Scritto da Clara Corsetti
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«[…] Cercano Piacentini, il giovane mago dal viso di bimbo e dai nervi d’acciaio, che non dorme da parecchie notti, che si ciba di rugiada e di polvere di gesso, che è dovunque e non si vede mai […]»1
Lo storico Emilio Gentile chiama «fascismo di pietra» la «[…] vistosa e indelebile impronta che il regime di Benito Mussolini ha lasciato sul suolo italiano per i secoli futuri[…]»2, ossia tutti i monumenti, gli edifici, le strade, le piazze voluti dal dittatore sia nelle città già esistenti che nelle città di fondazione. Mussolini, con le numerosissime opere commissionate, vuole quindi lanciare un messaggio chiaro: il fascismo si propone come motore della nascita (e rinascita) di una nuova civiltà imperiale, sorta grazie al suo governo e alla sua volontà, plasmata sul mito di Roma, fulcro di questo nuovo impero. Roma e l’impero sono quindi i temi fondanti della retorica fascista e l’architettura diviene un modo di veicolare questo messaggio propagandando una visione grandiosa del duce e dell’Italia3. Uno dei più grandi fautori di questo messaggio, l’uomo in grado di trasformare in realtà i miraggi colmi di grandeur di Mussolini, è l’architetto Marcello Piacentini.
Piacentini è una figura complessa, piena di sfaccettature, certamente machiavellica e geniale. Collaboratore sì stretto del duce ma mai asservito alle volontà del dittatore, non aderisce mai fideisticamente al regime; sa però servirsene per i suoi fini personali, tessendo abilmente le sue trame e mantenendo al contempo rapporti ottimali con Mussolini.
La sua relazione col potere nasce però ben prima del regime4. Nato a Roma l’8 dicembre del 1881, è figlio d’arte: suo padre è infatti Pio Piacentini, rinomato architetto. Questo gli consente di accedere sin da subito ad ambienti di alto livello, fra cui la massoneria, che lo favoriscono molto. Marcello Piacentini però non è solo un “raccomandato”, come diremmo oggi; ha infatti un talento notevole che si manifesta sin dalla giovinezza. Nel 1906, a venticinque anni, ottiene il diploma di professore di disegno presso l’Istituto di belle arti di Roma. Nel 1909, a soli ventotto anni, è progettista dei padiglioni italiani all’Esposizione di Bruxelles di quell’anno; si occupa poi anche di quello a San Francisco del 1915. Nel 1911 è già autore dei principali palazzi che rappresentano la nuova nazione all’esposizione romana del 1911, costruiti per celebrare i cinquant’anni dell’Unità d’Italia.
Nonostante tutti questi successi ottenuti in giovane età, è proprio durante il fascismo che raggiunge l’apice della sua carriera architettonica. Quando Mussolini sale al potere, nel 1922, Piacentini ha quarantuno anni. All’inizio il rapporto con il regime non è roseo per via del suo legame, già presente, con la massoneria. Dopodiché, superati i primi attriti, l’architetto presta subito il suo lapis al duce. Comincia ad ottenere così i primi incarichi pubblici, fra i più prestigiosi e tutti rappresentativi del nuovo regime politico. Realizza così i monumenti alla vittoria a Genova e a Bolzano; la Casa madre dei mutilati, il teatro dell’Opera e il Ministero delle Corporazioni a Roma.
Piacentini alla metà degli anni Venti ha in attivo sessanta progetti in tutta la Penisola. Il suo segreto? Secondo lo storico dell’architettura Paolo Nicoloso, autore di una delle più recenti e fra le più complete biografie di Piacentini, un’attività lavorativa pressoché senza sosta, una capacità organizzativa straordinaria e soprattutto una inimitabile capacità di tessere legami col potere. Durante la sua carriera, infatti, entra in contatto con re, papi, capi di governo, ministri, vescovi, banchieri, industriali e centinaia di politici, con nessun paragone nel mondo architettonico italiano.
Ma perché Mussolini sceglie proprio Piacentini? Sempre secondo Nicoloso, il motivo di questa elezione è la capacità di Piacentini di saper coniugare programmi ambiziosi e magnificenti all’affidabilità della realizzazione. Insomma, progetti magniloquenti ma assolutamente realizzabili – ed effettivamente realizzati –. Gli incontri fra il duce e l’architetto si svolgono nella sala del Mappamondo di palazzo Venezia, oppure nei vari cantieri di costruzione o durante le inaugurazioni o le cerimonie pubbliche. Nicoloso però avverte: non v’è nessuna amicizia fra i due, ma solo un rapporto lucidamente strumentale al raggiungimento dei reciproci scopi.
Piacentini, ça va sans dire, si sa muovere egregiamente anche fra i gerarchi: l’amicizia con Giuseppe Bottai e Luigi Federzoni e la frequentazione con Galeazzo e Costanzo Ciano, Augusto Turati, Alfredo Rocco e Francesco Giunta sono solo alcuni elementi di questo network. Innumerevoli anche i rapporti con la classe politica, con il mondo industriale e della finanza – Agnelli, Donegani, Pirelli, Volpi, Ottolenghi alcuni fra i tanti –. Sono ventotto le città italiane dove presenta progetti, impianta cantieri, offre consulenze: il suo potere professionale non ha eguali. E la sua attività professionale si estende all’estero, anche al di fuori dell’Europa: America, Africa, Medio Oriente.
Per quanto riguarda l’Italia e il periodo fascista, il potere di Piacentini si accresce attraverso la politica dei concorsi di architettura e di urbanistica, gestita dal sindacato fascista degli architetti solo in maniera apparentemente equa e meritocratica. Con l’aiuto degli architetti Alberto Calza Bini, Arnaldo Foschini e altri, mette in moto una “macchina da guerra” formidabile che gli permette quasi sempre di decidere chi far vincere nelle gare di architettura. Ciò consente quindi la possibilità di legare a sé il vincitore e rafforzare la catena gerarchica.
Il sistema è ben congegnato anche a monte: Piacentini è parte di moltissime giurie di diverse gare nazionali. Si trova così nelle commissioni di alcune delle più grandi infrastrutture d’Italia: la stazione di Firenze, il palazzo del Littorio a Roma, la sistemazione di piazza Duomo a Milano, il palazzo della Civiltà italiana e la piazza Imperiale all’E42, i piani regolatori di Bolzano, Milano, Brescia, Verona, Genova, Bologna, Perugia, Rieti, Pomezia, Palermo.
In questo ingegnoso meccanismo di potere, Piacentini indossa anche le vesti del benefattore generoso. Chiama infatti a lavorare decine di artisti ed elargisce loro incarichi. Parliamo di nomi del calibro di Lucio Fontana, Giacomo Manzù, Fausto Melotti, Adolfo Wildt, Attilio Selva e molti altri. L’opera di questi artisti di primo piano del Novecento italiano è rintracciabile nella Casa madre dei mutilati a Roma, nel monumento alla Vittoria a Bolzano, nella piazza della Vittoria a Brescia, nel palazzo di Giustizia a Milano, nella Città universitaria della Sapienza a Roma, nel padiglione italiano a Parigi, all’E42 a Roma. L’obiettivo, per Piacentini, è quello di raggiungere un’unità fra le arti, ovviamente sotto la guida e l’egida dell’architettura.
Allo stesso modo, ossia con una struttura verticistica sorretta da una struttura clientelare – di cui l’architetto è ovviamente a capo –, Piacentini gestisce anche il mondo universitario. Nel 1929, durante il regime e il suo sodalizio col duce, ottiene la cattedra di urbanistica per chiara fama. Nel 1935 è già preside della Facoltà di architettura di Roma, la più importante dell’epoca. Da lì, distribuisce cattedre in tutta Italia a suoi amici, sodali e alleati, rafforzando la sua posizione e i rapporti di clientela col mondo degli accademici. Non si ferma qui: dalla stessa posizione può influenzare gli indirizzi architettonici dei vari istituti universitari, che in altre parole significa influenzare anche l’istruzione nello stile dei futuri architetti.
Piacentini ha sicuramente intenzione di “lasciare il segno”, ma non basta. L’architetto ha infatti l’obiettivo, molto più ambizioso, di promuovere la propria cifra, un proprio indirizzo stilistico, che deve divenire espressione dell’architettura italiana. La posizione di vertice che ricopre nella professione, nella scuola e più in generale nella cultura architettonica italiana gli offrono un’occasione unica, una cabina di regia che può arrivare ovunque. Inoltre, sul finire degli anni Venti e poi anche negli anni a venire, l’architetto intuisce che il regime dittatoriale può fornirgli la base da cui partire per instaurare la sua egemonia.
Il fascismo, come ricordato all’inizio di questo articolo, vuole essere scolpito nella pietra, ed essere appunto, usando sempre le parole di Gentile, un «fascismo di pietra». Il regime vuole dunque avere un’architettura ufficiale, un marchio, un elemento che lo contraddistingua, che ricalchi il nuovo impero. Cosa ci può essere di più duraturo, quindi, di monumenti, interi quartieri e nuove città? E quale miglior messaggero se non l’architettura?
Piacentini quindi, pur seguendo le indicazioni e le visioni grandiose del duce, non perde mai il timone, e vede la ghiotta occasione per imprimere, anche lui, il suo marchio in aeternum nell’architettura. L’occasione, il momento giusto arriva alla meta degli anni Trenta, quando Mussolini chiede all’architettura di contribuire a trasformare la società italiana in senso totalitario, compiendo così una completa rivoluzione antropologica.
Due episodi architettonici sono l’emblema di questo programma, ossia la Città universitaria dell’Università di Roma La Sapienza di Roma e l’E42, noto ai più come EUR, un quartiere a sud della capitale. Il primo episodio è un esperimento. Il secondo, nell’ottica del dynamic duo, è di creare un momento decisivo nella storia dell’architettura italiana. L’indirizzo architettonico dato dall’E42, la “città mussoliniana”, nell’ottica di Piacentini, farà da esempio per tutti i futuri quartieri di Roma e delle altre città italiane. Il programma c’è ed è ambizioso, ma lo scoppio della guerra interrompe drasticamente queste intenzioni5. In tutto questo, l’architetto viene colpito dalla malattia che lo debilita nel corpo e nello spirito. Il suo lavoro febbrile, indubbiamente, ne risente.
In questo periodo, oltre alla progettazione dell’E42, segue altri progetti, come il nuovo piano regolatore della capitale. Questo fa sì che sulla sua scrivania arrivino sempre più numerose lettere con richieste di raccomandazioni da parte di politici, proprietari terrieri, architetti, artisti, imprenditori edili. Infatti, l’espansione della città verso il mare che l’E42 provocherebbe attira gli interessi speculativi dei grandi gruppi immobiliari, fra cui la Società generale immobiliare6. Continuano i vari progetti, soprattutto su Roma, ma il duce è sempre più impegnato sul fronte bellico e gli incontri fra lui e l’architetto si fanno sempre più radi.
Nei primi mesi del 1943 i bombardamenti si intensificano sulle varie città italiane, e Piacentini è già proiettato al futuro. Pensa infatti ai danni causati dalle bombe e alle conseguenti città da ricostruire, ai nuovi piani regolatori da redigere. Insomma: intuisce che dopo la guerra ci sarebbe stato molto lavoro per gli architetti – e ha ragione –. Andando verso l’estate, la situazione precipita. Il 25 luglio Mussolini viene arrestato e il fascismo cade. Probabilmente Piacentini è a conoscenza anche di quello che sarebbe accaduto durante quella famosa riunione del Gran Consiglio.
L’8 settembre, con la firma dell’armistizio, la situazione cambia nuovamente: arrivano i tedeschi a Roma. Le truppe naziste sequestrano addirittura la villa della Camilluccia di Piacentini. Ha poi dei diverbi con alcuni militari e viene incarcerato nel carcere di Regina Coeli per cinque giorni. Viene tratto in salvo sempre grazie alle sue conoscenze: il futuro papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria della Santa Sede, intercede per lui7.
Il 4 giugno 1944 i tedeschi abbandonano Roma e Piacentini è tra coloro che accolsero con grande gioia l’arrivo delle truppe americane e inglesi. Compie così un capolavoro di trasformismo: dopo anni di servizio per il duce, con disinvoltura ed eleganza, Piacentini si mette al servizio del nuovo governante, ossia il colonnello americano Charles Poletti.
Nel frattempo, alla Sapienza, gli studenti cominciano a chiedere la destituzione di Piacentini per via del suo legame col fascismo e viene istituita un’istruttoria contro di lui. Infine, a dicembre del 1944, Piacentini viene “epurato” dall’Università di Roma, primo nella lista dei cinquantuno professori deferiti dall’incarico. Chiede e ottiene poi anche di poter esser cancellato dall’albo degli architetti, a cui si iscriverà nuovamente nel 19478.
Non sono momenti facili per Piacentini. Lui nega in ogni momento, comunque, il suo legame col regime e afferma di essersi dedicato ai progetti “nient’altro che per l’arte”. Qualche tempo dopo il processo di epurazione, Piacentini recupera il suo ruolo all’interno dell’Università e nei primi anni Cinquanta ricopre la carica di preside della Facoltà, che aveva già durante il regime. Ma l’ambizioso progetto di rendere le facoltà di architettura, in particolare grazie ai rapporti clientelari, i nuovi fulcri dello stile architettonico di tutta l’Italia è ormai utopia. Così come è utopistico poter pensare, per Piacentini, di ricomporre l’esteso monopolio detenuto durante il regime.
L’architetto perde anche il monopolio dei concorsi, se non per la ricostruzione delle chiese. A Roma gli rimangono due cantieri: via della Conciliazione, di fronte la Basilica di San Pietro, e l’E42, ora chiamato Eur, entrambe icone della continuità fra fascismo e postfascismo. Con l’appoggio di Giulio Andreotti, riceve così nuovamente la carica di sovrintendente all’architettura, già ricoperta durante il regime.
Piacentini ha amici importanti, appoggi, aiuti di ogni tipo per restaurare la sua figura. Non mancano però le critiche feroci di vari architetti e intellettuali. Fra i tanti, Bruno Zevi, suo ex allievo, costretto ad abbandonare l’università italiana a causa delle leggi razziali, dichiara che “Piacentini morì nel 1925», ossia dopo il suo asservimento totale al regime. Un altro giudizio severo è quello di Cesare De Seta, che lo accusa di essere il «pontefice massimo» di una «scuola a delinquere», ossia quella romana, per via dei suoi intrecci illeciti. Ancora, Antonio Cederna, studioso degli “sventramenti” romani effettuati durante il ventennio, si pone sulla stessa lunghezza d’onda di De Seta, definendolo «spregiudicato e cinico» e attribuendogli un «cuore di sventratore»9 10.
Nonostante queste accuse, Piacentini, in un modo o nell’altro, continua a lavorare. Negli ultimi anni, si dedica prevalentemente all’EUR e a qualche altro progetto minore.
Il suo intenso vissuto professionale si conclude il 18 maggio 1960, all’età di settantanove anni, e i funerali si tengono nella chiesa di Cristo Re a Roma, ovviamente progettata da lui stesso11.
1 La preparazione febbrile, in «Il Corriere della Sera», 6 agosto 1910, citato da Paolo Nicoloso in Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia, Gaspari Editore, Udine, 2018, p. 27.
2 Emilio Gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. V.
3 Emilio Gentile, Fascismo di pietra, op. cit., pp. V-VIII.
4 Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini, op. cit., pp. 9-10.
5 Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini, op. cit., pp. 11-15.
6 Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini, op. cit., pp. 239-252.
7 Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini, op. cit., pp. 267-272.
8 Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini, op. cit., pp. 274-276.
9 Gli sventramenti furono delle opere di distruzione, avvenuti nella città di Roma a partire dal ventennio. Essi prevedevano la distruzione di baracche e baraccati situati in luoghi strategici, ad esempio del centro storico, per poter costruire nuovi monumenti, strade, palazzi di maggior pregio. Antonio Cederna fu uno dei tanti che si occupò di questo tema delicato, che riguardava anche i diritti delle persone “sbaraccate”, e fu autore di diversi testi su questo argomento.
10 Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini cit., pp. 16-18.
11 Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini, op. cit., pp. 334-338.