il tenore di vita dipendono sempre più da quelli dei genitori. Il fatto che fare un salto sociale nel corso della vita sia estremamente difficile non ne è altro che una prova ulteriore.
Dei tantissimi dati citati nel testo, uno in particolare è di fondamentale importanza e gravità: le famiglie in povertà assoluta sono passate dal 3,6 per cento del 2005 (819 mila) al 7 per cento del 2018 (oltre 1,8 milioni). Questo dato evidenzia come sempre più persone non siano state in grado, a causa delle trasformazioni del mercato del lavoro, della riduzione della spesa sociale e di molte altre ragioni, di sostenere un livello di spesa compatibile con una vita dignitosa. È evidente come questo aspetto sia intimamente legato alla formazione di quella domanda di protezione che i populismi hanno saputo cogliere meglio dei partiti tradizionali.
Anzi, dal momento che le disuguaglianze sono soprattutto il risultato di una serie di scelte politiche che si stratificano negli anni – come sostenuto, tra gli altri da Anthony Atkinson – è stato proprio l’operato dei partiti tradizionali di destra e di sinistra a causare la situazione drammatica nella quale ci troviamo oggi. Questo Ardeni lo coglie molto bene quando afferma che, dopo l’89, «la sinistra getta via il bambino con l’acqua sporca, sposando la via neoliberista allo sviluppo». La mancanza di un’alternativa – il famoso “There Is No Alternative” – ha contagiato la sinistra, che ha abbandonato il suo popolo e sostanzialmente aderito ai dettami della controffensiva monetarista che predicava lo smantellamento dello Stato Sociale, la deregolamentazione finanziaria e la flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Populismo: risposta sbagliata ad una domanda giusta
La diagnosi è chiara. Disuguaglianze elevatissime e una sinistra che non è più in grado di fornire una visione alternativa hanno lasciato il campo libero ai populismi che, scagliandosi con forza contro l’ordine costituito, hanno attirato il consenso dell’ampia platea degli sconfitti della globalizzazione. I dati delle elezioni politiche del 2018 sono eloquenti in tal senso: «più basso è il reddito, maggiore il consenso per la Lega soprattutto al Nord e nei centri; più basso il reddito maggiore il consenso per il M5S, soprattutto nei poli, mentre nelle aree peri-urbane e periferiche sono più i ceti medio-bassi e poi nel Sud a convergere sui 5 Stelle; infine, maggiore il reddito, maggiore il consenso del centro-sinistra». Ma quale conclusione trarne?
L’idea dell’autore è che il populismo sia un male da combattere perché divisivo, di destra e in ultima analisi non in grado di intaccare le cause fondative del malcontento al quale pure si propone di dare una risposta. Ma per sconfiggere il populismo «bisogna diminuire le disuguaglianze, tagliandone la pianta parassita alla radice». Compito certamente non facile e per il quale la sinistra, ancora preda dei dogmatismi che ne hanno condizionato l’operato negli ultimi decenni, appare impreparata. La “rivoluzione del Covid-19” ce ne offre una rappresentazione plastica: mentre le certezze economiche cambiano al ritmo delle dichiarazioni dei presidenti delle varie banche centrali, la sinistra fa fatica a scrollarsi di dosso l’approccio rigorista alla gestione del bilancio statale che ha perseguito negli ultimi decenni. In un momento di estrema sofferenza per moltissime persone, in cui la società è in fermento, non riesce a porre con determinazione alcuni temi coraggiosi che potrebbero riconciarla con il suo popolo e con il suo ruolo storico. Alcuni esempi in tal senso sono il recupero di una reale progressività fiscale, la lotta alle innumerevoli rendite generate dall’economia delle piattaforme e dalle nuove tecnologie, un ruolo forte dello Stato nella riconversione ecologica, la garanzia di un lavoro dignitoso per tutti o la lotta al capitale finanziario che, muovendosi alla velocità di un click, minaccia di mettere in ginocchio l’economia di interi Paesi.
Il populismo italiano, con una Lega apertamente xenofoba e un Movimento 5 Stelle che non ha dimostrato la competenza istituzionale e lo spessore ideologico per mantenersi credibile in questo complesso periodo storico, non è certo la soluzione. Ma alcune misure (si pensi al Reddito di Cittadinanza o al Decreto Dignità) per quanti imperfette, sono andate nella direzione giusta. Alcune letture, come quella di una architettura istituzionale europea che ci ha fortemente penalizzato, sono corrette. Una proposta politica che voglia davvero diminuire le disuguaglianze e che voglia essere al passo con lo spirito del tempo deve fare propria anche la “lezione populista”.