Recensione a: Giuseppe Cambiano, I moderni e la politica degli antichi. Tra Machiavelli e Nietzsche, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 288, 27 euro (scheda libro)
Scritto da Gio Maria Tessarolo
5 minuti di lettura
Perché leggere i classici è un tema su cui in Italia si è dibattuto fin troppo negli ultimi anni, spesso nel contesto delle tormentate discussioni sul valore del liceo classico. Meno se ne parla in ambito storico-filosofico, in cui il problema è stato posto acutamente nel Novecento da posizioni come quella straussiana o dal rinnovato interesse in chiave analitica per i grandi testi della produzione platonica o aristotelica, ma in cui in genere si accetta quietamente la presenza del mondo antico come ispirazione cruciale dei grandi pensatori della modernità, dall’Umanesimo all’Illuminismo fino ad Heidegger. La ricerca delle fonti è peraltro spesso svolta da specialisti del pensiero moderno, che consultano i testi di Polibio o di Livio o dei presocratici semplicemente in funzione di Machiavelli o di Montesquieu o di Nietzsche, per studiare la presenza o la rielaborazione di motivi e idee. L’ultimo lavoro di Giuseppe Cambiano inverte in un certo modo questa consuetudine, affrontando la storia della filosofia politica moderna con gli occhi di un antichista: i saggi raccolti in I moderni e la politica degli antichi sono infatti frutto del decennale lavoro di studio e ricerca di uno dei massimi storici della filosofia antica italiani ma che, come già ampiamente dimostrato da importanti lavori precedenti (uno su tutti, la monografia Polis. Un modello per la cultura europea (2000) di cui questo testo vuole essere anche un arricchimento e un completamento), ama utilizzare questa sua competenza come punto di partenza per capire in che misura e in che modo i classici possano parlare alla posterità.
Via di accesso privilegiata a questo problema è la comprensione del modo in cui essi hanno influito su generazioni di intellettuali proprio nel periodo in cui la cultura europea si è per molti versi svincolata dai modelli e dai limiti posti dalla tradizione (o almeno, così l’hanno a lungo pensata numerosi modelli storiografici): la modernità. Il primo grande merito del testo è infatti mostrare come non solo i grandi autori dell’antichità ma anche i grandi temi della sua politica (dal modello spartano alla contrapposizione polis-impero, dal problema della democrazia diretta a quello dell’impegno pubblico) siano stati oggetto di discussione e di contesa fra i maggiori pensatori politici dal Cinquecento fino alle soglie del Novecento (ma l’indagine potrebbe essere facilmente ampliata a numerosi ambiti della filosofia del XX secolo). Gran parte di questi hanno infatti elaborato le loro proposte proprio sulla base di una certa valutazione dei modelli del mondo antico, la cui analisi poneva problemi concreti e stringenti alla tenuta stessa dei loro apparati concettuali: valutazioni diverse della schiavitù, per esempio, portano Rousseau da una parte e Constant o Tocqueville dall’altra a valutare in modo diverso la possibilità di proporre i valori della polis per la modernità. In modo analogo, diverse letture tanto degli scritti di Cicerone quanto del suo ruolo storico sono alla base delle diverse proposte politiche dei partiti che si affrontano nell’Inghilterra del primo Settecento, con l’obiettivo non solo di utilizzarlo strumentalmente a sostegno delle proprie posizioni, ma di penetrare davvero in profondità nella vita e nel pensiero dell’Arpinate come modello di uomo di Stato, trasformando erudite battaglie filologiche in questioni di attualità.
Le ricerche che compongono il testo si dirigono principalmente in due direzioni: ci sono da una parte analisi monografiche minuziosissime che indagano autori o vicende “minori” con grande attenzione al dettaglio e perizia testuale, dall’altra ricostruzioni tematiche molto ampie che coinvolgono i maggiori pensatori politici della modernità (Machiavelli, Montesquieu, Rousseau, Hegel) in dibattiti che si snodano lungo secoli e si intrecciano alle principali questioni che essi tematizzano, dal problema dello Stato nazionale a quello del nesso commercio-corruzione, dalla tolleranza religiosa al federalismo americano. Alla prima categoria appartengono per esempio i capitoli dedicati al ruolo di Tucidide nel far emergere la tematica della “ragion di Stato” nel pensiero di Della Casa (che dello storico della guerra del Peloponneso è stato anche traduttore originale e acuto) o allo stoicismo “anomalo” di Shaftesbury, che predilige in modo difficile da spiegare Marco Aurelio ed Epitteto a Seneca e Lucano. Nella seconda si distinguono per ampiezza e ricchezza di riferimenti le panoramiche sul tema della schiavitù, delle dimensioni dello Stato e della valutazione dell’antichità in chiave comparata, che spaziano da Machiavelli fino a Nietzsche con una chiarezza espositiva cristallina.
Particolarmente interessante risulta in questo gruppo l’ultima delle disamine richiamate, quella sulla comparazione (il sesto capitolo), che è anche un esempio brillante di come sia possibile combinare analisi storica e analisi teorica: i vari autori vengono infatti classificati secondo criteri che possono essere anche letti come una riflessione metodologica sul concetto di comparazione. Da Rousseau a Montesquieu agli illuministi scozzesi, i vari approcci ricostruiti mirano di volta in volta a valutare qualitativamente un elemento del passato rispetto ad un altro o a ricavare “cognitivamente” modelli teorici rilevanti per il presente o a rendere conto dell’inesauribile varietà del reale o a chiarire singoli punti oscuri del processo storico: un’esposizione del modo in cui gli antichi sono stati “vivi” per i moderni rende i moderni altrettanto “vivi” per noi, suscitando interessanti considerazioni sul metodo e sulle finalità stesse dell’indagine storica.
In entrambi i casi, ciò che rimane sempre in primo piano è il senso di vivacità che Cambiano riesce a trasmettere, facendo delle pagine dei classici in questione dei veri e propri campi di battaglia intellettuali, in cui le grandi questioni politiche non sono affrontate guardando all’antichità come un punto di riferimento lontano da cui trarre ispirazione, ma come fonte di proposte, come interlocutori vivi e presenti da elogiare o criticare, ma mai recepire passivamente. Notevole è da questo punto di vista l’analisi degli ultimi tre capitoli, dedicati interamente a protagonisti della cultura tedesca fra Settecento e Ottocento (Herder, Müller, Hegel, Zeller), che in un certo modo intreccia i due approcci appena richiamati: lasciandosi alle spalle l’idealizzazione “winckelmanniana” che aveva caratterizzato il neoclassicismo, questi intellettuali affrontano lo studio dell’antichità in modo per certi versi analogo a quanto si è detto sull’utilizzo di Cicerone in Inghilterra. Una sua conoscenza sempre più ricca e storicamente accurata si accompagna infatti ad una sua diversa valutazione sul piano teorico, influenzando per esempio in modo decisivo il ruolo giocato dal modello della grecità “bella” nel pensiero di Herder o di Hegel o, successivamente, intrecciandosi in modo significativo alla commistione di prospettiva hegeliana e neokantiana nelle riflessioni del massimo storico della filosofia antica dell’Ottocento.
Lungi da una sterile “archeologia delle fonti” o da una meccanica ricostruzione di debiti intellettuali (spesso piattamente presentati secondo il modello del “l’aveva già detto…”), dunque, il lavoro di Cambiano costituisce, oltre che una preziosa miniera di informazioni per chiunque si occupi degli autori trattati, un esempio brillante di cosa possa e debba essere la storia della filosofia al suo meglio: intreccio di ricostruzione fattuale e riflessione teorica, per mostrare come la grandezza di un pensatore stia nel sapersi confrontare con un contesto, una tradizione o dei maestri, al contempo facendo propri e trasformando i loro insegnamenti, e come spesso proprio lo studio della storia del pensiero diventi chiave di accesso all’elaborazione di un apparato concettuale originale.
Prestando attenzione alla declinazione specifica del testo, questo si traduce nell’idea che la storia del pensiero politico sia da concepire (in modo analogo ad altre branche della filosofia) innanzitutto come un dibattito in cui si pongono dei problemi teorici cui vari autori forniscono, attraverso le loro analisi specifiche, risposte diverse a domande simili. Proprio quello delle riflessioni sulla vita associata, in cui la modernità pare agli antipodi rispetto a ciò che l’ha preceduta di millenni, si rivela uno dei terreni più fertili per dimostrare come invece i problemi teorici e filosofici di Platone, Aristotele, Polibio non siano stati affatto qualcosa di “passato” per i teorici all’origine delle idee di Stato e di politica ancora oggi in primo piano.
Se non fornisce dunque una risposta diretta ed esplicita alla domanda “perché leggere i classici?”, questo libro certamente mostra quale sia stata e quale possa essere la forza concettuale della classicità nel costruire il mondo che conosciamo, e come cercare di comprenderlo significhi inevitabilmente risalire alle radici della nostra civiltà, che non ha mai smesso di guardare alla Grecia e a Roma non solo come punto di partenza ma anche come confronto costante.