Marcos – Duterte: dinastie in lotta per le Filippine
- 25 Giugno 2024

Marcos – Duterte: dinastie in lotta per le Filippine

Scritto da Lorenzo Farrugio

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Da più di sei mesi l’ex presidente delle Filippine Rodrigo Duterte sta sottoponendo il suo successore Ferdinand Marcos a un assedio a cerchi concentrici, fatto di istigazioni al golpe, minacce di secessione, inchieste pilotate, dossieraggi, tour di proteste, appelli alle dimissioni e campagne di disinformazione. Il presidente in carica non si è sottratto a questo duello senza esclusione di colpi e da tempo si sta dimostrando disposto a colpire al cuore la stabilità dello Stato, trasformandolo da repubblica presidenziale a parlamentare, pur di trattenere il potere all’interno della sua consorteria e sottrarlo al nemico che si è messo in casa.

Ferdinand Marcos Jr. è infatti stato eletto nel 2022 proprio grazie al sostengo del predecessore, in cambio del quale da candidato presidente aveva accettato di avere come vice sua figlia, Sara Duterte. La collaborazione tra i due casati non era inedita: il nonno di Sara era stato ministro nel governo del padre di Marcos Jr., di cui si dirà più avanti. Nel 2016 “Bongbong” aveva corso da aspirante vicepresidente contro il ticket elettorale di Rodrigo Duterte ma quest’ultimo, dopo essere stato eletto, aveva concesso la sepoltura nel cimitero degli eroi nazionali al controverso padre del suo allora rivale.

Il presidente Ferdinand Marcos Jr. incontra l’ex presidente Rodrigo Duterte a Malacañang – 2 agosto 2023

Nel 2021 era Sara Duterte a guidare i sondaggi per la corsa presidenziale ma decise comunque di accettare una candidatura da vice per siglare l’alleanza con Marcos, propiziata dall’amicizia con Imee, la sorella del presidente, che resiste tuttora. Alle elezioni del 2022 si erano quindi presentati come lo UniTeam. Sin dalla formazione del tandem era data per scontata la sua rottura: due ambiziosi con una famiglia troppo ingombrante e differenze programmatiche crescenti non sarebbero potuti durare nella gabbia angusta di un patto elettorale di comodo.

Oltre all’obiettivo di vincere le elezioni, cemento originario dell’accordo era la mutua difesa dalle inchieste che coinvolgevano le due fazioni: dal 2018 va avanti un’indagine della Corte penale internazionale su Duterte per le efferatezze compiute nella sua guerra alla droga, mentre i Marcos sono finiti in guai giudiziari per una presunta evasione fiscale milionaria e per l’appropriazione di ingente denaro pubblico durante gli anni di governo di Ferdinand Marcos senior.

Al battesimo dell’amministrazione Marcos – Duterte si sono registrati i primi scricchiolii dell’intesa, quando il presidente ha assegnato alla sua vice il dicastero dell’istruzione e non quello della difesa, sulla nomina per il quale si era già esposta pubblicamente. L’anno seguente gli alleati di Marcos in Parlamento hanno passato al setaccio la richiesta di fondi confidenziali, a spesa discrezionale, per il ministero della vicepresidente, per poi in seguito negarglieli del tutto dato che il dicastero dell’istruzione non presiedeva attività di intelligence, per le quali questo tipo di fondi era stato concepito.

 

ChaCha

Negli ultimi mesi Rodrigo Duterte ha infine deciso di “bombardare il quartier generale” (Mao Tse-tung) apertamente: ha inaugurato un tour di raduni di “preghiera” – durante i quali sfilano sul palco anche spogliarelliste – per osteggiare la riforma costituzionale lanciata da Marcos, ufficialmente, per facilitare gli investimenti diretti esteri nelle Filippine. “Digong” continua invece a bollarla come un cavallo di Troia per trasformare il sistema istituzionale da presidenziale a parlamentare ed eliminare il divieto costituzionale di rielezione dei presidenti filippini. Se venisse meno quest’ultimo, Marcos, riproponendosi all’elettorato in prima persona o tramite il cugino presidente della Camera dei Rappresentanti Martin Romualdez, potrebbe far saltare i piani di Sara Duterte di assurgere alla guida del Paese nel 2028, allo scadere del primo mandato di entrambi.

Il vincolo era stato introdotto al termine della dittatura del padre di Marcos, omonimo del figlio. Ferdinand Marcos governò infatti in modo corrotto e autoritario le Filippine dal 1965 al 1986 quando, dopo lo scoppio della Rivoluzione gialla, fu costretto a riparare insieme alla famiglia nelle Hawaii, col beneplacito dell’allora presidente degli Stati Uniti Reagan. In quell’occasione la moglie del dittatore dovette lasciarsi alle spalle una collezione da 3.000 paia di scarpe, che divenne poi il simbolo del regime cleptocratico che il coniuge aveva instaurato, e nel complesso i Marcos sottrassero alle casse statali tra i 5 e i 10 miliardi di dollari, vivendo nel lusso sfrenato a fronte di una nazione che vedeva allora 1 abitante su 4 vivere in povertà estrema.

Rodrigo Duterte e suo figlio Sebastian stanno provando a canalizzare il malcontento popolare per l’aumento del prezzo del riso ­­­– del 22,6% nel 2023 – contro la riforma costituzionale voluta dal capo dello Stato. Tuttavia la Cha – Cha, la modifica costituzionale in cantiere, eliminerebbe dei vincoli protezionistici, come il plafond del 40% per il controllo azionario straniero in molti settori, che ha regalato un oligopolio ai magnati locali e adesso sta tarpando le ali all’attrattiva del Paese.

La riforma può avvenire lungo tre binari alternativi – convocazione di un’assemblea costituente apposita ad opera delle due Camere, esame da parte del Congresso, il parlamento filippino, o referendum deliberativo di iniziativa popolare – e i suoi sostenitori li stanno percorrendo tutti – in modo complementare – pure pagando dei cittadini per sottoscrivere la richiesta di referendum. Nel loro disegno questo strumento è funzionale a modificare in modo chirurgico la Carta per semplificare il processo di revisione costituzionale e disporre che, in caso di esame da parte del Congresso, quest’ultimo voti a Camere riunite. Tale previsione neutralizzerebbe il potere di veto del Senato, composto da soli 24 membri (a fronte degli oltre 300 dell’altra Camera), che da quando vige la Costituzione del 1987 è stato lo psicopompo dei tanti tentativi di cambiarla.

Il 20 marzo 2024 la Risoluzione di entrambe le Camere n° 7, che modifica gli articoli XII, XIV e XVI della Carta, è stata approvata in via definitiva dal Congresso, aprendo alla possibilità per la legge ordinaria di rimuovere i tetti azionari per gli stranieri nei settori delle utility, dell’istruzione e della pubblicità. Cionondimeno la modifica dovrà passare la strettoia del referendum approvativo prima di entrare in vigore. Curiosamente la riforma ha ricevuto il voto favorevole anche dei parlamentari fedeli a Digong. I Duterte stanno forse giocando al “tanto peggio, tanto meglio”?

 

Escalation

Una rottura tra il presidente e la sua vice implicherebbe l’estromissione della seconda dal governo, vari procedimenti penali – da parte di tribunali nazionali e internazionali – a carico del padre sulle uccisioni illegali delle operazioni antidroga e la compromissione delle sue possibilità di succedere a Marcos nel 2028 allo scadere del suo mandato.

A Marcos invece il divorzio dalla vice potrebbe costare il controllo del Congresso dato che il Lakas – CMD e il Partido Demokratiko Pilipino – due partiti riconducibili ai Duterte – detengono più di un terzo dei componenti di entrambe le Camere. Senza il loro supporto Bongbong diventerebbe un’anatra zoppa. Il baluginare di questi contraccolpi non ha fin qui fermato l’escalation.

Sara Duterte e Ferdinand Marcos Jr. – 19 aprile 2024

A febbraio Duterte ha alzato la posta minacciando la secessione di Mindanao, la seconda più grande isola del Paese e sua roccaforte elettorale, in caso di modifica della Costituzione. L’ex presidente soffia sulla brace perché Mindanao è stata a lungo insanguinata da una guerriglia tra il governo centrale e i movimenti separatisti di matrice islamica che aspiravano a renderla indipendente. Il 14 aprile durante uno dei raduni organizzati dai Duterte, un parlamentare del suo schieramento, che ha poi fatto ammenda, ha invitato alla sedizione l’esercito e la polizia per costringere Marcos a dimettersi. Entrambe le dichiarazioni rimangono delle boutade perché è blanda la presa di Digong sulle forze armate, che sono sempre state ostili al suo approccio filocinese.

La Commissione sull’ordine pubblico e le droghe pericolose del Senato, guidata da un sodale di Duterte, da alcune settimane sta conducendo, in modo subdolo, audizioni sul supposto consumo di droga da parte di Marcos junior. Congiuntamente sono stati fatti circolare sui social network dei documenti investigativi falsi sul presidente, propinati come risalenti al 2012. Ciononostante, il tour di comizi contro Marcos ha finora registrato pochi partecipanti e non è riuscito ad aggregare un fronte vasto di forze politiche, corpi intermedi e media, che del resto non hanno scordato la compressione delle libertà verificatasi durante l’amministrazione di Duterte.

Dal canto suo, Bongbong ha fino adesso sostenuto che la Corte penale internazionale non abbia titolo per indagare “Rody” per gli eventuali crimini commessi dalla polizia nella sua guerra alla droga, dato che le Filippine si sono ritirate nel 2019 dallo Statuto di Roma che la istituisce. Ma di recente ha dato il suo placet all’ingresso, come privati cittadini, degli investigatori della CPI nel Paese.

Marcos ha inoltre preso le distanze dalle modalità – cruente in modo indiscriminato – adottate dal predecessore per limitare la circolazione e l’uso di sostanze stupefacenti. Nel tempo le operazioni di contrasto allo spaccio e traffico di droga, condotte sotto Duterte, sono diventate sempre più controverse all’estero a seguito di varie investigazioni da parte di organismi internazionali che hanno gettato luce sulle messe in scena di indizi di reato a opera della polizia nei luoghi delle uccisioni, che le autorità di Manila asseriscono essere sotto le 6.500 ma che molti osservatori dei diritti umani prospettano intorno alle 30.000. Congiuntamente agli omicidi sono stati eseguiti oltre 300.000 arresti.

Per il momento il presidente e la sua vice hanno evitato di battibeccare a mezzo stampa ma fa alzare a molti le sopracciglia la presenza – silenziosa – di Sara Duterte ai comizi della sua famiglia in cui si invocano insistentemente le dimissioni del capo di governo di cui è vicaria. Tuttavia, in entrambi gli schieramenti esistono posizioni autonome che disarticolano lo schema di contrapposizione che emerge dalle cronache.

La vicepresidente delle Filippine ha in più occasioni dato prova di star perseguendo una propria agenda politica e di non essere una pedina in mano al padre. Da sindaca di Davao ha sostituito i fedelissimi di DU30 nell’amministrazione cittadina e per le elezioni del 2022, in cui ha ricevuto 1 milione di voti in più di Marcos, ha disatteso i voleri del genitore scegliendo di correre come vicepresidente, che peraltro nelle Filippine viene eletto con un voto disgiunto da quello per il vertice dello Stato.

Imee Marcos, sorella del presidente della Repubblica, a gennaio ha aderito all’appello unanime dei senatori filippini che censurava l’iniziativa popolare volta a semplificare il processo di revisione costituzionale.

 

Si torna sempre dove si è stati bene

Il duello in atto ha due convitati di pietra eccellenti. L’attuale presidente ha infatti ribaltato anche la politica estera filocinese del predecessore, avviando pattugliamenti congiunti del Mar Cinese Meridionale – o Mar Filippino Occidentale come tiene a definirlo Manila – con Stati Uniti e Giappone. Le Filippine entrano così a far parte di un arco, di contenimento dell’aggressività cinese nell’area, che abbraccia in modo indiretto anche l’Australia e il Vietnam. L’anno scorso è stata pure lanciata una “operazione trasparenza” sugli sconfinamenti cinesi, che si avvale di riprese video e di giornalisti a bordo delle navi della marina di Manila. La mossa è riuscita a guadagnare supporto internazionale alla causa filippina.

Marcos, riconoscente verso gli Stati Uniti per la protezione offerta alla sua famiglia nel momento di massima debolezza, non si è sottratto a giocare in modo sisifeo al gatto e al topo con la Cina contendendosi un banco di sabbia semisommerso – il Second Thomas Shoal, all’interno della zona economica esclusiva della “Perla dei mari d’Oriente” – su cui è arenata da 25 anni una nave filippina arrugginita, la Sierra Madre. Finora il Paese di Mezzo non si è lasciato frenare dalle conseguenze che potrebbero derivare dal violare, con una strategia da “zona grigia”, la sovranità di un Paese legato agli Stati Uniti da un trattato di mutua difesa.

A febbraio le Filippine hanno concesso agli Stati Uniti lo sfruttamento di quattro basi militari in aggiunta alle cinque a cui avevano già parzialmente accesso in virtù dell’Enhanced Defense Cooperation Agreement. Fino al 1991 gli Stati Uniti avevano 15.000 uomini dislocati nell’arcipelago ma poi la neonata democrazia filippina ottenne il ritiro di gran parte di essi. La presenza degli yankee nelle Filippine è un tema sensibile perché durante la loro permanenza si sono verificati molti abusi sulla popolazione civile: 15.000 sono i bambini nati, anche a seguito di stupri, da soldati americani e poi abbandonati insieme alle loro madri dopo la dipartita del contingente statunitense.

Le Filippine, tuttavia, non possono fare a meno della Cina, loro primo partner commerciale. Dalle importazioni dal Paese di Mezzo dipendono in larga misura le catene del valore delle Filippine, che nell’ultimo anno hanno però ridotto il proprio disavanzo commerciale verso l’estero.

Pechino, non potendo più contare su un inquilino amico al Palazzo Malacañan, sta conducendo una charm offensive, a suon di promesse di investimenti, con i governatori delle province, in particolare di quelle ospitanti le probabili – la lista ufficiale non è stata comunicata – basi militari che sono entrate nella disponibilità degli Stati Uniti.

La Cina rivendica il controllo delle acque e degli atolli del Mar Cinese Meridionale racchiusi dalla “linea dei nove tratti”, che un procedimento arbitrale – attivato in forza della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare – ha definito per gran parte indebito. Nella stessa area da una decina di anni la Repubblica Popolare Cinese ha realizzato una “grande muraglia di sabbia”, trasformando dieci scogliere sparse in punti strategici in delle basi logistiche, in alcuni casi dotate di piste di decollo, porti interni e caserme.

La Repubblica delle Filippine, che era una colonia di Washington fino al 1946, insieme alla Cina e al Giappone è il Paese più vicino all’isola di Taiwan, la Repubblica di Cina che la RPC considera una sua provincia “ribelle”. Per questo motivo per gli Stati Uniti la possibilità di disporre di basi militari sul suolo filippino è di vitale importanza per poter reagire prontamente e beneficiare di una sicura retrovia per proseguire le operazioni in caso di invasione di Taiwan da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione, le forze armate cinesi. Tuttavia, Marcos ha già chiarito che le Filippine non vogliono diventare la stazione di rifornimento di una guerra.

Le Filippine sono inoltre un partner strategico per la catena di approvvigionamento dei semiconduttori che insieme all’elettronica costituiscono il 60% dell’export del Paese. L’attuale presidente ha reso la macchina statale più amichevole per le imprese, designando tecnici preparati nei posti chiave. La nazione è al suo ottimo paretiano dal punto di vista demografico trovandosi all’interno di una “finestra di opportunità” in virtù della grande disponibilità di popolazione che si sta affacciando sul mercato del lavoro. Un quarto dei suoi circa 114 milioni di abitanti ha infatti meno di 25 anni. Il potenziamento infrastrutturale in corso per collegare le 7.600 isole filippine tra di loro e al resto del mondo, già avviato durante gli anni di Duterte, sta rimuovendo una delle principali zavorre della nazione insulare. Tuttavia, rimangono ancora altri lacci come il tetto di cinque ettari per il possesso di terreni agricoli che mantiene le aziende del settore primario sottodimensionate.

Le Filippine fanno parte della cosiddetta “Altasia”, come l’ha battezzata The Economist, un gruppo di paesi del Sud-Est asiatico e del subcontinente indiano su cui gli investitori stanno sempre più puntando in alternativa alla Cina. Tuttavia, mentre l’ASEAN ha raggiunto nel 2022 il record di volume annuale di investimenti diretti esteri – 224 miliardi di dollari – le Filippine da due anni registrano un calo degli stessi. Il Paese, che pure negli ultimi trent’anni ha quadruplicato il proprio PIL, sta mancando la ghiotta opportunità data da questa finestra storica.

 

La tessera di un mosaico

Tutto questo sta avvenendo in un contesto nel quale ad aprile Washington, Londra e Canberra hanno annunciato di voler coinvolgere Tokyo nel Pilastro II di AUKUS, un patto trilaterale di difesa e sicurezza che punta a dotare l’Australia di sottomarini nucleari. Il Pilastro II si concentra sul potenziamento dell’interoperabilità delle forze armate dei Paesi coinvolti e la creazione di una comune base industriale e di ricerca per lo sviluppo e la produzione di tecnologie militari, incluse quelle più avanzate afferenti a quantum computing, cybersicurezza, intelligenza artificiale, guerra elettronica e capacità sottomarine e ipersoniche. È stata anche decisa la riconfigurazione in senso più snello e avanzato del comando delle forze statunitensi di stanza in Giappone.

Il 10 aprile il presidente degli Stati Uniti Biden e il primo ministro giapponese Fumio Kishida hanno infatti annunciato il raggiungimento di “vette inedite” da parte dell’alleanza militare che lega i due paesi dal 1960. I nuovi accordi prevedono la creazione di un sistema integrato di difesa aerea e missilistica insieme all’Australia, la produzione di missili e l’addestramento di piloti in modo congiunto. Il Giappone ha pianificato di raddoppiare la propria spesa militare in cinque anni, facendola balzare al terzo posto per volume al livello mondiale, e sta intessendo una rete di alleanze multilivello per contenere la Cina.

Gli Stati Uniti invece stanno affiancando al tradizionale modello a raggiera uno schema a traliccio di alleanze militari minilaterali per battere il più forte alleato della Cina nel Pacifico, la distanza. Tuttavia, non è all’orizzonte una riedizione per l’Indo-Pacifico della SEATO, la “NATO asiatica” che fu sciolta nel 1977. Ostacoli di politica interna ai singoli Paesi, come l’impostazione pacifista della Costituzione giapponese o la diffidenza australiana nel condividere informazioni e tecnologie sensibili, rendono difficoltosa l’adesione a un’alleanza militare complessiva nella regione.

In questo scenario si inserisce una wild card, Donald Trump. Un suo ritorno alla Casa Bianca si teme possa inchiodare la politica estera americana a uno stretto mercantilismo, a un disimpegno nel Sud-Est asiatico e ad accresciute barriere doganali anche per gli alleati della regione.

A prescindere dall’esito delle elezioni presidenziali americane già adesso Trump con la sua agenda politica protezionistica ha spostato la finestra di Overton del dibattito pubblico statunitense producendo non pochi sconquassi: a novembre del 2023 il presidente Biden ha lasciato cadere il pilastro commerciale dell’Indo Pacific Economic Framework per i malumori interni al Partito Democratico, timoroso di regalare voti operai e contadini al Partito Repubblicano con un accordo di libero scambio che avrebbe potuto comportare delocalizzazioni e afflusso di merci sottocosto. Non a caso l’Indo Pacific Economic Framework, nato per redimere la ritirata all’ultimo degli Stati Uniti dall’accordo commerciale Trans-Pacific Partnership, è stato spesso definito una ciambella che al nocciolo è vuota, dato che non implica alcun vantaggio nell’accesso al mercato statunitense o alleggerimento di barriere doganali. L’amministrazione Biden in tal senso è stata spesso criticata per l’offrire tanti proiettili e pochi dollari.

 

Ereditarietà non mendeliana del potere nell’Indo-Pacifico

Come si evince dai legami che corrono tra i protagonisti politici dello scontro tra Marcos e la sua vice, nelle Filippine la famiglia è importante. Dalla fine dell’ultima parentesi autoritaria a oggi dei sette leader che si sono avvicendati alla guida del Paese tre erano figli di presidenti emeriti, due erano figli di ex ministri e una era la vedova di un precedente leader dell’opposizione, assassinato durante la dittatura di Marcos. Due di loro, entrambi figli di presidenti, sono passati a capo della nazione dopo esserne stati vice. Attualmente nelle Filippine 64 governatori su 82, 248 parlamentari su 340 e 936 dei 1.642 sindaci hanno almeno un familiare che ricopre una carica elettiva.

L’origine di questa situazione va ricercata nella spartizione fortemente asimmetrica delle terre che venne compiuta al momento dell’indipendenza dalla Spagna, nel 1896. In quei frangenti si formò una classe di proprietari di hacienda che, disponendo di un vasto numero di mezzadri e operai alle loro dipendenze e di milizie private, poterono esercitare una forte influenza sulla politica locale e nazionale. Il quadro fu poi aggravato dalla scelta degli americani, sostituitisi agli spagnoli due anni dopo nel dominio dell’arcipelago, di concedere il voto solo ai latifondisti.

La classe politica filippina può essere paragonata a dei “banditi stanziali” (Martin McGuire e Mancur Olson) che assumono il controllo di un territorio, in regime di monopolio od oligopolio, e ne spingono lo sviluppo per incrementare il volume di risorse da poter canalizzare nelle proprie finanze, pur essendo pronti a far prevalere i propri interessi su quelli della popolazione.

Anche nel resto del quadrante asiatico dell’Indo – Pacifico lo Stato è spesso un’impresa a conduzione familiare.

In Myanmar Aung San Suu Kyi, presidente de facto della nazione tra il 2016 e il 2021, è figlia di un ex primo ministro che il Paese ebbe quando era ancora sotto il dominio britannico. Due uomini, che erano padre e figlio, sono stati primi ministri di Singapore per oltre 50 dei suoi 65 anni di storia indipendente. Tre generazioni della casata Kim hanno oppresso la Corea del Nord sin dalla sua fondazione. Il premier della Cambogia Hun Manet, forte di un governo con ben 1.400 ministri e sottosegretari, ha raccolto il testimone l’anno scorso dal babbo che tiranneggiava dal 1985. In Bangladesh la cinque volte capo del governo Sheikh Hasina è figlia del padre della patria, Sheikh Mujibur Rahman, e da sempre rivale di Khaleda Zia, già due volte alla testa dell’esecutivo bangladese e vedova del presidente della Repubblica Ziaur Rahman. In Pakistan, sin dalla sua nascita come Stato a sé, la scena politica è egemonizzata da casati, tra cui spiccano i Bhutto – Zaradis, con due primi ministri e un presidente all’attivo, e gli Sharif, a cui appartiene il primo ministro ora in carica, fratello di uno dei suoi predecessori. A febbraio del 2024 è stato eletto come presidente dell’Indonesia Prabowo Subianto, ex genero dell’autocrate Suharto, che ha designato come vice il figlio di chi l’ha preceduto alla guida della nazione, Jokowi. Nella popolosissima India i Nehru – Gandhi hanno dato i natali a tre vertici dell’esecutivo e all’attuale leader dell’opposizione Rahul Gandhi. Anche in Cina si sono fatti strada i cosiddetti “principini”, figli della prima generazione di leader del Partito Comunista Cinese e per estensione delle successive, tra cui svetta Xi Jinping, segretario generale del PCC e presidente della Repubblica al suo terzo inusitato mandato. In Giappone quattro primi ministri sono stati figli o nipoti di loro predecessori e nove ministri avevano un genitore a capo del governo. Tra di loro spicca la dinastia Hatoyama i cui membri sono detti i “Kennedy del Giappone”. In Laos l’attuale primo ministro è figlio di un ex presidente e leader dell’esecutivo. In Thailandia la stirpe dei Choonhavan ha regalato al Paese due primi ministri e due vicepremier e quella Shinawatra due capi di governo. In Buthan la famiglia Dorji conta tra i suoi ascendenti tre primi ministri e il Nepal ha visto avvicendarsi altrettanti fratelli del clan Koirala alla testa del suo governo. In Malaysia dal 2018 al 2020 Wan Azizah Wan Ismail, consorte del primo ministro malaysiano ora in carica, Anwar Ibrahim, è stata vicepremier proprio in rappresentanza del marito, allora impossibilitato da vicende giudiziarie a ricoprire l’incarico. La controversa presidente della Corea del Sud Park Geun-hye ha avuto come padre un presidente della Repubblica. Nelle Maldive sette componenti delle amministrazioni del presidente autoritario Maumoon Abdul Gayoom provenivano dalla sua famiglia e uno di loro, suo figlio, è diventato in seguito capo di Stato e di governo della nazione insulare. Tra il 2021 e il 2022 lo Sri Lanka ha visto i Rajapaksa esprimere in contemporanea la presidenza della Repubblica, la guida dell’esecutivo e undici ministeri. I panni sporchi si lavano in casa ma la popolazione cingalese ha poco dopo preferito cambiare lavatrice, costringendo gli esponenti del clan alla fuga e alle dimissioni.

 

Oltre la baruffa, verso le elezioni di metà mandato

Nonostante per ora lo scontro tra Duterte e Marcos infuri, è interesse di entrambi rimanere uniti almeno fino all’anno prossimo. Nel 2025 si terranno infatti le elezioni intermedie con le quali saranno rinnovati tutti i membri della Camera dei Rappresentanti, la metà dei seggi del Senato e molte cariche locali.

La legge elettorale per la Camera bassa favorisce l’iperframmentazione del quadro partitico intorno ad interessi localistici: attribuisce infatti 4/5 dei seggi col first-past-the-post – imperniato su collegi uninominali a turno unico – e limita a un massimo di tre il numero di scranni che si possono ottenere su base nazionale, con voto distinto da quello per i candidati dei collegi uninominali.

Gli aspiranti ai seggi senatoriali in ballo per questa tornata competono invece in un collegio unico nazionale con un sistema che attribuisce l’elezione ai dodici candidati, anche di coalizioni o partiti contrapposti, con più voti. In virtù di tali caratteristiche di selezione dei suoi componenti, il Senato è considerato un trampolino di lancio per le elezioni presidenziali.

L’aspetto interessante che emerge dalla vicenda è che lo scontro del presidente con la sua vice, al posto di dare alimento alle bistrattate opposizioni, ne ha compresso ulteriormente lo spazio politico, erodendone il consenso. Quando due forze al governo si divaricano, se differenziano le loro posizioni in modo da rivolgersi a bacini di riferimento più ampi, riescono a intercettare il consenso anche degli scontenti pur mantenendo per gran parte quello di chi cerca benefici dal governo, assorbendo al proprio interno maggioranza e opposizione. Il gioco però in genere dura poco perché di norma i governi attraversati da queste fratture cadono e chi le ha animate subisce per legge del contrappasso un bel contraccolpo elettorale. Chi troppo vuole nulla stringe.

Scritto da
Lorenzo Farrugio

È Alfiere del Lavoro su nomina del Presidente della Repubblica. La sua formazione è disseminata tra il Collegio dei Cavalieri del Lavoro, l’Università Cattolica, lo IAI, la Scuola di Politiche e la European School of Economics. Ha scritto per «Domani», «Formiche» e «Fortune». Cura le relazioni esterne del festival “Questa è la mia terra”. Si è occupato di fundraising, community organizing e advocacy per varie realtà. Ha lavorato allo stakeholder engagement della European College University Association ed è stato junior fellow del Centro Studi Americani e di Agenda-Treccani.

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