Recensione a: Marco Dell’Aguzzo, Power. Tecnologia e geopolitica nella transizione energetica, Prefazione di Simone Pieranni, Ledizioni, Milano 2024, pp. 160, 14,90 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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«La transizione energetica ha molto più a che vedere con la leadership mondiale che con la lotta al riscaldamento globale».
Così scrive il giornalista Marco Dell’Aguzzo nel suo nuovo libro Power. Tecnologia e geopolitica nella transizione energetica (edito da Ledizioni, con prefazione di Simone Pieranni), immortalando una fotografia di questa fase storica che, se può comprensibilmente urtare talune sensibilità, rappresenta ciononostante una realtà da cui non si può prescindere. Di fronte alla crisi climatica, può sembrare di cattivo gusto discutere di competizione tra Stati, lotta per l’egemonia nei nuovi mercati e per il controllo delle tecnologie, quando invece ci dovrebbe essere un’azione comune globale per salvare il pianeta. Eppure, anche se non ci si vuole occupare di questi profili apparentemente secondari, ciò non toglie che esistano e informino il nostro presente. Il libro di Dell’Aguzzo mostra questa realtà con estrema lucidità, portando il lettore nelle supply chain, nelle strategie delle maggiori potenze, a partire da Stati Uniti e Cina, nei laboratori delle nuove tecnologie, raccontando una corsa alla conquista dei mercati delle energie pulite. Impossibile, ci dice l’autore, astrarre la tematica ambientale dal contesto della competizione geopolitica, dalle soluzioni tecnologiche e dalle dinamiche di mercato.
Si pensi alla leadership cinese nella catena delle auto elettriche. Quando Pechino decise sul finire del ventesimo secolo di intraprendere questa strada, non fu tanto per ragioni climatiche – anche perché il dibattitto sul riscaldamento globale non era acceso come oggi – quanto per una semplice intuizione: non potendo competere con le case automobilistiche occidentali nella catena delle automobili a motore termico, tanto valeva muoversi direttamente verso un nuovo mercato, quello delle auto elettriche, all’epoca quasi inesistente e ove non era necessario il know-how richiesto per la produzione dei veicoli tradizionali – anche perché nel segmento EV (electric vehicle) circa metà del valore è dato dalle batterie. La strategia fu dunque quella di puntare sul nuovo mercato e sul parallelo sviluppo delle batterie, in modo da ritagliarsi un campo di competenza autonomo rispetto alla leadership occidentale. Inoltre, investire nelle auto elettriche avrebbe permesso anche di attenuare la problematica dell’inquinamento, particolarmente sentita dai cittadini, così da migliorare la qualità dell’aria nelle città della costa sempre più congestionate. Questo è peraltro un esempio emblematico di come un certo consenso sulle politiche verdi lo si ritrova quando queste sono calate nella dimensione quotidiana, si pensi alla qualità dell’aria, e non in globali obiettivi di salvare il pianeta, che trovano poco interesse nei cittadini, in quanto considerati distanti rispetto ai problemi materiali e concreti di ogni giorno.
La Cina è uno dei protagonisti indiscussi del libro. Non solo per la centralità che si è costruita nel mercato delle batterie e delle auto elettriche, oltre che nella raffinazione di diversi materiali critici per la transizione, ma anche perché rappresenta la grande contraddizione di questo tempo: un Paese che è al contempo leader nelle rinnovabili («C’è più capacità solare in Cina che nel resto del mondo messo insieme, e più capacità eolica offshore che in tutta Europa») e il maggiore emettitore al mondo, con un utilizzo ancora intenso del carbone («Nel 2022 le autorità hanno approvato la costruzione di ben 106 GW di nuova capacità a carbone»). Da qui si evince come non esista alcuna transizione dettata solo da motivazioni ambientali. C’è un elemento che i diversi attori, chi più e chi meno, ritengono persino più rilevante della salvaguardia del pianeta: la propria sicurezza energetica. E per la Cina, tale sicurezza impone di utilizzare ancora massicciamente il combustibile fossile più dannoso per l’ambiente. Non è possibile cogliere la strategia di Pechino senza considerare il tema della sicurezza e della stabilità degli approvvigionamenti, ci ricorda Dell’Aguzzo. Ragione per cui bisognerebbe essere più cauti, aggiunge chi scrive, nell’affermare che per la Russia non è un problema avere perso il proprio principale acquirente di gas, l’Europa, perché tanto le basta girarsi da Ovest a Est: ebbene, non solo mancano, verso Pechino, le infrastrutture concrete, ossia i gasdotti, ma soprattutto la Cina, memore della lezione europea, non è di certo intenzionata ad assorbire tutto il gas russo diventandone dipendente. La strategia cinese è quella della diversificazione. La sicurezza energetica prima di tutto.
L’altro grande attore esaminato da Dell’Aguzzo sono, ovviamente, gli Stati Uniti. In questo senso, la strategia di Biden passa per tre importanti provvedimenti: la Bipartisan Infrastructure Law (BIL), volta a promuovere investimenti per modernizzare il sistema infrastrutturale statunitense e adattarlo alle nuove sfide dell’elettrificazione; il CHIPS & Science Act (CSA), finalizzato ad aumentare il peso americano nella delicata e senz’altro strategica catena dei semiconduttori; infine, e forse il più importante, l’Inflation Reduction Act (IRA). Quest’ultimo non solo ha poco a che vedere con l’inflazione, ma non c’entra granché neppure con una presunta sensibilità verde e di sinistra dei democratici di Biden. Il provvedimento non può essere interpretato con le mere categorie di politica interna. Trattasi, infatti, di una possente leva statale volta a sostenere le imprese statunitensi nella sfida energetica e attirare investimenti in suolo americano, scommessa geopolitica e finanziaria sulla centralità del sistema manifatturiero statunitense nella transizione verso le energie pulite. L’obiettivo è recuperare il terreno perso rispetto alla Cina e garantire a Washington una rinnovata centralità nei nuovi mercati. Non a caso, il provvedimento è disseminato da clausole di priorità nazionale: componentistica americana, suolo americano; insomma, “buy american”, in linea con “America first”. Ebbene, se l’obiettivo fosse solo salvare il pianeta, non si capirebbe la necessità di tali misure, che con il loro volto protezionistico finiscono spesso solo per alzare i costi. Più che andare avanti tutti assieme nella transizione, i principali attori cercano di deviare il corso della stessa in linea con i propri interessi. L’obiettivo principale è renderla strumentale alla propria egemonia, a costo di rallentarla, modificarla o renderla più costosa.
È questa la chiave di lettura offerta da Marco Dell’Aguzzo. Ed è con questa lente che l’autore conduce i lettori in tecnologie necessarie ma non ancora pronte – come la cattura del carbonio, unico metodo per alleggerire l’accumulo di emissioni pregresso – o dalle mille incognite, come l’idrogeno, che già nei primi anni Duemila sembrava prossimo a scoppiare, ma che invece ha avuto una storia caratterizzata più da ombre che luci (che sia arrivato il suo momento?). Ancora, l’autore si sofferma sul nucleare, anch’esso segnato da una storia travagliata, sulla nuova geopolitica dei metalli critici e infine anche sull’Italia, potenziale hub energetico affacciato sul Mediterraneo, ammesso sappia sfruttare tale posizione strategica. Sono molte le questioni trattate. L’aspetto centrale è che la partita si gioca tutta nell’intricato mosaico di costi, tecnologie, commerciabilità, controllo di materie prime, equilibri tra competitor. È l’intreccio economico, tecnologico e geopolitico della transizione, che ne va a informare il volto, volenti o nolenti.
Per usare le parole dell’autore: «La transizione ecologica non è un percorso pacifico verso la neutralità climatica e la sostenibilità sociale. È prima di tutto una storia di potere e potenza: potere politico, perché l’energia pulita è uno strumento di espansione dell’autorità nazionale nel mondo; di potenza elettrica, perché la decarbonizzazione consiste nell’elettrificazione massiccia di consumi e processi manifatturieri. Dietro alla formula net-zero emissions, si nasconde una competizione sulle risorse minerarie, sull’innovazione tecnologica e sulla logistica industriale. La conversione energetica si accompagna al desiderio degli Stati di guadagnare vantaggi sugli altri» (p. 18).
È meglio essere consapevoli di questa realtà e farci i conti, piuttosto che rimuoverla per ragioni ideologiche. Anche perché, come si diceva, se anche non vogliamo occuparci di essa, sarà in ogni caso lei a occuparsi di noi.