Recensione a: Jonathan Wolff, Perché leggere Marx, il Mulino, Bologna 2018, pp. 120, 12 euro (scheda libro).
Scritto da Giulio Pignatti
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Nel 2018 il bicentenario della nascita di Karl Marx ha visto dare alla stampa numerosi volumi, saggi e articoli sul filosofo di Treviri, indizio di una renaissance che acquista sempre più spazio nel dibattito culturale, non solamente accademico.
Perché leggere Marx, di Jonathan Wolff, professore di Public Policy alla Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford, è stato tradotto in italiano per il Mulino proprio in questa occasione; il libro vuole essere il precipitato di diversi anni di lezione su Marx e sul marxismo agli studenti dello University College di Londra, lezioni che, semestre dopo semestre, nello stupore di Wolff stesso, hanno visto affollarsi un sempre più nutrito uditorio di giovani interessati. Segno, questo, che la “riscoperta” del Moro – l’appellativo con cui era familiarmente chiamato Marx e con il quale lo ha imparato ad amare anche il grande pubblico del recente film Il giovane Marx, altra tappa importante di questa renaissance – non ha solo a che fare con un anniversario. Il tragico fallimento dei regimi del socialismo realizzato, come scrive Wolff, «non assolve il capitalismo liberale e democratico dell’Occidente» (p.11), che, pienamente dispiegato in seguito alla caduta del Muro di Berlino nella forma del neoliberismo, ha in questi anni di crisi economica manifestato le sue drammatiche storture e contraddizioni. Finiti gli anni in cui il nome del filosofo tedesco bastava, vittima di un grande cocktail ideologico, a richiamare la scabrosa “minaccia sovietica”, ci si sta evidentemente rendendo conto di come sia «soprattutto Marx a fornirci gli strumenti più acuti per analizzare la società attuale» (ibid.).
È questa una delle tesi forti del libro del docente britannico, discepolo del capostipite del marxismo analitico, Jerry Cohen: le analisi dell’autore de Il Capitale non possono che suscitare ancora oggi «stupore oltre che ammirazione» (p.8) – questo anche il segreto del magnetismo delle lezioni sul Moro allo University College. Impossibile, ad esempio, non pensare alla crisi iniziata nel 2007 quando leggiamo Wolff spiegare come consustanziale al capitalismo sia, per Marx, la necessità e la regolarità della crisi, nonché la presenza di un «esercito industriale di riserva» di disoccupati: «il capitalismo, per funzionare regolarmente, comporta un ciclo di occupazione. Non c’è alcuna tendenza all’equilibrio, sia nel breve che nel lungo periodo […] Le promesse dei politici di una piena e permanente occupazione, quindi, sono un miraggio» (p.70). E così Wolff, suddividendo il suo testo in due parti, si propone innanzitutto di esporre in maniera più asettica possibile le teorie marxiane; partendo dai testi giovanili, a cui viene concesso un particolare rilievo – soprattutto per quanto riguarda la teoria del lavoro alienato – si giunge fino alle formulazioni mature, che Wolff – seguendo Engels – schematicamente racchiude sotto le etichette di «teoria del materialismo storico» e «teoria del plusvalore». Nella seconda parte, invece, intitolata Un bilancio, l’autore sviluppa tutta quella serie di commenti a margine che, nonostante gli sforzi d’imparzialità, già si era lasciato sfuggire nella presentazione della filosofia marxiana.
Commenti a margine, spesso animati da uno humor tipicamente britannico, che effettivamente non sono rari. Se Wolff sostiene inequivocabilmente l’urgenza di continuare a leggere Marx ancora oggi, al filosofo di Treviri non vengono però risparmiate delle critiche radicali. Una in particolare è presentata fin dalle pagine dell’Introduzione e innerva tutto il testo, ed è il rilievo per il quale, dal momento che Marx non offre caratterizzazioni dettagliate in merito al comunismo, «oggi ha ben poco da dirci su come organizzare la società» (p.12). Questo motivo critico torna ad esempio in relazione al famoso tema dell’«emancipazione umana» degli scritti giovanili (p.45) e poi soprattutto, sul piano della filosofia della storia, in merito al superamento del capitalismo e alla cosiddetta «fase di transizione». Questo genere di giudizi svela però, a parere di chi scrive, un lato piuttosto fragile del testo, che forse vale la pena approfondire.
Abbiamo già accennato come Wolff – dichiarandolo apertamente, del resto – riprenda un tipo di lettura della filosofia marxiana affine a quella operata da Friedrich Engels, il sodale di una vita, che sopravvisse a Marx e ne sviluppò, più o meno coerentemente, alcune linee teoriche. È Engels a individuare, nella famosa orazione funebre per l’amico Karl, il materialismo storico e la teoria economica del plusvalore come i due nuclei tematici veramente rivoluzionari della filosofia del Moro. Una tale sistematizzazione e lettura dell’itinerario marxiano – si sa – è quella che ha maggiormente influenzato le basi teoriche del marxismo. Basterebbe però ricordare, ancor prima che la famosa affermazione di Marx stesso «moi, je ne suis pas marxiste», come in nessun testo del corpus marxiano (né marxiano-engelsiano) occorra l’espressione «materialismo storico» o come i testi maggiormente utilizzati da Wolff per esporre questa “dottrina” siano testi volutamente non pubblicati – l’Ideologia tedesca, affidata «volentieri alla critica roditrice dei topi», e l’Introduzione del 1857, intenzionalmente soppressa da Marx –, per capire come questo tipo di lettura non sia esente da difetti. Poco male: scrive Wolff che un punto di partenza interpretativo va pur scelto, quindi tanto vale optare per uno dei più tradizionali – uno dei più dogmatici, in verità. Una schematizzazione dottrinale può effettivamente essere comoda per un lettore che poco o niente sa della produzione marxiana – ed effettivamente Perché leggere Marx costituisce una buona presentazione dei punti cardine di essa – ma di certo in sede critica bisogna essere più cauti. La filosofia di Marx non consiste nella formulazione di teorie universalmente vere e non contraddittorie da applicare sul piano storico, individuando, in maniera quasi profetica, linee di tendenza necessarie – secondo una modalità spesso caratteristica, invece, della filosofia politica analitica. Quando Wolff parla di «Natura del comunismo», lamentandosi della scarsità di indicazioni marxiane a riguardo e ironizzando, tra l’altro, con l’invece significativa dichiarazione di un Marx che si rifiuta di «prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire», sembra quasi dimenticare che il comunismo «non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» – secondo la celebre formulazione di Marx e Engels.
In Marx, più che dei suggerimenti su come organizzare un presente irrimediabilmente cambiato rispetto al XIX secolo, possiamo trovare uno stile di pensiero assolutamente rivoluzionario e singolare, per il quale da una parte l’analisi critica oggettiva non è mai svincolata da una pratica soggettiva di lotta rivoluzionaria, dall’altra la critica e la lotta acquisiscono forza e senso solamente in relazione a un certo contesto materiale e sociale. “Critica” è la parola chiave, che, si ricordi, è presente anche in ogni titolo (o sottotitolo) delle opere “economiche” marxiane, ma che in Perché leggere Marx compare raramente. E la critica è innanzitutto critica anti-essenzialistica, volta a smascherare la naturalizzazione ideologica di concezioni teoriche e rapporti di produzione materiali propagandati come veri e immutabili, posti astrattamente al di sopra del piano storico – la stessa astrazione in cui rischia di cadere chi, come parte della filosofia politica analitica contemporanea, cerca delle «ricette per l’osteria dell’avvenire». Gli scritti storico-politici marxiani, pressoché ignorati da Wolff, non hanno per noi oggi il senso di una ricostruzione antiquaria da un punto di vista particolare, engagé, bensì testimoniano di una attività intellettuale e politica che ricalibra analisi e organizzazione col mutare degli eventi, in seguito a sconfitte storiche come quella del 1848 o a sperimenti avanguardistici come la Comune di Parigi. È questo che Étienne Balibar, grande studioso marxiano, intendeva quando, dall’altra parte del canale della Manica rispetto a Wolff, scriveva che «più di altri, Marx ha scritto nella congiuntura».
Per quanto Perché leggere Marx riesca nel difficile compito di offrire una agevole introduzione ai principali nodi teorici marxiani (la religione, la critica al liberalismo e all’alienazione, la storia e il concetto di classe, il lavoro e il plusvalore, etc.), meno efficace – a parere di chi scrive – è dunque l’operazione di vaglio su ciò che è vivo e ciò che morto nella filosofia di Marx, che Wolff si propone fin dalle prime pagine di fare. Questa stessa operazione, invece di andare a cercare in Marx indizi su come meglio organizzare la società – o su come «come far funzionare in modo sostenibile un’economia di massa» (p.8) –, dovrebbe interiorizzare proprio la lezione del filosofo di Treviri e svilupparsi così inscindibile da una rinnovata analisi del mutato contesto sociale e indissolubilmente allacciata con le nuove pratiche emancipatorie che sempre più, sparse, emergono. Degli indizi compaiono dallo stesso Perché leggere Marx, che in tal senso è molto prezioso; come non restare sbalorditi, ad esempio, dal noto passaggio del terzo libro de Il Capitale sul comunismo come «regno della libertà», che Wolff riporta come un «ideale coerente e ricco di fascino» (p.85) ma che oggi – in un’epoca di transizione in cui molti tipi di lavoro, finora strumenti ideologici di controllo, hanno l’opportunità di venire definitivamente archiviati e in cui il rischio è di nuovo la monopolizzazione di quelle piattaforme che rendono ciò possibile – ha un grande potenziale rivoluzionario? Ha forse senso rileggerlo:
«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità […] La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».