“Neoplebe, classe creativa, élite” di Paolo Perulli e Luciano Vettoretto
- 26 Ottobre 2022

“Neoplebe, classe creativa, élite” di Paolo Perulli e Luciano Vettoretto

Recensione a: Paolo Perulli e Luciano Vettoretto, Neoplebe, classe creativa, élite. La nuova Italia, Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 208, 19 euro (scheda libro)

Scritto da Francesco Nasi

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Ha ancora – o “di nuovo” – senso parlare di classi? È questa la grande domanda a cui Neoplebe, classe creativa, élite cerca di dare risposta. Una risposta che, data la complessità del quesito, non può che essere declinata in almeno due accezioni, una di natura sociologica, e l’altra di natura politica.

Per quanto riguarda l’analisi scientifica del problema, la questione di fondo da cui parte il libro di Paolo Perulli (sociologo dell’economia) e Luciano Vettoretto (urbanista) è che per comprendere il volto della società attuale è necessario riaggiornarne il lessico. Classe media, classe operaia, proletariato, borghesia, sono termini che non hanno più un riscontro nella società italiana e globale. Non solo da un punto di vista politico, ma anche e soprattutto da quello sociologico, essendo realtà che si sono «sfaldate in modo irreversibile» (p. 4). Da qui parte il tentativo degli autori di schematizzare la nuova divisione che si è aperta negli ultimi anni in seno alla società italiana, prendendo come elemento di distinzione 129 classi professionali, a loro volta aggregate in tre strati principali: élite, classe creativa, neoplebe.

Il primo strato è formato dalle élite relative al potere politico, economico-finanziario e burocratico. Ne fanno parte tutti coloro che ricoprono ruoli dirigenziali nelle grandi aziende, nel governo, nell’amministrazione pubblica e nelle organizzazioni di interessi (partiti, sindacati). L’élite è caratterizzata da un’etica apparentemente meritocratica, dove però a prevalere sono quasi sempre meccanismi di cooptazione e appartenenza. L’élite italiana, rispetto ad altri Paesi, sarebbe più locale, radicata e tradizionalista, non spinta al cosmopolitismo come in molti altri Paesi europei, a causa di un certo “capitalismo di territorio” ancora molto legato alle realtà locali. Perulli e Vettoretto associano ad ogni classe uno “segmento di servizio”, ovvero un sub-strato occupazionale di controllo e comando locale, che supporta e rende possibile la posizione della classe vera e propria. Nel caso delle élite, si tratta dell’insieme di chi esercita la razionalità tecnica, persone dotate di significativi livelli di competenze e capacità di controllo, ovvero i cosiddetti “tecnici”.

Viene poi la classe creativa. Questo strato comprende le classi occupazionali che hanno a che fare con l’economia della conoscenza, orientata quindi alla «progettazione, invenzione o ampliamento delle conoscenza negli ambiti della produzione scientifica, tecnica e culturale che richiedono elevati livelli di competenze» (p. 9) Concretamente, parliamo di specialisti sia delle scienze dure che delle materie umanistiche, e in generale di chi (anche indipendentemente dal titolo di studio) esercita un ruolo importante in quei settori dell’economia ad alto valore aggiunto (chimica, elettronica, biomedica, farmaceutica), anche in piccole e medie aziende. Il segmento di servizio è composto di nuovo da figure di supporto, di razionalità tecnica, che richiedono capitale culturale istituzionalizzato ed esperienza, pur senza ricoprire ruoli dirigenziali come nel caso delle élite.

L’ultimo strato è quello della neoplebe. Si tratta di una galassia composita che non si limita esclusivamente a quello che un tempo poteva considerarsi “proletariato”, come il mondo operaio scarsamente specializzato, ma che comprende larga parte dell’ex classe media impoverita dagli stravolgimenti della globalizzazione e che non è riuscita a rinnovarsi e a piazzarsi nella feroce competizione del Ventunesimo secolo. Rientrano quindi in questa categoria gli imprenditori della piccola impresa tradizionale, il ceto impiegatizio a modesta qualificazione, il proletariato dei servizi e quella fascia della popolazione che Raffaele Alberto Ventura, riprendendo Robert Michels, ha definito “il proletariato intellettuale”[1]. Fa parte della neoplebe chi appartiene a tutte quelle professioni poco retribuite che la digitalizzazione potrebbe rendere obsolete, chi vive situazioni di forte instabilità e precarietà, chi è rimasto fuori dal mercato del lavoro. Come spiegano gli stessi autori, la neoplebe assomiglia alla “proletaroide” di cui parla Max Weber nella Germania di inizio Novecento: «uno strato che cresce ai margini, ma include la classe media impoverita, il lavoro intellettuale precario e malpagato, accanto al proletariato dei servizi».

Delineato il quadro introduttivo, gli autori descrivono come questa “triade sociale” vada ad intersecarsi con tre grandi linee di frattura della società contemporanea. Esclusi contro inclusi dai processi che generano ricchezza, benessere e potere; cosmopoliti contro locali; e concentrati contro estesi (ovvero, tra chi si concentra in certi spazi come i centri delle città, e chi si dissolve in periferie, campagne, sobborghi). Per quanto riguarda la prima frattura, la neoplebe sembra combaciare fedelmente con gli “esclusi”, gli sconfitti dell’epoca della globalizzazione. Più interessante è invece la riflessione sulla frattura cosmopoliti/locali: se siamo infatti abituati ad immaginare il cosmopolitismo come esclusiva delle élite, gli autori sottolineano come esista anche un cosmopolitismo “basso” caratterizzante gli strati sociali inferiori: le migrazioni di massa, i pellegrinaggi religiosi, il turismo di massa, ma anche movimenti politici transnazionali come quelli per la rivendicazione dei diritti delle donne, dei neri o della comunità LGBTQ+. Infine, sul fronte concentrati/estesi, Perulli e Vettoretto sottolineano la complessità dei fenomeni globali, che spesso portano al rimescolamento di locale e globale, centro e periferia, aree arretrate e aree avanzate, con la conseguenza di avere una neoplebe sradicata e una élite che si sente deresponsabilizzata dal territorio.

Il libro prosegue con l’analisi quantitativa, a cui segue un lungo capitolo che analizza la proiezione sul territorio italiano di élite, classe creativa e neoplebe. Particolarmente interessante è l’ultimo capitolo, dedicato alla comparazione internazionale dei tre strati. Rispetto alla media europea del 4%, l’Italia è caratterizzata da una ridotta percentuale di élite, che si fermano ad appena l’1% della popolazione. Discorso simile vale per la classe creativa: 32,5% nel caso italiano contro più del 37,5% per l’Unione Europea presa nel suo complesso. A primeggiare a livello numerico è la neoplebe, che secondo l’analisi dei due autori include più del 65% della popolazione italiana. È inoltre particolarmente rilevante notare che, mentre in altri grandi Paesi europei paragonabili all’Italia come Francia e Germania la percentuale di neoplebe è progressivamente diminuita tra 2007 e 2019 ed è aumenta la percentuale di classe creativa, nel caso italiano le percentuali sono rimase sostanzialmente stabili, vedendo anzi un leggero aumento della neoplebe, una piccola decrescita della classe creativa e un ulteriore ristringimento dell’élite, segno di una sempre più forte concentrazione del potere.

L’analisi presentata da Perulli e Vettoretto è estremamente suggestiva, e coglie con particolare acutezza alcune delle ragioni alla base del declino italiano negli ultimi decenni. Una neoplebe che si è costantemente allargata, spingendo milioni di persone verso il baratro dell’esclusione sociale; un’élite sempre più ristretta e chiusa in sé stessa; una classe creativa emergente ma incapace di assumere un ruolo proattivo e dirigenziale a livello di sistema Paese: già solo questa breve descrizione presenta importanti chiavi di lettura per tanti fenomeni a cui la società e la politica italiana hanno assistito in questi anni, dall’ascesa dei movimenti populisti all’incapacità delle forze politiche “tradizionali” di dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini, fino alla stagnazione dell’economia e allo scivolamento di milioni di persone nella proletaroide weberiana.

Da un punto di vista metodologico, è lecito chiedersi se può bastare limitarsi alla dimensione professionale per stabilire a quale strato della popolazione un individuo appartenga. Come accennato all’inizio dell’articolo, infatti, per costruire i tre strati gli autori hanno utilizzato come variabile quella della professione, disaggregata in base al livello di competenza e definita a partire dalla natura del lavoro (manuale, intellettuale, ecc.) per distinguere la diversa intensità di conoscenza incorporata in ogni professione. Forse, sarebbe stato più opportuno aggiungere a questo altri indicatori, che fossero il reddito, o un proxy del capitale culturale e sociale. Dall’altra parte, seguendo questa strada si sarebbe potuto correre il rischio di rendere più difficoltosa l’analisi e la comparazione, elemento che, come affermato in precedenza, è particolarmente apprezzabile all’interno del volume.

Per rispondere alla domanda iniziale, almeno da un punto di vista sociologico, appare quindi evidente la necessità di adottare un lessico capace di vedere le nuove divisioni all’interno della società, analizzando le disuguaglianze e le asimmetrie di potere tra i vari strati. Senza queste categorie, infatti, e considerando la popolazione un tutt’uno magmatico figlio di una solo apparente “società senza classi”, la lettura dei processi sociali non può che essere fuorviante. È necessario quindi recuperare un approccio che viene dalla classica sociologia del conflitto e che riesce a vedere, problematizzare e studiare le fratture in seno alla società.

Rimane quindi la risposta politica. Oltre alla dimensione sociologica ed economica, ciò che rende interessante il volume sono infatti le riflessioni che possono scaturire da un’eventuale politicizzazione dei differenti strati. Il punto è ben evidenziato nel libro-intervista tra Fabrizio Barca e Fulvio Lorefice, Disuguaglianze, conflitto e sviluppo[2]. Le classi sociali non esistono in sé e per sé, ma sono per forza di cose socialmente e politicamente costruite. Si tratta di una costruzione che deve appoggiarsi su dati di realtà, come quelli ben analizzati e documentati dagli autori del volume. Tuttavia, se manca la volontà politica di rivolgersi a una determinata classe sociale, di considerarla interlocutore privilegiato, di mediatizzare e problematizzare le questioni che questa classe vive, portando i suoi interessi di parte nell’arena del dibattito pubblico, allora quei dati sono condannati a rimanere tali.

La politicizzazione di una classe o di uno strato sociale è quindi elemento imprescindibile per la sua emersione nel dibattito politico e nell’immaginario collettivo. La domanda che si pone spontanea allora diventa: è possibile che la politica recuperi una più connotata dimensione di classe? È possibile presentarsi davanti all’opinione pubblica difendendo non l’interesse generale della società, ma l’interesse di una parte ben specifica, in questo caso dell’élite, della classe creativa o della neoplebe? Esiste, o può esistere, una rappresentanza non appiattita sul modello del partito pigliatutto? Si può identificare un avversario politico, a livello sociale, senza ridurlo al capro espiatorio tipico dei movimenti populisti? Il tema non viene mai affrontato direttamente dai due autori, che si concentrano – come è giusto che sia in un testo di questo tipo – sull’analisi sociologica dei dati. Soltanto nell’epilogo del libro, Paolo Perulli e Luciano Vettoretto lasciano spazio ad una considerazione di carattere più marcatamente politico, auspicando un’alleanza tra classe creativa e neoplebe. Come scrivono nelle pagine conclusive: «La crescita della classe creativa è, infatti, la vera novità del nostro tempo. Essa – come abbiamo mostrato nei capitoli precedenti – è molto più estesa e pervasiva rispetto alle epoche passate, e per questo va messa al centro della scena. Sempre che decida di uscire dalla sua comfort zone, spinta dall’evidente volontà di realizzare i propri fini che sono di progresso e di crescita basata sulle competenze» (p. 191).


[1] Raffaele Alberto Ventura, Radical choc. Ascesa e declino dei competenti, Einaudi, Torino 2020. Qui recensito sul nostro sito da Alessandro Aresu.

[2] Fabrizio Barca, Disuguaglianza, conflitto, sviluppo. La pandemia, la sinistra e il partito che non c’è, Un dialogo con Fulvio Lorefice, Donzelli, Roma 2021.

Scritto da
Francesco Nasi

Dottorando in Sociologia della cultura e dei processi comunicativi all’Università di Bologna. Ha lavorato presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il Centro Studi di Politica Internazionale (CESPI). I suoi interessi di ricerca si concentrano sull’impatto politico e sociale delle nuove tecnologie, in particolare per quanto riguarda l’IA e l’innovazione democratica.

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