Oltre la libertà dei moderni? Intervista a Francesco Callegaro
- 13 Aprile 2023

Oltre la libertà dei moderni? Intervista a Francesco Callegaro

Scritto da Giulio Pignatti

14 minuti di lettura

Reading Time: 14 minutes

L’elaborazione del concetto di libertà proprio della modernità procede parallelamente alla nascita dei moderni Stati nazionali e all’emergere progressivo dell’economia capitalistica. Un’interpretazione di queste interrelazioni e dei loro limiti, insieme ad una riflessione su modi alternativi di concepire la libertà, è sviluppata in questa intervista da Francesco Callegaro, Professore di filosofia e sociologia all’Università San Martín di Buenos Aires e membro del centro di ricerca LIER-FYT dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi.


Oggi movimenti politici e tendenze sociali molto variegate iscrivono le proprie aspirazioni sotto l’egida della parola libertà. Si va dalla liberazione del corpo alla libertà di scelta rispetto alle direttive sanitarie nazionali, dalla libertà di espressione ai lussi della libertà di movimento cosmopolita… Vi è, allo stesso tempo, una certa percezione per cui la fase espansiva della libertà sia giunta al suo limite, o comunque ad una svolta: da una parte si scopre il carattere ideologico dietro ad alcuni inni alla libertà, dall’altra minacce “antiche”, di tipo reazionario e securitario, tornano a turbare anche le nostre società “progredite”. Risulta dunque urgente una chiarificazione: di che concetto discutiamo quando parliamo di libertà?

Francesco Callegaro: La libertà è tornata ad occupare il centro dello scontro ideologico in seguito a una serie di avvenimenti, innanzitutto la pandemia. Ma proprio perché ci si scontra sulla questione della libertà, la si problematizza poco. Secondo una dinamica messa in luce dalla storia concettuale – ad esempio da Reinhart Koselleck – attraverso l’idea del divenire ideologico dei concetti, il campo si polarizza e si fa tutto fuorché pensare a che cosa significa effettivamente libertà. Durante la pandemia, specialmente in Europa e ancor più in Italia, ciò ha prodotto degli effetti paradossali: abbiamo visto pensatori che si reputano critici mettere in questione, in nome della libertà, le misure prese dallo Stato per motivi di protezione, senza problematizzare in alcun modo il loro senso di libertà, e ritrovandosi così ad essere più liberali dei liberali e più ideologici degli ideologi. Ciò è il sintomo di un’epoca dal basso profilo riflessivo, in cui manca ciò che invece si è massimamente espresso nel periodo successivo alla Rivoluzione francese, quando è avvenuta la messa in questione più radicale dei dogmi della modernità liberale, concentrando la riflessione critica sulla sua idea cardine che è appunto quella di libertà.

 

Ripartiamo dunque da lì. La libertà vuole essere il perno della modernità politica – quella dello Stato e del libero mercato –, l’asse principale con cui la società occidentale pensa se stessa anche in rottura con epoche storiche precedenti o altre civiltà. Come pensiamo noi moderni occidentali la libertà?

Francesco Callegaro: La pensiamo come il fine ultimo della vita collettiva e tutto il problema sta qui, in questo privilegio assegnato alla libertà. Nel clima post-rivoluzionario, alla luce degli effetti dirompenti prodotti da quella cesura epocale che è stata la Rivoluzione francese, Hegel ha espresso perfettamente il paradosso estremo che implica l’aver posto la libertà in cima alla gerarchia. È lì il vero contrasto comparativo con l’epoca premoderna. Non si tratta di distinguere la libertà degli antichi contro quella dei moderni: sono solo i moderni ad aver posto la libertà come valore assoluto. Hegel arriva così a mostrare il carattere contraddittorio, e quindi produttore di patologie dal punto di vista sociale, di un’organizzazione della vita collettiva che fa della libertà l’oggetto del desiderio: se quello che vogliamo è la libertà, quel che vogliamo è volere, allora non vogliamo niente di determinato e al limite vogliamo l’indeterminazione stessa, dunque in fondo nulla. Nella libertà non è contenuto nessun criterio che possa rispondere alla domanda su che cosa effettivamente vogliamo. C’è dunque un chiaro problema di determinazione. Al contrario, in Aristotele e per i Greci il fulcro della discussione verteva sui contenuti della vita buona e delle diverse forme di vita. Il paradosso della libertà scava invece un vuoto all’interno delle società europee: proprio quella caratteristica che per alcuni pensatori contemporanei molto in voga, come Claude Lefort, è il tratto distintivo e positivo dell’avventura democratica, l’indeterminatezza, è per Hegel il motore stesso di tutti i problemi che caratterizzano la società post-rivoluzionaria, il cui paradigma è la Francia. Una libertà che è solo un’indeterminata volontà di volere non può rispondere alla domanda: che cosa vogliamo?

 

Eppure, concretamente, la società non può permanere in uno stato di indeterminatezza, senza una direzione. Come si è concretizzata questa di libertà di volere nelle società moderne?

Francesco Callegaro: Ha ragione, ma allora dobbiamo mettere in luce uno strato più profondo nel concetto di libertà, uno strato che va sempre di nuovo dissodato perché costituisce quello che potremmo chiamare l’“inconscio” dei moderni. È il grande inganno della libertà liberale. L’indeterminatezza della libertà e l’assenza di orientamento sono apparenti: in realtà dietro al concetto di libertà c’è qualcos’altro, che orienta il desiderio. Per cominciare a dare una risposta bisogna tornare al laboratorio concettuale della modernità e al Leviatano di Hobbes, testo in cui è stato articolato nel modo più compiuto il senso predominante della libertà moderna, il modo in cui noi tutti la concepiamo, sia in politica che nella vita quotidiana. Si tratta dell’idea di libertà come assenza d’interferenza nel perseguire i propri desideri. È la stessa concezione fondata sull’indeterminatezza che verrà poi criticata da Hegel. I lavori della scuola padovana di filosofia politica e di Giuseppe Duso in particolare hanno mostrato che la controparte della libertà dell’individuo è il potere sovrano dello Stato, per l’esigenza logica e giuridica di garantire le condizioni della reciprocità delle libertà. L’assenza reciproca d’interferenza – il fatto che la mia indipendenza debba essere garantita tanto quanto quella degli altri – ha come condizione l’interferenza dello Stato, che deve garantire che la libertà di ognuno sia egualmente garantita a tutti. L’intervento dello Stato avviene innanzitutto nella forma molto concreta delle forze dell’ordine, attraverso quella spada che nell’immagine del frontespizio del Leviatano è tenuta col braccio destro del sovrano.

 

È il motivo per cui sicurezza e libertà non sono concetti antitetici, ma nascono ad un parto, nonché la ragione per cui non c’è da stupirsi se oggi, in occasioni come le emergenze dettate dal terrorismo o dalla pandemia, i cittadini accettano una compressione dei propri diritti: la libertà dei moderni è fondata e garantita – messa al sicuro – dallo Stato e dalle sue leggi.

Francesco Callegaro: Esattamente. Ma se fosse solo questo il senso della libertà, se stesse tutto nella possibilità di perseguire i propri desideri senza interferenze da parte della traiettoria degli altri, sarebbe perfettamente immaginabile un soggetto che ha come desiderio caratteristico non fare nulla, essere inoperoso oppure dispiegare un’attività che non ha conseguenze palpabili, come ad esempio pensare. Un soggetto del genere sembrerebbe libero a pieno titolo. Ma quando Hobbes parla dei vagabondi, dei mendicanti, di chi non lavora e la cui forza non è impiegata all’interno dei processi di produzione, ne parla come di soggetti di cui il potere sovrano deve preoccuparsi. Lo Stato ha dunque un compito ben più complesso della sola garanzia della sicurezza, deve anche e soprattutto incamminare questi soggetti che si credono liberi verso la vera libertà. Si scopre così che non siamo liberi di essere liberi, ma siamo paradossalmente costretti ad esserlo. Nella macchina complessiva della modernità liberale, la libertà si concretizza tramite uno Stato che è, allo stesso tempo, funzione di creazione della vera novità della modernità, che è la società civile, la società degli scambi economici e dei rapporti di produzione. La libertà moderna è insomma una libertà produttiva. Questo perché, al contrario delle letture superficiali che vengono fatte di Hobbes, è piuttosto evidente che il fondamento del contratto sociale non risiede solo nel mero desiderio di vivere e dunque nella paura della morte risvegliata dal conflitto per il possesso dei beni di sussistenza. In verità Hobbes pensa ad una vita che contiene dentro di sé il suo stesso superamento verso ciò che egli chiama “vita comoda”. Ad essere postulato come desiderio dell’uomo moderno non è la vita sicura, ma la vita comoda, il «commodious living», caratterizzato dai «contentments of life», gli oggetti di consumo. Questi non esistono in natura, ma richiedono la partecipazione dello Stato nell’attivazione della poderosa macchina produttiva che Marx chiamerà capitale. Per questo la struttura della modernità politica è per lo meno triadica. Il presupposto è l’individuo, portatore di diritti, lo strumento è lo Stato come organo sovrano rappresentativo, ma l’individuo realizza pienamente la propria libertà solo all’interno della società civile. L’enigma che si cela nell’immagine del frontespizio non è la presenza di una città vuota ai piedi del sovrano. È ovvio che la città sia vuota: Hobbes ha messo in immagine il momento del patto, l’istante del potere costituente, in cui la volontà di tutti si tramuta nella volontà generale. Il vero enigma è di cosa si riempia la città che si è svuotata di politica, che cosa faccia la moltitudine una volta firmato il patto, insomma cosa facciamo il giorno dopo le elezioni. La moltitudine lavora, con le buone o con le cattive, e lavora per consumare. Ecco cosa vogliamo.

 

Rimanendo sull’iconografia del frontespizio dell’opera di Hobbes, il braccio sinistro allora che cosa rappresenta? La mano afferra il bacolo pastorale, cioè il simbolo del potere spirituale della Chiesa. 

Francesco Callegaro: Esattamente. Hobbes sapeva perfettamente che la libertà in questione era un ideale da realizzare, e che di conseguenza doveva essere instillato e introiettato dai soggetti. Lo Stato dispone dei due poteri, temporale e spirituale, e uno è più importante dell’altro. Le forze dell’ordine possono infatti vegliare sui pericoli della libertà solo perché ci sono dei soggetti che credono nella libertà, avendo fatto proprio l’ideale. Lo Stato deve dunque anche e anzitutto insegnare la libertà, attraverso la religione. Passata al setaccio della ragione, la versione secolarizzata della Chiesa è la Scuola della Repubblica. Ciò che l’Illuminismo ha aggiunto in maniera decisiva alla scienza politica moderna – per farla passare in azione – è proprio la necessità logica e politica di questa forma moderna d’indottrinamento. La topologia liberale è dunque in verità a quattro poli, che si sostengono sul concetto di libertà: individuo, Stato, società civile e scuola. In nome di una libertà che è produzione indefinita, non solo accumulazione di valore ma anche volontà di accumulazione senza altro parametro che la soddisfazione di desideri, viene prodotto un soggetto che è strutturalmente insoddisfatto, che mette costantemente in moto la macchina produttiva affinché essa gli fornisca gli oggetti in grado di soddisfare il suo desiderio. È quanto Locke descrive col concetto di uneasiness, il “disagio” che sta alla base dell’industriosità umana. Il problema del consumo non è dunque nato oggi o negli anni Sessanta ma, come capì bene l’economista e sociologo Thorstein Veblen, è strutturale nel capitale.

 

 Oggi sembra aver raggiunto, però, un livello che rende difficilmente pensabile il suo proseguimento indefinito. I sintomi sembrano provenire da più parti…

Francesco Callegaro: Sì, certo, ed è qui che è possibile cogliere la vera antinomia, che appunto non è quella tra libertà e sicurezza. Se si comprende che il concetto di libertà si accompagna intrinsecamente a una logica produttivista – Pierre Charbonnier l’ha sintetizzato nel titolo di un suo libro con l’espressione “libertà e abbondanza” –, allora il muro contro cui è destinato a scontrarsi il progetto moderno e liberale di civiltà è innanzitutto la Terra. La questione ecologica rappresenta una delle principali scosse sismiche che stanno frantumando il compatto consenso fino a ieri soggiacente al progetto moderno liberale. Se con Hobbes abbiamo la prefigurazione della logica, con la Rivoluzione francese la realizzazione storica, con gli Stati Uniti l’espansione su scala planetaria, oggi siamo arrivati al capolinea. Quell’idea di libertà, apparentemente così legittima se vista nella quotidianità – chi metterebbe in dubbio che è bene non disturbare i propri vicini –, esaminata nella sua configurazione complessiva si rivela essere il pilastro di un progetto di civiltà ormai insostenibile. Questa è la fonte più profonda della necessità di ripensare il senso della libertà.

 

Lei ha lavorato molto su Durkheim, a cui ha dedicato un importante studio La science politique des modernes. Durkheim, la sociologie et le projet d’autonomie, e sulla tradizione sociologica francese. Durkheim permette in effetti di pensare che questo ideale di libertà è più una credenza collettiva che il modo in cui effettivamente avvengono le pratiche sociali. Tale credenza avrebbe quindi anche l’effetto di occultare una rete di interdipendenza sociale e di cooperazione che si intensifica sempre più, al contrario di quel che pensiamo. Non si tratterebbe dunque di opporre un ideale altro ma mostrare come già l’ideale liberale sia inadeguato alla realtà concreta delle nostre relazioni.

Francesco Callegaro: Ha ragione, ma in una discussione di filosofia politica non va da sé la necessità di convocare le scienze sociali. Il problema è che quanti in filosofia politica hanno cercato di criticare la definizione liberale di libertà hanno per lo più “giocato” coi concetti. I filosofi pensano che sia sufficiente dare una definizione diversa di libertà per aprire un orizzonte sociale e politico differente. Questo è l’orientamento normativo, la forma attualmente predominante della filosofia politica. Si mettono a costruire repubbliche immaginarie e gli effetti prodotti sono nulli. Bisogna dunque uscire dalla filosofia politica normativa e rendersi conto che, per capire esattamente lo statuto dell’idea di libertà e quindi le difficoltà che abbiamo a fuoriuscirne, abbiamo bisogno della storia concettuale e delle scienze sociali. L’idea in questione, infatti, non è solamente un’idea, ma, con Durkheim, potremmo dirla una rappresentazione collettiva (Cornelius Castoriadis direbbe “immaginario”, Louis Dumont “ideologia”). Da un punto di vista sociologico, la libertà ha cioè un carattere istituito: è intimamente vincolata a un ordinamento concreto, che va ben oltre quello perimetrato dalla nostra costituzione, giacché si radica in una certa configurazione della divisione del lavoro, così come nelle credenze che abbiamo ereditato. Dall’altro lato, è vero che tale immaginario produce anche un occultamento. Qui bisognerebbe intrecciare il senso che Castoriadis conferisce al concetto di immaginario con quello della psicanalisi di Jacques Lacan. Castoriadis concepisce l’immaginario come delle idee operanti nella prassi che orientano l’azione, mentre Lacan fa riferimento alla costituzione del soggetto nello “stadio dello specchio”, dunque a un’immagine idealizzata che cattura il soggetto. L’idea moderna di libertà è questi due aspetti insieme: un’idea che opera effettivamente nella prassi e si consolida in istituzioni e che allo stesso tempo ci cattura. Ci affascina a tal punto che, esattamente come avviene con lo specchio, non vediamo più il nostro corpo reale ma solo l’immagine proiettata e idealizzata.

 

Com’è possibile trasformare un’idea di questo tipo? Muovere l’idea in questo caso vuol dire anche muovere le istituzioni e le pratiche in cui è incarnata, quelle che caratterizzano la nostra struttura politica ma anche la nostra vita quotidiana.

Francesco Callegaro: È vero. La sfida, resa urgentissima dalla crisi attuale, non si può esaurire in una critica dialettica all’idea. Deve corrispondere un lavoro concomitante che cerchi di andare oltre lo specchio e che prenda consapevolezza di un altro senso della libertà che si sta facendo già, intrecciando alcune esigenze moderne ma anche oltrepassandole. E questo altro senso si sta facendo non nella testa di un qualche filosofo, ma nei movimenti sociali, nelle aspirazioni delle nuove generazioni, nelle trasformazioni della società. È per questo che le scienze sociali si rendono necessarie: abbiamo bisogno di prendere coscienza dei movimenti che nella società stanno già concretamente coltivando un altro senso della libertà.

 

Questo è ciò che, nella sua lettura, hanno fatto nella loro epoca Durkheim e i durkheimiani: nel caso della sociologia francese il legame intimo era col socialismo.

Francesco Callegaro: In seguito alla rottura della Rivoluzione francese c’era una consapevolezza diffusa di un vuoto concettuale: se in altre società le idee sono vincolate alla prassi e immanenti ai corpi, nella nostra modernità c’è uno scollamento tra realtà e ideale, per cui molti elementi della pratica sociale non trovavano espressione nella riflessione teorica e nella coscienza diffusa. Dumont identifica proprio in questo vuoto il motore della ricerca sociologica, ricerca che ha preso piede dalla spinta del socialismo e della questione sociale. Evidenziando poi una definizione di Pierre-Joseph Proudhon di libertà, per la quale l’uomo più libero è l’uomo che ha più relazioni coi suoi simili, mostra la necessità di articolare a livello teorico delle pratiche concrete, quelle socialiste di cooperazione, che non trovavano espressione nei discorsi filosofici, nell’organizzazione dello Stato, nell’armatura giuridica, nell’istruzione, ecc. C’era insomma tutto un mondo di pratiche che richiedeva di essere pensato, e in particolare un modo di pensare la libertà che non era diverso, ma opposto. Non si tratta di pensare la libertà in maniera plurale, come vorrebbe Isaiah Berlin (tenendo insieme libertà positiva e libertà negativa), ma di aprire uno spazio antitetico. Nella visione liberale, la libertà è giocoforza la negazione della relazione, mentre nell’affermazione di Proudhon la relazione è l’affermazione della libertà. Le due concezioni non possono dunque stare insieme. Se è vero che la libertà è relazionale, il soggetto privato del diritto – cioè il soggetto liberale autonomo che non vuole interferenze nella propria realizzazione – non è davvero libero, ma è catturato in un’immagine ideale e irreale. Nella prospettiva che emerge dal movimento socialista e che culmina teoricamente nel progetto di riflessione sociologica, libertà e interdipendenza – nel lavoro, nella vita, nella lotta – sono due facce della stessa medaglia. Questo è il punto chiave per capire che cosa manca nel dibattito attuale: c’è stato in passato ed è possibile tuttora un disaccordo radicale sul senso stesso della libertà.

 

Abbiamo parlato della religione in Hobbes, e più in generale dell’educazione, come il braccio operativo della struttura liberale moderna, il mezzo attraverso cui l’idea astratta di libertà diventa il modo in cui effettivamente i soggetti pensano se stessi e strutturano le proprie istituzioni. L’idea socialista e sociologica di libertà è destinata invece a rimanere solamente un’idea?

Francesco Callegaro: Che ci fosse una dimensione religiosa nel cuore dell’ideologia moderna non bisognava aspettare Carl Schmitt e la teologia politica per capirlo. Già nell’Ottocento c’è la forte consapevolezza che non si tratta solo di idee filosofiche, ma di credenze radicate. Andare a criticarle richiede dunque allo stesso tempo mettere in piedi delle forme di vita divergenti. Non solo: anche delle nuove maniere di produrre e trasmettere il sapere, capaci di sostenere una nuova credenza. Nella Scuola francese di sociologia questo ha prodotto anche effetti talvolta apparentemente deliranti: Saint-Simon e Comte finiscono entrambi col parlare di una nuova religione. In parte Durkheim fa lo stesso, tenendo però maggiormente a freno lo scivolamento nella forma profetica. Ma effettivamente all’interno della scuola durkheimiana si condivideva un compito: non era semplicemente un laboratorio, ma qualcosa di più. Bisognerebbe far risuonare tutti i sensi della parola “scuola”, così come ha fatto ad esempio Lacan quando ha iniziato a pensare che cosa significasse creare una scuola di psicanalisi. Lo stesso aveva fatto Durkheim con la sociologia: non si trattava semplicemente di correggere degli errori, ma di trasformare un immaginario e di conseguenza le istituzioni in cui questo immaginario si doveva incarnare. E questo richiedeva necessariamente la creazione di un gruppo di ricerca che funzionasse con coordinate diverse da quelle dettate dall’epistemologia illuminista. Però è molto difficile in Europa, nei centri della civiltà liberale, far capire che il sapere non è solo conoscenza ma investe la vita e la politica.

 

Vede oggi delle istituzioni o delle pratiche che riescono a incarnare un immaginario alternativo della libertà? Oppure il nostro immaginario di moderni è ancora saturato dall’idea di libertà “negativa”, che esclude la relazione con l’altro?

Francesco Callegaro: La sfida oggi è ardua per il fatto che il progetto moderno si è istituito e sedimentato, si è fatto ordine. Ce l’abbiamo dentro, non davanti – tanto più dopo l’ultimo affondo del neoliberismo. Allo stesso tempo però stiamo giungendo al punto finale, perché le crisi si moltiplicano e si intrecciano. A riassumere tali crisi è probabilmente la consapevolezza nascente relativamente ai limiti ecologici. In Europa i tentativi più radicali si stanno facendo su quel terreno: anche se i movimenti sociali non sono così dirompenti da generare una riflessione adeguata, nelle loro pratiche e nelle loro idee si può incontrare un senso alternativo della libertà. Questo perché al centro della questione vengono posti i problemi della responsabilità e della cura, che sono costitutivamente incompatibili con l’idea liberale di libertà. Se c’è qualcosa che caratterizza la definizione cosiddetta “negativa” di libertà, infatti, ciò è proprio l’irresponsabilità, il fatto che l’unico limite sia la libertà altrui. È chiaramente un’idea folle, ma è la nostra. Se invece partiamo dall’esigenza di assumerci la responsabilità e di prenderci cura delle comunità, dei territori e degli ambienti in cui si intrecciano – come dice ad esempio Philippe Descola – umani e non umani, lì dentro si sta coltivando – anche se ciò non viene esplicitato adeguatamente – un altro senso della libertà. Il problema è che questa connessione tra movimento e discorso si è mostrata in maniera potente a cavallo tra Ottocento e Novecento nel legame tra socialismo e sociologia intorno alla questione sociale, ma non si dà allo stesso livello di radicalità intorno all’ecologia. Ci sono sì intellettuali che cercano di articolare quello che stanno facendo emergere questi movimenti, influendo a loro volta sulla loro autocomprensione, ma un deficit di consapevolezza storico-concettuale e sociologica impedisce loro di cogliere l’insieme delle dimensioni che andrebbero pensate e trasformate. È anche vero che qualcosa si sta sgretolando: non c’è più il consenso compatto e ideologizzato intorno al concetto di libertà che ha caratterizzato gli anni Ottanta o Novanta. La sensazione angosciata che hanno le nuove generazioni di una catastrofe imminente – e tutta l’attivazione frenetica di una pluralità disarticolata di movimenti – sta producendo una frattura dell’immaginario. Resta però moltissimo da fare per immaginare quale potrebbe essere il complesso istituzionale alternativo che ruota intorno a una libertà diversa, fatta di responsabilità e di cura.

 

E al di fuori dei confini europei? Lei vive e lavora in Argentina: che cosa può farci comprendere l’America Latina da questo punto di vista?

Francesco Callegaro: Moltissimo, ma è necessario introdurre una conversione radicale dello sguardo. Abbiamo iniziato con Hegel, possiamo allora finire con Hegel. Credo, in effetti, che se c’è un pilastro della modernità che sta cedendo si tratta proprio dell’ipotesi della filosofia della storia hegeliana, condivisa in realtà da tutta o quasi l’intellettualità europea, fino al cuore delle scienze sociali. Secondo tale schema l’Europa sarebbe il luogo in cui ci si deve situare per cogliere il divenire dell’umanità nel suo complesso e per afferrare, in definitiva, il senso compiuto della libertà. Non si tratta solo di simmetrizzare le prospettive, come ci invitano a fare gli antropologi contemporanei, di essere cioè consapevoli che quel che si presenta altrove nell’esperienza non è il residuo di un passato che noi europei abbiamo oltrepassato. Bisogna andare più a fondo e cercare di cogliere la contemporaneità del non-contemporaneo: il futuro che stiamo cercando, il futuro che emerge appena nelle lotte più significative del presente – se partiamo dall’idea che questo presente oggi è altrove – affonda le sue radici nel passato. Come ha colto con largo anticipo Dumont, sulla scorta degli insegnamenti di Marcel Mauss, è nella cosiddetta periferia, laddove si fa esperienza degli effetti distruttivi della modernità liberale, che si attivano dinamiche antagonistiche di produzione di ibridi tanto esplosivi quanto creativi. Gli europei hanno paura di quanto può sorgere dai margini, e da un certo punto di vista si capisce: sono spettri del loro passato, tanto più inquietanti che fanno emergere aspetti ben poco degni della nostra storia.

 

Si riferisce al colonialismo?

Francesco Callegaro: Sì, certo, ma non per fare un processo morale, bensì per pensare la fonte delle trasformazioni in corso. L’ibridazione della modernità non è un fatto contingente, ma una necessità di struttura, legata al doppio movimento scatenato dal colonialismo. Per questo in America Latina ci sono movimenti che non si limitano a costruire comunità prefigurative, ma cercano e a volte riescono a incidere sull’ordinamento complessivo della società, risvegliando la potenza istituente fino al punto di generare altre forme di Stato, come lo Stato Plurinazionale della Bolivia, o la costituente ancora aperta in Cile; altre forme di economia, come l’economia sociale e solidale in Brasile o l’economia popolare in Argentina; altre forme di educazione, come le innumerevoli esperienze di Università popolari, autonome, ecc. Se il socialismo, in Europa, ha contribuito a trasformare il senso della libertà per rendere pensabili e realizzabili i diritti sociali, la nuova trasformazione si sta producendo oggi in America Latina attraverso una feconda ibridazione di secondo grado tra l’indigenismo e l’eredità del socialismo europeo. Con una formula che parafrasa Proudhon, potremmo dire che dall’America Latina ci arriva questa lezione: il soggetto più libero è chi ha più relazioni con i propri simili, dunque anche con tutti gli esseri viventi che popolano il suo ambiente vitale. Decentrando lo sguardo, bisognerebbe allora capire in che misura possiamo far nostro questo immaginario sapendo che non disponiamo delle stesse fonti – o quanto meno che non sono altrettanto manifeste. È questo approfondimento sociologico che manca. Ed è anche per questo che il socialismo ecologico stenta a decollare.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici