Scritto da Alessandro Ambrosino
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I limiti del dibattito attuale sulle regioni
Fra le molte trasformazioni politiche che gli stati europei hanno sperimentato dal secondo dopoguerra in poi vi è l’emergere della dimensione regionale come spazio politico e decisionale. Tali processi di devoluzione dei poteri e delle risorse dal centro alla periferia, siano essi derivati da decisioni statali prese sotto le spinte di movimenti e partiti regionalisti oppure siano il risultato di politiche comunitarie di coesione, hanno contribuito a rafforzare il protagonismo dei territori, i quali sono riusciti ad acquisire funzioni e competenze e sono stati per lungo tempo uno fra gli spazi più avvantaggiati dalle riforme di sviluppo economico e sociale dell’Unione.
Attualmente però, il ruolo delle regioni nell’Unione Europea sembra essersi affievolito ed è poco conosciuto da chi non si occupa di politiche pubbliche e di amministrazione. Certamente, tale situazione è determinata prima di tutto dal fatto che la maggior parte delle regioni in Europa si rapporta alle istituzioni di Bruxelles solo per questioni burocratiche, non avendo mai sviluppato un ruolo politico autonomo, ma non va dimenticato che, nel contesto attuale, l’Europa e gli Stati membri si trovano in un’impasse decisionale rispetto al maggiore o minore livello di integrazione che ci deve essere all’interno dello spazio europeo, nel quale l’unico rapporto che ha trovato un margine di analisi teorica è quello dalla dimensione nazionale alla dimensione europea e viceversa.
Nel dibattito corrente, infatti, gli attori che giocano un ruolo attivo nelle discussioni sul futuro politico ed economico dell’Europa sono le istituzioni comunitarie, peraltro neanche tutte, e gli Stati membri, mentre le acredini si strutturano su quello che Francesco Scatigna ha descritto come un triangolo composto dalla politica intergovernativa, dal nazionalismo e dal federalismo, ovvero da tre visioni che prospettano o il mantenimento dello status quo o il ritorno alle Patrie, oppure sperano si concretizzi l’idea degli Stati Uniti d’Europa[1].
Ne risulta una disputa alquanto semplificata, che, come spesso accade nel contesto attuale, caratterizzato dall’immediatezza e dall’assenza di spessore dell’analisi[2], non solo non permette l’inserimento di altri attori decisionali, ma soprattutto impedisce qualsiasi sfumatura e colloca da un lato dello spettro gli euroscettici, spesso critici in maniera assoluta di tutto quello che è stato costruito in questi ultimi settant’anni, e dall’altro lato i sostenitori dell’Europa federale, convinti che l’intero progetto europeo sia sotto l’attacco dei riemergenti nazionalismi e vada difeso a spada tratta senza soffermarsi su cosa voglia effettivamente significare il federalismo in Europa[3]. Costringere il discorso sul futuro delle politiche europee ad una contrapposizione così netta non può che ridurne l’efficacia. Per di più, limitando la gamma delle proposte, vengono ostacolate delle riflessioni su alcune alternative che sono state elaborate nel corso della storia dell’integrazione in seno al progetto comunitario.
Chiaramente non si vuole qui sostenere che il superamento delle difficoltà dell’Unione sia da ricercarsi in una ristrutturazione che preveda le regioni come sue unità politiche centrali, poiché, osservando le trasformazioni in atto, tale idea sarebbe palesemente errata. Tuttavia, va riconosciuto come, nel processo che ha portato alla costruzione dell’odierna UE, vi sia stato chi ha proposto un’opzione regionalista che in certi momenti della storia dell’integrazione europea ha influito non poco sul risultato finale dell’intero percorso di costruzione dell’Europa Unita così com’è oggi. Si tratterà dunque di dare una panoramica di questa opzione, capire perché, per certi versi, non ha avuto successo e considerare criticamente che stimoli può attualmente offrire.
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Indice dell’articolo
Pagina corrente: I limiti del dibattito attuale
Pagina 2: Integrazione europea e regioni
Pagina 3: Le regioni in Europa oggi: incerte prospettive