“Modello Emilia” di Franco Mosconi
- 03 Gennaio 2024

“Modello Emilia” di Franco Mosconi

Recensione a: Franco Mosconi, Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità, prefazione di Stefano e Vera Zamagni, Post Editori, Padova 2023, pp. 272, 22 euro (scheda libro)

Scritto da Federico Franzoni

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Manifattura e cervello. Ecco le due parole chiave con cui si potrebbe sintetizzare il libro di Franco Mosconi, Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità, edito da Post Editori. Nel saggio Mosconi, uno dei maggiori esperti in quest’ambito della letteratura economica, traccia un agile racconto in cui vengono descritti i moderni caratteri – e dunque la sua metamorfosi rispetto alla fase novecentesca – del cosiddetto “Modello emiliano”. L’opera mescola biografie imprenditoriali, racconti di cronaca locale e vicende dei gioielli industriali del territorio, il tutto inserito, di volta in volta, in una chiara cornice di teoria economica combinata con suggerimenti di interventi di policy.

Come prima cosa occorre specificare che l’autore concorda nel far precedere l’aggettivo “emiliano” dal sostantivo “modello”, così come definito dal Vocabolario Treccani: «Persona o cosa scelta come esempio da seguire e da imitare, specialmente dal punto di vista intellettuale o morale. Per estensione, persona o cosa ritenuta perfetta e degna di servire d’esempio e d’essere imitata». Inoltre, è bene chiarirlo subito, onde evitare spiacevoli dispute territoriali, l’autore riconosce il rilevante contributo apportato dall’altra parte della regione – la Romagna – al fine della configurazione del “modello” oggetto di studio. Allo stesso tempo, però, l’autore mette anche immediatamente in guardia dalla creazione di facili stereotipi o vane glorificazioni, perché i modelli non sono eterni. Le sue parole non lasciano dubbi: «Non c’è oggi (ammesso che vi sia stata nel passato) un’Emilia felix da contemplare e beatificare» (p. 16).

Il libro si apre con una rassegna di dati e di statistiche che incoronano l’Emilia-Romagna al vertice, in termini nazionali, di alcune importanti graduatorie che fotografano lo status economico delle regioni europee o dei Paesi più sviluppati. Per esempio, il Regional Innovation Scoreboard della Commissione Europea dichiara l’Emilia-Romagna la regione più innovativa d’Italia, mentre il Subnational Innovation Competitiveness Index, elaborato dall’Istituto per la Competitività, la dichiara quella a maggiore competitività. Dunque, una regione che si colloca in testa su settori decisivi per assicurare lo sviluppo economico in questo secolo. Tali risultati ci permettono di affermare che il termine “modello” è quindi correttamente attribuito.

Numeri a parte, quali sono, però, le ragioni fondamentali che permettono di parlare di “modello”? A questo riguardo l’autore individua sei fattori chiave e ne motiva la scelta. Il primo fattore riguarda la solidità e i nuovi traguardi raggiunti dall’industria manifatturiera, che, grazie all’intenso rapporto con il mondo della ricerca, ha mescolato la creazione di nuova conoscenza con la creazione di nuovi prodotti, rendendosi in grado di lavorare alla frontiera della tecnologia e in mercati internazionali. Il secondo fattore riguarda l’importante crescita dimensionale che ha caratterizzato le imprese emiliano-romagnole sin dall’inizio degli anni Duemila, mentre il terzo concerne i diffusi miglioramenti qualitativi avvenuti in tutte le filiere produttive. Il quarto fattore non è altro che la proficua combinazione e il reciproco legame che si intesse tra i due precedenti: la crescita dimensionale favorisce gli investimenti in conoscenza, che a loro volta generano un irrobustimento dell’impresa. Il penultimo fattore consiste nell’elevato capitale sociale presente sul territorio, che si riflette nella qualità delle istituzioni – formali e informali – e nel loro ruolo proattivo volto a supportare e promuovere il tessuto produttivo locale. Infine, l’ultimo fattore determinante è una radicata presenza di quello che è stato definito il “terzo pilastro” tra Stato e Mercato, ovvero la Comunità: infinite associazioni dai mille scopi, imprenditori illuminati, cittadini volenterosi e tanto altro. Questi, secondo Franco Mosconi, gli elementi che rendono tale l’odierno “modello emiliano”.

Seppur non menzionati esplicitamente, nel testo emergono altri due fattori ugualmente importanti, ad avviso di chi scrive, al fine della costituzione e del progresso del “modello emiliano” e quindi meritevoli di essere menzionati. Il primo è la presenza di un robusto settore bancario (che ha retto con sicurezza l’urto di tutte le recenti crisi), essenziale per svolgere in modo proficuo l’attività d’impresa. Il secondo è la capillare diffusione, in tutte le attività economiche, del movimento cooperativo, caratterizzato lungo la Via Emilia da un peculiare equilibrio dinamico tra la dimensione economica, soggetta alle leggi del mercato, e la dimensione sociale, rivolta all’interesse dell’intera comunità.

Una volta individuati gli elementi costitutivi, facendo seguito all’ammonimento iniziale di non cadere nella trappola di facili e inutili trionfalismi, l’autore spiega in modo altrettanto chiaro quali possono essere i rischi involutivi del “modello emiliano”, ovvero quali possono essere quei fattori che potrebbero portare ad un suo decadimento. In primo luogo, il dramma di una povertà crescente: anche questa regione ha visto infatti crescere le disuguaglianze sociali al proprio interno. «Nel 2020 la quota di famiglie in condizioni di povertà assoluta è aumentata sensibilmente: in base ai dati Istat il 6,3% dei 2 milioni di nuclei familiari della regione si trovava in tale stato (3,4% nel 2019)» da Banca d’Italia, L’economia dell’Emilia-Romagna. Aggiornamento congiunturale, N. 30, novembre 2022. La povertà non è dunque un tema né marginale né tantomeno estraneo a quel territorio, e la sua persistenza – o, ancor di più, il suo ampliamento – avrebbero effetti irreparabili. Successivamente l’autore evidenzia altri due potenziali pericoli per la continuità del modello: da un lato la dinamica decrescente della popolazione, poiché anche l’Emilia-Romagna è immersa nel cosiddetto “inverno demografico”; dall’altro il possibile riemergere di un male storico italiano quale è il prevalere di interessi campanilistici – un’eventualità da scongiurare assolutamente. Infine, l’ultimo rischio riguarda un aspetto già menzionato in premessa, ovvero la necessità di evitare una “euforia da narrativa”, che in altre parole significa non adagiarsi sugli allori e semplicemente contemplare in modo compiaciuto l’esistente. Questo ammonimento è ancora più valido se si alza lo sguardo dal contesto emiliano-romagnolo e si osserva il precario stato di salute economico del nostro Paese. Ci ricorda infatti Mosconi: «Nessuna regione è un’isola e neppure quelle manifatturiere del Nord Italia potevano sottrarsi completamente al freno rappresentato dai due decenni di bassa crescita che, com’è noto, hanno caratterizzato il nostro Paese» (p. 173). E per questo motivo «dopo le crisi del 2008-2009 (crac finanziario) e del 2011-2013 (debiti sovrani), l’Emilia-Romagna è stata capace di recuperare [solo] una parte del divario rispetto a un gruppo di regioni europee simili» (pp. 173-174).

A questo punto è opportuno chiedersi che cosa – e in che modo – si possa fare per evitare che si avveri uno scenario del genere, ovvero come potrà essere possibile proseguire su un percorso virtuoso al fine di perpetuare le condizioni che permettono l’esistenza del “modello emiliano”. Franco Mosconi individua, per tale scopo, due ingredienti essenziali. Il primo consiste in un massiccio e continuativo investimento sulla conoscenza, per fare in modo che la crescente domanda di lavoratori altamente qualificati possa essere adeguatamente soddisfatta. Dunque, la necessità di potenziare ulteriormente università, istituti tecnici superiori (ITS) e academy aziendali, ovvero tutti i luoghi di apprendimento specializzato. Il secondo ingrediente è, invece, rappresentato dalla necessità di elaborare un nuovo e ambizioso disegno di politica industriale, indispensabile per affrontare le continue e mutevoli sfide della globalizzazione. Più precisamente, l’autore ci indica quale traiettoria seguire: «Due sono i capisaldi della nuova politica industriale: la collaborazione strategica fra il settore privato e la mano pubblica e una policy finalizzata al cambiamento strutturale» (p. 121). Inoltre, nel libro si sostiene – giustamente – che il livello a cui attuare questo tipo di politica non debba essere regionale, dal momento che «una sommatoria di politiche industriali regionali non dà come risultato automatico una politica industriale nazionale a tutto tondo» (p. 125). E forse non basta nemmeno il livello nazionale, quanto piuttosto la dimensione europea, contesto in cui il nostro Paese deve farsi promotore e sostenitore di un piano di investimenti nei settori della conoscenza e della tecnologia. In altri termini, considerando questi due fattori in modo congiunto, il modello di produzione a cui è necessario continuare ad ambire è quello per cui la “produzione di nuova conoscenza” marcia di pari passo con la “produzione di nuove cose”, generando una continua osmosi tra le due. Ovverosia occorre fare in modo che il “modello emiliano” continui ad autoalimentarsi, generando da un lato un flusso continuo di conoscenza, frutto delle attività di ricerca, sviluppo e innovazione, dall’altro processi produttivi di raffinata qualità, che derivano dalle conoscenze già sviluppate e che a loro volta ne stimolano di nuove.

In conclusione, si potrebbe paragonare il “modello emiliano” ad un alpinista che cammina sulla cresta di un crinale montuoso, godendo quindi della splendida veduta panoramica e vantando il primato dello scalatore più audace. Tuttavia, il mantenimento di questa condizione richiede un costante e impegnativo allenamento perché anche il più piccolo passo falso potrebbe avere conseguenze fatali. Allo stesso modo, l’Emilia-Romagna, se vuole rimanere una regione modello e continuare ad attestarsi in vetta alle classifiche, deve tenacemente proseguire il faticoso sentiero che le ha consentito di arrivare sin qui.

Scritto da
Federico Franzoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia e Finanza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nella medesima università ha conseguito il dottorato di ricerca in Economia e Finanza e la laurea triennale in Economia delle Imprese e dei Mercati. Inoltre, ha ottenuto un Master of Science in Economics presso la Norwegian School of Economics. I temi di ricerca di cui si occupa riguardano l’economia pubblica e la political economy.

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