Recensione a: Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, pp. XII – 284, 28 euro (scheda libro)
Scritto da Giulio Pennacchioni
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Il nome di Niccolò Machiavelli evoca una moltitudine di pulsioni, idee, suggestioni, interpretazioni, passioni e persino riprovazioni e condanne. L’intento di questa ricerca di Alberto Asor Rosa è quello di esplorare fino a che punto la predicazione e l’azione di Machiavelli abbiano influenzato la storia d’Italia, quella a lui contemporanea e, almeno per certi versi, quella successiva. Come mai colui che viene considerato, quasi all’unanimità, il fondatore della teoria politica moderna, nasce, vive, opera e soprattutto pensa nel paese a quei tempi politicamente più contrastato e contraddittorio d’Europa, e cioè l’Italia? Non si tratta di dar conto soltanto di quella che di solito si definisce «la situazione storica», o il cosiddetto «contesto», all’interno del quale pensiero e azione si dispiegano: il tentativo di Asor Rosa, infatti, tiene insieme allo stesso tempo l’analisi di fattori di condizionamento esterni e la presa in esame dei molteplici tentativi di Machiavelli di comprenderli. Inoltre, l’intreccio di cui si parla nel libro si riferisce a quei quarant’anni (1492-1530) dotati di una forte singolarità e che non hanno linee di somiglianza con altri periodi e situazioni della nostra storia nazionale, ma a partire da cui si sarebbero determinati i destini della Nazione fino ai giorni nostri.
La domanda centrale da cui parte Asor Rosa è comprendere come mai Machiavelli abbia scelto l’Italia come campo di sperimentazione per formulare gli elementi base della scienza politica moderna, nonostante non gli mancasse una precisa conoscenza di altre situazioni politiche (aveva svolto un incessante lavorio diplomatico fuori dei confini italiani, soprattutto prima del ’92). Le risposte delineate dall’autore sono due.
La prima è di ordine squisitamente culturale. Machiavelli si nutre della grande cultura italiana dei due secoli precedenti, che è caratterizzata da un afflato politico e civile molto forte. Il primo dato che Asor Rosa ci propone è dunque questo: la scienza politica nasce, con Machiavelli, da un humus culturale che pose le basi per una conoscenza illimitata non solo del politico, ma anche dell’umano. L’Umanesimo italiano rivissuto come un laboratorio perennemente attivo e operante, che consentì a Machiavelli di affiancare, nel suo campo di osservazione, all’Italia e all’Europa in cui lui viveva, anche la Roma antica. Ma il quadro, secondo Asor Rosa, è persino più ampio. In fondo anche Dante, molto studiato e amato dall’autore de Il Principe, aveva posto ai suoi tempi un problema molto simile a quello che l’autore fiorentino affronterà due secoli più tardi.
La seconda linea che il libro evidenzia è che la grande scienza politica moderna, di cui Machiavelli è l’iniziatore, non è mai solo sapere, ma è anche volere: è conoscere per volere. Quello che Machiavelli intende proporre è insomma, aldilà del puro politico, l’idea di un «homo novus», dotato di caratteristiche diverse rispetto a qualsiasi altra forma del passato. Affinché questo si realizzasse sarebbe stato necessario che la pura praxis fosse illuminata da un nuovo sguardo sul mondo. Lo stato d’eccezione in cui versa l’Italia del suo tempo lo sollecita a uno straordinario sforzo per rispondere ad un bisogno di conoscenza e di azione: per salvare l’Italia non bastavano gli strumenti consegnatigli dalla tradizione.
Oltre a proporre queste due linee tematiche di fondo, il libro offre un’analisi di tutti gli eventi scaturiti dalla discesa in Italia di Carlo VIII di Francia e dei fatti avvenuti fino all’incoronazione di Carlo V (divenuto nel 1530 re d’Italia), che sancirono per secoli l’asservimento politico e civile dell’Italia. Oltre a fornire una ricostruzione storica di tutta quest’epoca, da Asor Rosa definita la «grande catastrofe», sono mostrati anche gli effetti che tutto essa ebbe sulla vita, e quindi sul pensiero, di Machiavelli. In particolare viene percorsa tutta la storia epistolare dell’autore fiorentino a partire dal 1513 (anno in cui viene scritta l’opera Il Principe) fino al 1530, concentrandosi sull’amicizia con l’ambasciatore della Repubblica fiorentina Vettori e con lo scrittore, storico e politico italiano Guicciardini.
Machiavelli e l’Italia evidenzia anche come l’idea di una decadenza italiana non sia qualcosa che nasce con questi autori del primo Cinquecento, ma come permei piuttosto la cultura italiana. L’Italia è sempre declinata al passato e, per tornar grandi, bisogna superare e cancellare l’umiliante presente: il futuro è la riconquista di una memoria. Questa lettura della situazione italiana sopravvive alla «grande catastrofe» e arriva, secondo Asor Rosa, fino a giorni molto vicini a noi. Basti pensare ad autori come Vincenzo Gioberti[1] o, facendo invece un passo indietro, alla deplorazione di Francesco Petrarca in Italia mia, o ancora alla testimonianza dell’emiliano Fulvio Testi, citata nel libro.
Machiavelli e l’Italia sottolinea la straordinarietà del discorso politico machiavelliano, incentrato sul rapporto fra due concetti quali quelli di necessità e libertà, facendone il precursore di un pensiero politico moderno. Non è un caso che, nel Principe, Machiavelli chiami in causa un valore-concetto come il «libero arbitrio». Infatti: per pensare che ci sia un qualche rimedio possibile all’azione rovinosa della fortuna, come Machiavelli si sforza di dimostrare fin dall’inizio del VI capitolo[2], è necessario che virtù e fortuna, libertà e necessità, siano ricalibrate in una nuova forma. Asor Rosa non pensa che Machiavelli utilizzasse il concetto di «libero arbitrio» né come l’equivalente filosofico-religioso del laico «virtù», né come un omaggio ai meriti della casa Medici[3], bensì come un valore-concetto che i suoi contemporanei sarebbero stati in grado di capire. Machiavelli, teorizzando, per la prima volta in modo così inequivocabile, modi e contenuti del rapporto conflittuale perenne tra libertà e necessità, entra nel novero dei fondatori del «moderno», anzi, ne è uno dei più indiscutibili precursori. Tutto ciò è tanto meglio evidenziato dall’evocazione di immagini plastiche da parte dell’autore fiorentino, funzionali al lettore per comprendere appieno il senso del suo pensiero critico. Asor Rosa sottolinea in particolare la figura dei «fiumi rovinosi», che «quando si adirano, allagano e’ piani, ruinano li arbori e li edifizi»[4]. Se però gli uomini li prevenissero, scavando canali liberatori ed erigendo argini, se ne potrebbe limitare e ridurre l’impeto (la fortuna non conosce ostacoli che le impedirebbero in ogni caso di agire). Per quanto la «fortuna» sia spesso imprevedibile e sovente irrimediabile, ciò non si può dire per l’azione dell’uomo, quindi anche del «principe», che cerca in tutti i modi di adempiere ai fini da lui desiderati e previsti.
Questo libro vuole mostrare proprio come esistano le condizioni (proprio in quanto estreme) perché nasca in Italia «un nuovo principe» che prenda nelle proprie mani le sorti della nazione e la riscatti dalla servitù barbarica a cui era stata costretta dopo le invasioni. Non è lo scopo di Machiavelli e l’Italia mettere in discussione la più o meno sostanziale identificazione del «principe nuovo» nella Casa Medici, o in uno qualsiasi dei suoi possibili esponenti, presenti e futuri. Machiavelli non trova utopico individuare un soggetto storico preciso del rinnovamento e della riscossa dell’Italia, che per l’appunto travalichi tutte le singole identità regionali e statuali, il «veneziano», il «toscano», il «lombardo» eccetera eccetera, accettando persino di perdersi nell’indeterminatezza di un appello retorico (non è un caso che facesse riferimento a figure come Mosè, Ciro, Romulo e Tesio).
Niccolò Machiavelli è uno dei protagonisti del Cinquecento italiano, ma il suo pensiero è stato troppo spesso associato solo a quanto si intende con “machiavellismo”. Il termine, entrato nel linguaggio comune come «sinonimo di opportunismo politico», ha una connotazione negativa tale che, come mostrato da Asor Rosa, sarebbe più opportuno parlare di “antimachiavellismo”. La deformazione del malinteso ha raggiunto sicuramente l’apice con Federico II di Prussia[5], che presenta Machiavelli come un difensore della tirannia e della crudeltà. Immanuel Kant, nel suo saggio Per la pace perpetua. Un progetto culturale[6] teorizza l’antimachiavellismo come la subordinazione della politica ai superiori valori morali. Vi sono tuttavia degli autori che, anche nel XVIII secolo, si sono opposti alla corrente interpretativa di un Machiavelli che avrebbe dato dignità politica al regime tirannico e fra questi Machiavelli e l’Italia cita Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo, per i quali il machiavellismo sarebbe espressione di ideali di libertà[7]. Asor Rosa sostiene tuttavia che per far rientrare pienamente il pensatore fiorentino nel circolo della cultura italiana sia necessario aspettare il magistrale capitolo che Francesco De Sanctis gli dedica nella sua Storia della letteratura italiana[8], dove quest’ultimo apprezza in particolare la devozione alla patria e alla sua libertà dell’autore de Il Principe. Più esattamente: «L’Italia nell’utopia dantesca è il giardino dell’Impero; nell’utopia del Machiavelli è la patria, nazione autonoma e indipendente»[9]. La critica machiavelliana in Italia nel corso del Novecento, che fa riferimento nello specifico a Benedetto Croce e Giovanni Gentile, non si discosta troppo dall’archetipo desanctiano, inserendovi tuttavia una maggiore attitudine idealistica. Secondo Asor Rosa la lezione machiavelliana non è mai penetrata fino in fondo – salvo che nella ripresa di alcuni facili slogan – oltre la superficie dell’agire politico nazionale, fatta eccezione per Antonio Gramsci, e non è privo di significato il fatto che ciò avvenga dal fondo di una galera fascista.
Le proposizioni della teorizzazione gramsciana si sforzano di dimostrare che Machiavelli e il suo Principe, sono stati e sono ancora viventi, presentando il carattere di un esperimento che coinvolge ancora l’Italia: «Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del “mito” […]»[10]. Forse è perché viene anche lui da una disfatta che Gramsci afferra, o tenta di afferrare, il nocciolo dell’insegnamento machiavelliano, e cioè il nesso indissolubile fra pensiero e azione, fra teoria e prassi. Fatto sta che Gramsci non smette mai di cercare di collegare l’insegnamento del fiorentino ai suoi programmi di studio e di lavoro: «Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l’organizzatore e l’espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro»[11]. Asor Rosa esprime delle riserve su «volontà collettiva nazionale-popolare» e «riforma intellettuale e morale», ma non si può non cogliere qui lo sforzo che Gramsci compie per collocare Machiavelli e il suo Principe all’interno del suo proprio intero sistema. Ha avuto tutto ciò un qualche riversamento nella pratica della lotta post-resistenziale? Forse sì. Quello che è inconfutabile secondo Asor Rosa è che anche il messaggio gramsciano, inteso a riversare nel «partito politico» moderno l’autorevolezza di pensare e di agire dell’antico «Principe», è uscito rapidamente di scena.
Machiavelli e l’Italia è un testo che si inserisce inevitabilmente all’interno di un dibattito molto acceso intorno al pensatore fiorentino e il fatto stesso che una figura intellettuale come quella di Alberto Asor Rosa decida di occuparsene non è certo un elemento secondario, soprattutto dopo un lungo itinerario che lo ha visto esordire su posizioni radicali (si pensi alla rivista Quaderni rossi, all’operaismo) rispetto alle quali la questione della statualità italiana non appariva centrale.
Ernesto Galli della Loggia, nel quadro di una discussione svoltasi su l’Espresso, nell’ambito della quale è intervenuto, oltre allo stesso Asor Rosa, anche Massimo Cacciari, si pone su posizioni molto distanti da quelle sostenute in questo libro[12]. La posizione dello storico e accademico italiano è che vi sia una presenza eccessiva dell’autore fiorentino nella tradizione culturale italiana. La questione principale che egli ha lasciato in eredità, ovvero l’esigenza di un «principe nuovo» per l’Italia, si sarebbe secondo Galli della Loggia esaurita nel 1870 con l’azione del conte di Cavour e dell’esercito piemontese. Dall’altra parte, secondo il filosofo Massimo Cacciari, Machiavelli appartiene a un orizzonte più generale di discorso filosofico-politico, lo stesso cui appartenevano Hobbes e Spinoza. Ogni esistente vuole il potere al massimo grado delle sue possibilità e per Machiavelli il potere è solo politico: il potere sono le armi, lo Stato, ma anche l’elemento democratico. Machiavelli – in questo si esprime una convergenza con le posizioni di Asor Rosa – è repubblicano e vede già i primi segni della disfatta del comune mediceo. Religio civilis e ordine sono impossibili nell’Italia di Machiavelli e per questo sono necessari i richiami al vecchio ordine romano e il richiamo alla necessità dell’avvento di un nuovo principe.
Tornando a Machiavelli e l’italia, in questo testo si mostra come la nazione italiana non si sia mai appropriata della lezione e del messaggio di Machiavelli. Il frutto più alto sul piano politico-teorico e sul piano politico-pratico, le resta sostanzialmente estraneo. Ciò è vero in generale, ma soprattutto su due punti.
Il primo riguarda il progetto di riforma politico-istituzionale teorizzato da Machiavelli. Esso consisteva nel trasmettere all’Italia capacità e forze per resistere alla potenza invasiva dei «barbari», che da un certo momento in poi si trasforma da militare in politica, culturale, economica e civile. Il fatto è che per adempiere a tale compito l’Italia avrebbe dovuto accettare di essere un poco più «barbara»: cioè di assorbire e assimilare alcune delle caratteristiche proprie dei suoi invasori. Tutto ciò corrisponde, secondo Asor Rosa, a una prima visione nazionale del problema, nonché a una prima apertura “europea” del pensiero machiavelliano. La strutturale e dunque permanente subalternità dell’Italia ai problemi e ai bisogni dell’Europa dipende essenzialmente dal suo non aver mai praticato questa strada.
In secondo luogo: non è mai stata superata la contrapposizione fra una visione del Machiavelli «cattivo» – sostenitore del male per il male, o anche del male per il bene, ma sempre in un ambito di assoluta distonia morale – e una visione del Machiavelli «buono» –, sostenitore di cause giuste da promuovere e perseguire indipendentemente da tutte le contingenze. Il proposito di questa ricerca è mostrare che il Machiavelli è solo uno, tutto inteso dal principio alla fine a realizzare lo scopo migliore con i mezzi più adeguati. La perenne criticità e la superiorità della «politica buona» è questa. La dissociazione tra i due termini provoca continui effetti negativi e, di conseguenza, l’Italia e gli italiani aspettano ancora il «principe nuovo» necessario. I machiavellisti (inteso in senso negativo, non come il De Sanctis), e non i machiavelliani, sono stati gli operatori della politica nel corso degli ultimi decenni.
Per concludere, questo libro vuole porre l’attenzione sul fatto che da quando i grandi partiti di massa nati dalla Resistenza, cioè i «principi nuovi», sono usciti di scena – e di certo bisognerebbe spiegare perché questo è accaduto – la situazione italiana è tornata a polverizzarsi e si è ripresentato addirittura il rischio della disunione, sempre più spinta dalle più diverse opinioni e prospettive. Infatti anche soltanto parlare di coesione – sociale, intellettuale, culturale – apparirebbe oggi velleitario; l’identità nazionale è ormai diventata sempre più una nebulosa. I veri «barbari» non vengono più da fuori: sono dappertutto. Dalla Resistenza è nata la Costituzione: questo è un nesso necessario, diretto e innegabile. L’intento ultimo di questo libro di Alberto Asor Rosa è indicare il nesso inscindibile fra «il principe nuovo» pensato da Machiavelli e la tradizione ideale e culturale che ha permesso all’Italia di essere protagonista nella Resistenza e nella creazione dei grandi partiti che l’hanno resa forte agli occhi dei «barbari». Oggi più che mai – questo uno dei messaggi che il libro ci consegna – sarebbe necessario recuperare il pensiero di Niccolò Machiavelli, perché oggi più che mai l’Italia ha bisogno di un «principe nuovo».
[1] Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, Tipografia Elvetica, Capolago 1846.
[2] Niccolò Machiavelli, Il Principe, Feltrinelli, Milano 2013.
[3] Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi, Torino 2019, pp. 91-94.
[4] Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia, op. cit., Cfr. p. 100.
[5] Federico II, L’antimachiavelli, Edizioni Studio Tesi, Roma 1995.
[6] Immanuel Kant, Per la pace perpetua. Un progetto culturale, Feltrinelli, Milano 2013.
[7] Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia, op. cit., Cfr. p. 266.
[8] Francesco De Sanctis, Machiavelli, in ID., Storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1958, II, pp. 555-609.
[9] Ibid., p. 568.
[10] Sono le prime righe delle Noterelle sulla politica del Machiavelli (1932-34), Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, p. 1555, Einaudi, Torino 2014.
[11] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, p. 1561, Einaudi, Torino 2014.
[12] Leopoldo Fabiani – I FORUM DELL’ESPRESSO, La crisi italiana vista da Machiavelli. Dalle invasioni straniere del ’500 ai sovranisti di oggi, cosa insegna il grande pensatore politico secondo l’ultimo libro di Alberto Asor Rosa che ne discute con Massimo Cacciari ed Ernesto Galli della Loggia, «L’Espresso», 27 marzo 2019.