Recensione a: Gianluigi Negro, Le voci di Pechino. Come i media hanno costruito l’identità cinese, Prefazione di Gabriele Balbi e Laura De Giorgi, Luiss University Press, Roma 2022, pp. 192, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Clara Galzerano
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Il tema della natura e dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione della Repubblica Popolare Cinese si trova attualmente al centro del dibattito accademico e mediatico mondiale. Questa tendenza si è consolidata sotto la leadership di Xi Jinping (2013-), che ha segnato l’inizio di una fase di “nuova assertività”[1] globale di Pechino anche nel campo dei media. Allargando lo sguardo, la questione dello stato di salute del sistema dell’informazione mondiale ha assunto nuova centralità in seguito allo scoppio della pandemia da Covid-19 e della guerra in Ucraina. Tra il 2017 e il 2018 il problema rappresentato dalle fake news e quello della disinformazione avevano già catalizzato l’interesse di giornalisti ed esperti dei media[2], ma oggi il dibattito pubblico verte proprio sulla ridiscussione dei concetti di propaganda e obbiettività dell’informazione, e pone l’attenzione sul ruolo dei media nella formazione dell’opinione pubblica internazionale.
Le voci di Pechino può allora aiutare il lettore a rimettere insieme parte dei tasselli di questo complesso quadro, in quanto il volume offre una prospettiva generale della storia dei media cinesi dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (1949) a oggi. Gianluigi Negro, sinologo e Professore associato presso l’Università di Siena, affronta il tema avvalendosi di una chiave di lettura precisa, quella del ruolo dei media cinesi nel processo di costruzione dell’identità nazionale. Questo aspetto è stato studiato utilizzando l’approccio della longue durée e la prospettiva della sinologia e dei media studies[3]. Viene dunque stabilita una premessa importante: comprendere come i media plasmino l’identità della Cina di oggi non può prescindere da un’analisi di taglio storico e di ampio respiro. Altrettanto efficace è infatti la scelta di un approccio che l’autore stesso definisce «multifocale» (p. 27), che non si limita cioè a prendere in esame un singolo mezzo di comunicazione, ma si propone invece di studiare i media come un sistema complesso e integrato che racchiude insieme dimensioni diverse, come i rapporti esistenti tra politica, società ed economia per il suo controllo. Il sistema dei media costituisce allora sia un oggetto di studio interessante, che un mezzo utile all’analisi della storia e della società cinese[4]: in altre parole, il lavoro intende analizzare «quali influenze subiscono i media da parte delle componenti sociali, ma anche il loro potere di influenzare il discorso e le pratiche sociali» (p. 27). Grazie a questi elementi di novità metodologica, il lavoro riesce a portare alla luce il contributo decisivo che i media cinesi hanno apportato all’evoluzione e al rafforzamento dell’identità politica nazionale, in relazione soprattutto alla crescita economica e alle dinamiche sociali che hanno caratterizzato la Cina del Novecento. I media cinesi si presentano, dunque, sia come artefici sia come metafora dei diversi volti che ha assunto la cosiddetta “Nuova Cina” nell’immaginario collettivo interno e internazionale.
Perché una storia dei media cinesi?[5]
Il lavoro di Negro risulta importante e stimolante sotto almeno due punti di vista. In primo luogo, le tematiche trattate e l’impostazione del volume sono di indubbio interesse scientifico: sebbene, come già sottolineato, lo studio dei media stia assumendo sempre maggiore importanza, in Italia e all’estero manca una ricostruzione storica sistematica e articolata dell’evoluzione dei media cinesi, poiché il mondo accademico si è concentrato principalmente sullo studio dei singoli mezzi di comunicazione, mostrando inoltre la preferenza a privilegiare come periodo storico la Cina post-maoista. Riflettendo sullo stato dell’arte, Negro cita Gabriele Balbi, sottolineando come i media studies siano spesso ancorati allo studio del presente e abbiano come obbiettivo ultimo l’interpretazione di dinamiche future[6].
Il lavoro restituisce quindi profondità temporale alla storia dei media, ma non viene meno il suo secondo punto di forza, che è il fortissimo richiamo all’attualità. In un momento in cui il dibattito pubblico insiste su quella che ormai comunemente viene definita “Nuova guerra fredda” tra “Occidente” e Repubblica Popolare, un’analisi storica approfondita sul ruolo dell’informazione nella costruzione della Cina contemporanea aiuta ad andare oltre a letture appiattite del sistema mediatico cinese, il cui studio viene troppo spesso liquidato attraverso l’utilizzo del paradigma media-potere-propaganda.
Partendo da questi presupposti, l’opera ha il pregio di decostruire anche un altro assunto. La Cina popolare è spesso identificata come un soggetto straordinario – nel senso letterale del termine –, ossia caratterizzato dal verificarsi di fenomeni eccezionali. Il lavoro, attraverso uno sforzo mirato a de-occidentalizzare lo studio dei media cinesi, mette in luce come la nuova centralità assunta dai media sotto la leadership di Xi Jinping risulti assolutamente in continuità con il passato. L’eredità dell’influenza leninista, così come anche il ruolo dei media come mezzo di negoziazione politica e sociale sono elementi che continuano a caratterizzare il sistema mediatico cinese. Se si prendono in considerazione gli anni Novanta, poi, il fil rouge è sempre più evidente. Negro sottolinea come l’abbandono del principio di autosufficienza industriale, l’orientamento al mercato e l’integrazione dei media nel sistema capitalistico mondiale siano tendenze che hanno avuto origine proprio in questo momento storico (pp. 22-45).
Per riuscire a descrivere la complessità del sistema mediatico cinese, il volume è stato suddiviso in quattro sezioni, che si occupano ognuna dell’attività di diverse tipologie di media in un preciso lasso temporale: la stampa e la radio (1949-1977); la televisione e il cinema (1978-2007); Internet (2008-2014) e il periodo di convergenza mediale (2015-2022). Questa periodizzazione è tesa a evidenziare l’esistenza di quattro macrofasi precise, durante le quali gli specifici media presi in esame hanno contribuito in maniera particolarmente rilevante al processo di nation building[7] (pp. 7-9).
Il ruolo dei media cinesi nel processo di nation building
Fin dal 1949, sottolinea Negro nel quarto capitolo, i media tradizionali sono stati attori fondamentali nel delicato processo di costruzione dell’identità nazionale cinese. I giornali e la radio, subordinati all’attività editoriale dell’agenzia di stampa Xinhua, contribuirono alla definizione della lingua nazionale, alla diffusione di un nuovo linguaggio politico e alla diminuzione del tasso di analfabetismo nel Paese (pp. 67-84). Se durante la Guerra fredda i Paesi del blocco occidentale fecero del free flow of information una nuova dottrina cardine nella regolamentazione dei media nazionali e internazionali, parallelamente quelli del blocco comunista concepirono i media come importanti strumenti educativi, che andavano controllati e regolamentati allo scopo di accelerare la costruzione socialista[8]. La Cina popolare aderì al sistema dell’informazione sostenuto dal blocco sovietico e dal 1949 procedette alla nazionalizzazione del settore, poiché i mezzi di comunicazione, secondo quanto era già stato sancito dalla Conferenza di Yan’an del 1942[9], dovevano «riflettere l’ideologia del Partito, contribuendo allo sviluppo di una società socialista» (p. 70).
Il quinto capitolo, che tratta il periodo di riforma e apertura cinese e il decennio che seguì la morte di Deng Xiaoping (1978-2007), mostra, invece, come nel settore dell’informazione si fecero spazio nuovi valori quali l’oggettività, la veridicità e la brevità, da cui presero avvio anche il processo di professionalizzazione e di differenziazione del settore dell’informazione. I media iniziarono a ricoprire un ruolo più complesso e variegato, finalizzato a creare un ambiente favorevole alla realizzazione delle cosiddette “quattro modernizzazioni” cinesi. Il settore dell’informazione diventò una «istituzione pubblica a gestione imprenditoriale» (p. 85), e questa transizione venne accompagnata da un grande elemento di novità: l’inserimento di inserzioni pubblicitarie. Dagli anni Novanta in poi, furono la TV e il cinema a ricoprire un ruolo fondamentale nel veicolare un’idea di “Nuova Cina”, legata alle logiche di mercato e sempre più globalizzata, incentrata sul processo di modernizzazione dello Stato socialista e sull’assorbimento dei valori occidentali. In questo contesto, la direzione centralizzata del Partito Comunista Cinese sul sistema mutò in un «controllo più articolato e meno dirigista dell’opinione pubblica» (pp. 87-92). Per quanto riguarda la posizione della Repubblica Popolare nel contesto mediatico internazionale, venne ridotto il divario tecnologico con i Paesi più sviluppati e, soprattutto nel campo del cinema, si fece strada il concetto di sostenere la “melodia dominante”, ossia i valori socialisti e di unità nazionale, aprendo la strada al progetto di rafforzamento del soft power cinese (pp. 101-103).
Il nuovo millennio, in particolare il periodo che va tra il 2008 e il 2014, ha visto invece il protagonismo di un altro medium, Internet, come spiega il sesto capitolo del volume. Con la leadership di Xi e lo sviluppo di piattaforme Web 2.0, poi, il Partito Comunista ha elaborato un sistema di censura e di controllo sempre più sofisticato, che ha messo in luce la sua adattabilità e la sua versatilità nell’affrontare nuove sfide. Anche Internet ha contribuito a sviluppare una forma di comunicazione che implica e promuove l’esistenza di una comunità nazionale con valori condivisi, grazie: alla diffusione di nuove forme espressive e del nuovo netspeak cinese; alla nascita di un nazionalismo digitale, che, tramite le discussioni online, rafforza il senso identitario all’interno del Paese, raggiungendo però anche la vasta comunità di cinesi residenti all’estero; al consolidamento del tecno-nazionalismo cinese. Xi ha infatti sostenuto diversi piani di sviluppo tecnologico nel corso del suo secondo mandato, premendo sul concetto di sovranità e autosufficienza nel settore delle telecomunicazioni, che è stato altresì un elemento ricorrente nella storia contemporanea dei mezzi di comunicazione nella RPC[10]. I cambiamenti nella governance di Internet sono avvenuti proprio sotto la spinta dell’attuale presidente, grazie alla promozione del concetto di “sovranità del cyberspazio” e alla creazione di un Gruppo centrale per la cybersicurezza e l’informatizzazione, al fine di rafforzare le capacità creative e manifatturiere della Cina popolare nel settore dell’alta tecnologia e renderla una “forte cyberpotenza” (pp. 115-118).
L’attualità (2015-2022) è infine caratterizzata da un periodo di “convergenza mediale”, ossia di integrazione funzionale tra vecchi e nuovi media attraverso il loro sviluppo condiviso, una massiccia centralizzazione del loro controllo e il rafforzamento dello stato di diritto (p. 132). Il coordinamento tra settore legislativo, governativo e tecnologico, infatti, ha posto le basi per il consolidamento di questo fenomeno (p. 128). Una svolta decisiva in questo senso è avvenuta sotto la leadership di Xi Jinping, il quale ha decretato la centralità del Partito nella gestione di tutto il sistema dell’informazione cinese, enfatizzando il legame tra media e identità nazionale con la pubblicazione nel novembre del 2013 del documento relativo alle Decisioni del Comitato Centrale del PCC sulle diverse problematiche relative a un rafforzamento delle riforme (p. 135).
Conclusioni
Il quadro che emerge da questa analisi porta all’attenzione tre aspetti importanti della storia dei media cinesi, come sottolinea Negro. Il primo è la centralità rivestita dai media nel processo di negoziazione tra politica, economia e società cinesi nel corso della storia cinese contemporanea (p. 144). Il secondo, fortemente legato al precedente, è la coerenza delle scelte politiche delle diverse generazioni del Partito Comunista nella gestione dei media. Da ultimo, ha una rilevanza decisiva «la capacità del sistema mediale cinese di creare costantemente una retorica nuovista, finalizzata alla continua (ri)creazione di valori nazionali» (p. 145). In epoca maoista i media forgiarono un’idea condivisa di nazione, legata al topos di “Nuova Cina” che si rialza dopo aver attraversato “un secolo di umiliazioni” perpetrate dalle potenze straniere[11]. Lo storytelling della Cina negli anni Ottanta e Novanta fu invece più articolato e complesso: permaneva la volontà di promozione dei valori socialisti, ma essi convivevano con dinamiche di mercato. Lo scopo era quello di proiettare un’immagine di “Cina avanzata”, la cui cultura, scienza e società socialista erano indirizzate verso un processo di ulteriore modernizzazione (p. 143). La leadership di Xi si è invece concentrata sul rafforzamento dell’ideologia, sul processo di centralizzazione e di convergenza mediale, ma soprattutto sulla definizione di ambizioni di carattere globale per i media cinesi. Esse hanno determinato un deciso orientamento dei mezzi di comunicazione alla valorizzazione del concetto di rinascita del Paese in termini di prosperità e prestigio sull’arena internazionale (p. 145).
In questa recensione l’autrice si è limitata a dare rilievo ai punti più importanti toccati nel volume e a restituire il quadro di coerenza e continuità che caratterizza l’evoluzione del sistema dei media cinesi. Tuttavia, Negro riesce a farne emergere efficacemente anche gli elementi di rottura, nonché a spiegare perché il loro sviluppo non debba intendersi come completamente monolitico e monodirezionale, portando all’attenzione diversi casi studio interessanti e concentrandosi sul rapporto tra settore pubblico e privato e media nazionali e locali. Le voci di Pechino, in conclusione, coglie in maniera sintetica e assolutamente esaustiva la complessità del processo di evoluzione del sistema mediatico cinese, offrendo spunti di riflessione utili soprattutto agli studiosi e agli studenti universitari che si occupano di media e/o di Cina, ma, più in generale, anche a chi intende comprendere e contestualizzare lo storytelling di Pechino.
[1] Per un approfondimento sul concetto di “nuova assertività”, si rimanda a: C. Galzerano, Recensione di: “Cina. Prospettive di un Paese in trasformazione” a cura di Giovanni B. Andornino, «Pandora Rivista», n. 1 (2022), pp. 142-149.
[2] La bibliografia al riguardo è sterminata e in questa sede si riportano solo un paio di riferimenti: C. Bianchini, Come imparare a riconoscere il falso in rete, Editrice Bibliografica, Milano 2017; G. Riva, Fake news. Vivere e sopravvivere in un mondo post-verità, il Mulino, Bologna 2018.
[3] Per il caso cinese, in ambito accademico la tematica del rapporto tra i media e la costruzione dello Stato-nazione maoista inizia a emergere già all’inizio degli anni Settanta. Si veda, ad esempio: A.P. Liu, Communications and National Integration in Communist China, University of California Press, Berkley 1971.
[4] Sul rapporto tra i media e la storia, si veda: G. Bernardini e C. Cornelissen (a cura di), La medialità della storia. Nuovi studi sulla rappresentazione della politica e della società, il Mulino, Bologna 2019.
[5] Si rimanda al capitolo due del libro Spunti metodologici e all’interessante prefazione di Gabriele Balbi e Laura De Giorgi: G. Negro, Le voci di Pechino, pp. 9-14 e pp. 25-45.
[6] G. Balbi, Una storia della storia dei media. Mappa di una disciplina in formazione, «Problemi dell’informazione», 36(2-3) (2011), pp. 163-192.
[7] Il primo, il secondo e il terzo capitolo sono dedicati alla Introduzione, agli Spunti metodologici e alla problematizzazione di alcuni termini chiave, come propaganda e comunicazione, mentre l’ottavo (e ultimo) capitolo alle Conclusioni.
[8] O. Boyd-Barrett, Free Flow Doctrine, in S.W. Littlejohn e K.A. Foss (a cura di), Encyclopedia of Communication Theories, vol. 1, SAGE, Thousand Oaks 2009, pp. 413-414.
[9] Sul Forum di Yan’an si veda: B.S. McDougall, Mao Zedong’s “Talks at the Yan’an Conference on Literature and Art”. A Translation of the 1943 Text with Commentary, Center for Chinese Studies – University of Michigan, Ann Arbor 1980.
[10] La tematica è analizzata anche in: E. Harwitt, China’s Telecommunications Revolution, Oxford University Press, Oxford 2008, pp. 30-34.
[11] A.C. Lavagnino e B. Mottura, Cina e modernità. Cultura e istituzioni dalle Guerre dell’oppio a oggi, Carocci, Roma 2016, pp. 21-41 e pp.101-102.