“Lo spirito del mondo come un salmone. La Cina e l’intelligenza artificiale” di Moritz Rudolph
- 23 Dicembre 2024

“Lo spirito del mondo come un salmone. La Cina e l’intelligenza artificiale” di Moritz Rudolph

Recensione a: Moritz Rudolph, Lo spirito del mondo come un salmone. La Cina e l’intelligenza artificiale, traduzione di Olimpia Malatesta, Edizioni Tlon, Roma 2024, pp. 112, 13 euro (scheda libro)

Scritto da Enrico Comes

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«Pensare non è un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno intorno all’altro. Il pensare si realizza piuttosto nel rapporto fra il territorio e la terra». Con queste parole Deleuze e Guattari davano forma alla proposta di una geofilosofia che si proponesse come paradigma di lettura della filosofia, e in primis della sua storia, attraverso l’utilizzo di concetti provenienti dalla geografia. L’idea era di considerare l’origine territoriale del pensiero, la sua stretta appartenenza al territorio, al punto da ritenere impossibile comprendere gli sviluppi dell’uno senza considerare anche l’evoluzione dell’altro. Quello messo in atto dai due filosofi francesi, in altre parole, è un processo di riappropriazione della terra da parte della riflessione filosofica, in una sorta di riavvicinamento alla terra dell’idea hegeliana di filosofia come capacità di apprendere il proprio tempo nel pensiero.

Entro tale prospettiva sembra collocarsi anche il libro di Moritz Rudolph, Lo spirito del mondo come un salmone, edito da Tlon, attraverso cui l’autore cerca di cogliere l’evoluzione del pensiero, dello spirito del mondo (Weltgeist) all’interno di una cornice geostorica segnata dalla globalizzazione e dallo sviluppo del capitalismo. A emergere è una storia circolare, dialettica, in cui origine e fine coincidono. In tal senso, la prospettiva geofilosofica e la concezione hegeliana della dialettica, quest’ultima in parte rivista, sono qui magistralmente fuse, facendo da architrave all’intero impianto teorico del libro. A ribadirlo è lo stesso Rudolph sin dalle primissime pagine in cui dichiara di far suo l’asserto hegeliano sulla filosofia della storia, secondo cui «la storia ha da cominciare con il regno di Cina» (p. 11). Ma, mentre per il padre della dialettica la fine della storia non corrispondeva al suo punto di inizio, Rudolph si mostra più hegeliano dello stesso Hegel, prendendo sul serio la proposta dialettica. È in Cina, dunque, che l’autore vede il tramonto della storia, il suo “Occidente” per dirla con un gioco di parole. La tesi del libro è, infatti, che la Cina rappresenta la terra verso cui si orienta lo spirito del mondo, il punto cardinale dove volgere lo sguardo se si vuol comprendere il nostro tempo nel pensiero. Come il salmone risale la corrente del fiume per deporre le uova, in un movimento di ricongiungimento con l’origine, così per Rudolph il movimento della storia non si compirebbe in Occidente, secondo il monito di Hegel, ma in Oriente, e in particolare in Cina, lì dove tutto è iniziato.

A essere rimessa in moto è la dialettica della storia, contro tutte le letture e le ipotesi sulla sua fine. Qui, ancora una volta, il bersaglio polemico è certamente Hegel, ma anche lo stesso Fukuyama che pure, per parte sua, aveva intuito la possibilità della Cina di essere «la più grande sfida alla sua tesi sulla fine della storia» (p. 13). Eppure, per Rudolph, Fukuyama è reo di esser stato troppo fedele alla lettera hegeliana dimenticandosi dello spirito, «che è tuttavia la vera posta in gioco» (p. 14). Uno spirito che si comporta come un salmone dialettico, che non deve risalire la corrente, ma chiudere un cerchio per tornare alle origini, deporre le sue uova e morire. Ma per quale motivo lo spirito del mondo finirebbe proprio in Cina? E, soprattutto, perché dovrebbe dissolversi proprio mentre raggiunge il suo culmine, «in modo tale che nulla venga dopo di esso e che si possa effettivamente giungere a un tramonto definitivo della storia, presagito in parte anche da Fukuyama?» (p. 17).

Così, nelle pagine centrali e per tutta la prima parte del libro, Rudolph offre al lettore una descrizione della realtà cinese, tratteggiando uno scenario utopico quanto drammaticamente reale. Qualcosa di difficilmente comprensibile ad uno sguardo occidentale abituato all’idea di un reale unicamente razionale, per dirla ancora con Hegel, lì dove invece il reale è ben più che razionale, addirittura virtuale e il virtuale reale. Sia qui sufficiente ricordare un aspetto: ad oggi, la Cina «sta depositando un numero di brevetti riguardanti l’intelligenza artificiale da due a tre volte superiore rispetto agli Stati Uniti e si presume che presto assumerà anche la leadership nel loro impiego» (p. 24). La prima tecnologia chiave dalla Seconda guerra mondiale in poi, per la prima volta non è nelle mani degli Stati Uniti e, soprattutto, è la prima tecnologia a non essere controllata dall’Occidente nella storia dello sviluppo capitalistico. Occorre volgere lo sguardo a Oriente, come sostiene Rudolph, e in particolare sulla spiaggia di Shenzhen per comprendere la portata di tale mutazione. Shenzhen è, per quanto riguarda gli hardware, la continuazione cinese della Silicon Valley, ed è qui che lo spirito del mondo sta provando ad approdare.

È proprio questo «habitus digitale», incarnato nell’intelligenza artificiale, a guidare l’ascesa della Cina. Davvero qui il logos si è fatto macchina, per dirla con le parole di Remo Bodei, informando di sé una nuova ecclesia digitale che riconosce nell’intelligenza artificiale il celebre «tutto in tutti» paolino. Mentre l’Occidente resta in attesa del ritorno del Cristo, la Cina sembra esser sulla strada di un suo possibile compimento, «che si verificherà nel Punto Omega digitale, quando l’evoluzione tecnica autonoma avrà completamente sostituito quella biologica» (p. 60), determinando la scomparsa dell’essere umano come mediatore tra le due sfere. In ciò consiste, paradossalmente, il compimento illuminista dell’essere umano iniziato a Occidente. Nel momento della sua più alta realizzazione ottenuta per mezzo della creazione dell’intelligenza artificiale, egli non può che finire alienato in essa. A ripetersi è quell’antico processo di kenosi (letteralmente “alienazione”) già avvenuto nella notte di Natale con il Dio fattosi carne; per cui non sorprende che gli esseri umani elevatisi al rango divino «si alienino nelle cose da loro create, compreso il mondo della macchine» (p. 61). Novello Dio nell’epoca dell’Antropocene, l’umano crea da sé e per sé un mondo nuovo, quel Novacene ben descritto da James Lovelock, popolando di esseri nuovi, come l’intelligenza artificiale.

Ma se il Novacene resta un’ipotesi piuttosto speculativa, l’analisi di Rudolph acquista tratti possibilisti attraverso una disamina geopolitica che accompagna il lettore per tutta la seconda parte del libro. Appare chiaro che il precedente equilibrio mondiale tenuto vivo dai due fuochi dell’ellisse terrestre, l’Unione Sovietica (con il suo sistema politico autoritario) e gli Stati Uniti (con l’idea del libero mercato), sembra essersi risolto sinteticamente nella Cina. Ciò che è in marcia da circa quarant’anni, secondo Rudolph, è l’inverarsi di un “nuovo equilibrio mondiale” che vede la Cina come unica vera potenza globale. «La singolarità tecnologica viene accompagnata dalla singolarità geopolitica che pone fine a tutte le geografie e procede verso il globo come spazio di dominio amministrato» (p. 69).

Un dominio, peraltro, espresso non necessariamente nella sua forma violenta, come ribadisce più volte l’autore, ma qualcosa che attiene piuttosto ad una lenta e progressiva accettazione di una certa efficienza amministrativa, recuperata da Horkheimer e dall’idea della barbarie stabile degli apparati. Un mondo in cui ogni dettaglio della nostra vita viene regolamentato, trasformando così ogni soggettività in una oggettività creata. In un siffatto mondo non c’è più alcun “fuori”, non c’è posto per alcuna spontaneità considerata unicamente come ostacolo al processo di sviluppo e di amministrazione, ma solamente il ripetersi dello stesso, l’inferno dell’uguale. Un falso Regno, dunque, in luogo di quello celeste che però avrà tutti i caratteri di quest’ultimo, il cui instaurarsi diventa possibile a causa di quella «stanchezza occidentale per la globalizzazione» (p. 70) che attraversa l’Occidente da parte a parte. In tal senso, la pandemia ha contribuito ad attaccare un organismo già malato, aggravandone le aspettative di vita. Singolare è che gli stessi pionieri della globalizzazione (Regno Unito e Stati Unti) siano stati tra i primi a rendersi conto della fine di tale sogno – si veda in tal senso la Brexit prima e la rielezione di Trump poi – e tra quelli che hanno peggio subito l’ondata di Covid-19.

La crisi degli Stati Uniti, il lento processo di depotenziamento dell’Europa, vengono da Rudolph interpretati come segni sin troppo evidenti di un’agonia dell’Occidente, il cui virus assume le forme di quelle smanie di particolarismo che rompono con gli universalismi della globalizzazione degli anni Novanta e Duemila. Ma mentre un’idea universale muore, lo spirito del mondo volge a Oriente per informare di sé e dare vitalità ad una nuova forma di universale: l’idea di Tianxia. Un termine che proviene dall’antichità cinese e indica “tutto ciò che è sotto il cielo”, riferendosi allo spazio in cui si estendeva la rivendicazione imperiale di potere. Oggi, aggiunge Rudolph, non si tratta più di conquista e di espansione, ma di contenimento e prevenzione, per cui il cielo impartisce un nuovo mandato negativo: essere custodito.

Lo scatenarsi di un potere sistemico composto da capitale globale, tecnologia e servizi mette in pericolo l’umanità. La minaccia dell’autodistruzione e dello smarrimento di sé diventa altamente reale se la violenza sistemica si combina con l’intelligenza artificiale. Per arginare tutto questo, di fronte ad un Occidente ormai stanco e incapace di reagire, Zhao Tingyang, filosofo politico vicino al potere, propone la formazione di una Comunità d’Azione “Tianxia” a guida cinese. L’idea, in altre parole, è che il mondo intero lentamente si affidi alla Cina e riconosca in essa l’unico soggetto capace di agire come potere in grado di evitare la catastrofe, e al tempo stesso di garantire vitalità a quell’idea di sviluppo nata in Occidente. La Cina assume così i tratti di quel “potere che frena” (katèchon), sulla cui legittimità a lungo l’Occidente si è interrogato, riconoscendolo ora nello Stato ora nella Chiesa.

Verrà così a realizzarsi quel “Babeuf globale”, come lo definisce Rudolph, ovvero uno Stato mondiale comunista, ma di un comunismo del tutto peculiare. Ispirato al programma di Gracchus Babeuf, che con la Rivoluzione francese voleva instaurare uno Stato coercitivo globale, un primo Stato comunista che avrebbe fatto della redistribuzione e della limitazione delle risorse le sue coordinate politiche, il comunismo del Babeuf globale assume caratteristiche decisamente più serie: non si tratta più di liberare il mondo per il godimento, secondo il credo di Marcuse, ma «di arginare la paura nel mondo». Un tale comunismo «aumenta la possibilità di restrizioni per portare l’umanità a uno stato omeostatico senza crescita, senza distruzione, senza disuguaglianza» (p. 89). Tutto ciò reso possibile dall’impiego massiccio e pervasivo dell’intelligenza artificiale.

Si giunge così alla fine del libro pervasi da quella tipica sensazione di vertigine che attraversa il corpo e la mente di chiunque provi a indossare un casco di realtà virtuale. Una sorta di spaesamento derivato dal trovarsi in una realtà altra ma non per questo meno reale, anzi “aumentata”. L’analisi di Rudolph, in fondo, assomiglia tanto ad uno di quei visori che, una volta indossato, ci proietta in un futuro presentificato così ben descritto da sembrare vero, forse un po’ soffocante, senza via di scampo, ma piuttosto reale. Eppure, se i visori possono essere spenti o riprogrammati, lo stesso non può dirsi dell’incedere della storia. Certo, un’intelligenza artificiale in grado di generare un sistema tecnologico autonomo e senziente è ancora ben di là da venire, forse addirittura impossibile. Resta nondimeno reale il contrarsi dell’Occidente a favore di un certo Oriente di cui la Cina è motore trainante. Viene da chiedersi se siamo davvero giunti al “tramonto occidentale” o se sia possibile ritrovare nelle rovine quelle risorse simboliche necessarie a riattivare l’agire politico.

Scritto da
Enrico Comes

Dottorando in Filosofia nell’ambito del dottorato interdisciplinare “Immagine, linguaggio, figura: forme e modi della mediazione” presso l’Università di Milano. Si occupa, inoltre, di marketing elettorale e comunicazione politica. Ha partecipato al corso 2023 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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