Scritto da Tancredi Bendicenti
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L’Ordine sui Soffioni, lo Unitary Executive e la decostruzione dello Stato amministrativo
«Executive authority, with few exceptions, is to be vested in a single magistrate»
Alexander Hamilton, Federalist No. 69
In cauda venenum: l’Ordine sui Soffioni
«Mantaining Acceptable Water Pressure in Showerheads». Letteralmente: Mantenendo una pressione dell’acqua accettabile nei soffioni della doccia. Questo il titolo ufficiale dell’Executive Order n. 14264 del 9 aprile 2025, adottato dal quarantasettesimo (già quarantacinquesimo) Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald J. Trump. È forse naturale, e realisticamente intenzionale, che un provvedimento così rubricato susciti una qualche perplessa forma di curiosità. Non capita spesso che il “leader del mondo libero” – si sarebbe detto ai tempi della Guerra fredda, ma, forse, mutatis mutandis, anche oggi – firmi un ordine esecutivo (tra le massime espressioni del controllo politico esercitato dalla Casa Bianca sull’apparato amministrativo federale) relativo alla pressione dell’acqua accettabile nei soffioni della doccia. Soprattutto in uno dei contesti internazionali più volatili degli ultimi anni. Ma, a parte la componente umoristico-propagandistica («Nel mio caso mi piace farmi una bella doccia, per prendermi cura dei miei bei capelli. Devo stare sotto la doccia per quindici minuti finché non si bagnano completamente. Invece l’acqua esce dai soffioni goccia a goccia, goccia a goccia. È ridicolo» ha dichiarato Trump dallo Studio Ovale), questo atto, per il suo oggetto specifico di limitata portata politica, contiene una clausola applicativa di non trascurabile rilevanza giuridica. Recita: Notice and comment is unnecessary because I am ordering the repeal («Non è necessario che si proceda al notice and comment poiché sto ordinando l’abrogazione»). Alcuni elementi preliminari: il notice and comment è un passaggio fondamentale del procedimento di rulemaking amministrativo statunitense. È previsto dall’Administrative Procedure Act (APA) del 1946, section 4, e consiste nell’obbligo generale, in capo a tutte le amministrazioni centrali, di pubblicare sul Federal Register (l’apposita gazzetta ufficiale) il testo della regolamentazione proposta, in anticipo di almeno trenta giorni rispetto all’adozione definitiva, in modo che the public (i privati interessati) possano sottoporre all’amministrazione competente written data, views, or arguments. Ovviamente questi commenti non sono vincolanti, ma possono comunque rivelarsi utili nel colmare, a monte, il divario fisiologico che separa le regole per come sono pensate dagli effetti che poi, sostanzialmente, producono. Si tratta perciò di uno strumento efficace di coinvolgimento della cittadinanza, dei corpi intermedi e delle imprese nel procedimento di emanazione di norme regolamentari.
Con la formula contenuta nell’ordine sui soffioni sopracitato, Trump sottrae unilateralmente i suoi atti dal campo di applicazione della section 4. Il suo argomento? Perché lo dico io. Che in questo caso non è espressione di una forma di infantilismo, ma un richiamo implicito ad uno dei filoni interpretativi più risalenti, sostenuti e avversati della storia costituzionale americana: la teoria dello Unitary Executive.
Tout homme qui a du pouvoir est porté à en abuser: premesse generali sulla separazione dei poteri
Ma torniamo, per un momento, indietro. La questione del rapporto tra i poteri pubblici si colloca, in astratto ancora prima che in concreto, al centro dell’ambito di indagine proprio del diritto costituzionale e amministrativo. La ragione è chiara: si tratta di un problema fondamentale, nel senso letterale del termine, inerente cioè all’infrastruttura concettuale (al grund) sulla quale poggia l’intera impalcatura istituzionale dello Stato-nazione per come si è sviluppato in occidente, e per come si è poi diffuso ed evoluto nel resto del mondo.
La situazione storicamente più comune, quella di unità o prevalente contaminazione: è posto un vertice unico (talvolta teocraticamente connotato) in cui coincidono (almeno formalmente), e si combinano, in una successione di geometrie variabili più o meno cristallizzate, il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. È il caso degli imperi millenari del Vicino ed Estremo Oriente, della Roma del Principato, di buona parte delle monarchie germaniche medievali e primo-moderne. Poi, gradualmente, qualcosa è cambiato. Un sovrapporsi di trasformazioni che hanno agito su tutte le componenti della civiltà occidentale: giuridiche, sociali, economiche, filosofiche, religiose. Ma non è questa la sede, chiaramente, per tracciare i lineamenti di questa storia. Il dato che ci interessa è questo: attraverso un percorso (non certo lineare) di esperimenti falliti, stroncati e riusciti, di rivoluzioni, delusioni e successi, si è giunti all’elaborazione compiuta del modello istituzionale che caratterizza le democrazie liberali contemporanee. Un modello che, nella percezione diffusa, versa in una situazione di crisi composita più o meno acuta, forse endemica, da oramai almeno un decennio.
La teoria della tripartizione dei poteri dello Stato, per come elaborata da Montesquieu, ha un presupposto semplice, di natura essenzialmente comportamentale: chiunque abbia potere è portato ad abusarne. Da ciò segue la necessità di porre dei limiti a tale potere, che siano di natura soggettiva (operare una distribuzione istituzionale delle funzioni tra soggetti pubblici diversificati) e oggettiva (postulare clausole di inviolabilità, o di violabilità eccezionale e procedimentalizzata, della sfera giuridica soggettiva dei privati). Perché tale meccanismo possa funzionare è necessario introdurre un sistema più o meno complesso di checks and balances (pesi e contrappesi) che preveda controlli incrociati tra i poteri costituiti.
Nell’esempio italiano: il Governo deve ottenere e mantenere la fiducia delle due Camere (art. 94 Cost.), ed è soggetto ai poteri di controllo e indirizzo delle stesse (che si esplicano mediante strumenti quali audizioni, interrogazioni e interpellanze, inter alia), la magistratura, d’altro canto, è un ordine autonomo e indipendente (art.104 Cost., comma 1), ma sottoposto alla supervisione di un organo di nomina parzialmente parlamentare, il CSM (art. 104 Cost., comma 2 e ss.). Anche il Parlamento, ovviamente, non è da considerarsi come sistematicamente sottratto a forme di controllo esterno (si pensi, ad esempio, al potere di rinvio delle Leggi attribuito al Presidente della Repubblica, o al controllo di legittimità costituzionale esercitato dalla Consulta), ma è opportuno sottolineare che la modalità e la struttura di quelle forme di controllo effettivamente previste siano tali da determinarne un’incisività diminuita. La ratio del distinguo è chiara: nell’ordinamento italiano la funzione legislativa (art. 70 Cost.) è l’unica a poggiare, almeno a livello nazionale, su una legittimazione democratica diretta, espressa mediante l’elezione dei componenti delle due Camere. Il controllo principale, perciò, è esercitato dai cittadini mediante il voto.
In sei parole: l’Italia è una repubblica parlamentare. Ciò implica, almeno in astratto, una sorta di priorità sistematica del potere legislativo rispetto a quello esecutivo e giudiziario. Che poi tale priorità si concreti nella prassi istituzionale del nostro Paese, è tutt’altra, e vessata, questione. Ma continuiamo ad occuparci di forme. E attraversiamo l’Oceano Atlantico. La Costituzione degli Stati Uniti è il prodotto giuridico più stabile (perciò, forse, più riuscito) dell’Illuminismo. Un confronto: la Rivoluzione Francese produsse (circa) cinque carte costituzionali (che si succedettero nello scandire e nell’incarnare i rapidissimi cambiamenti di regime attraversati nell’ultimo decennio del Diciottesimo secolo); tutte presto superate con l’avvento della Restaurazione. La Costituzione americana, invece, è in vigore, ininterrottamente, dal 1789: sono 236 anni di continuità ordinamentale. E, se è pacifico che la stabilità non possa rappresentare l’unico parametro valutativo dell’efficacia di una norma fondamentale (d’altronde sono tali e tante le variabili che vengono in rilievo, da rendere virtualmente impossibile esprimere un giudizio), non ne va trascurata l’importanza.
Le parole sono importanti: il Presidente, la Costituzione, gli interpreti
In questi 236 anni la Costituzione americana è stata interpretata e re-interpretata, trasformata, rivoluzionata, ampliata e modernizzata. Perché è una Costituzione breve, e il vuoto lasciato dalla mancanza di norme esplicite è stato man mano riempito dagli amendments (i 27 emendamenti alla Carta approvati dalla sua entrata in vigore sino ad oggi) e da una complessa e dibattuta opera di ermeneutica giuridica e, forse soprattutto, politica. Perché, come spesso accade, il giudizio dell’interprete non si configura come una formulazione asettica e avulsa dal proprio contesto di riferimento, immune dall’influenza esercitata dai convincimenti personali, dai sistemi assiologici e dalle circostanze sociali ed economiche del tempo di cui è figlia, ma come una cosa viva, risultante dall’incontro/scontro tra etiche opposte o collimanti, dal dialogo (o dalla prevaricazione) tra panieri valoriali distinti. E applicando quella massima metodologica tesa ad affermare che, nello studio del diritto, ogni parola è importante, e ogni significato e sfumatura di esso rileva nella composizione degli assetti variabili e mutevoli che dalla norma in astratto conducono alla sua applicazione in concreto, non vi è testo, forse, in cui assumano una rilevanza maggiore, che in quello della Constitution. Perché le parole spese sono poche, e proprio per questo tutte, ma soprattutto alcune, centrali. Un esempio:
«Article II, Section 1 – The executive Power shall be vested in a President of the United States of America»
Questa è la Vesting Clause. Vested si traduce con “conferito a” ma, come spesso accade per i linguaggi tecnici, è necessario approfondirne le implicazioni e le sfumature nella lingua di provenienza, per giungere a comprenderne effettualmente il significato. Soprattutto in un contesto scientifico come quello statunitense, in cui si fronteggiano due scuole di pensiero. Da una parte, l’impostazione pragmatica dell’evoluzionismo, formulata da giuspubblicisti quali il former Supreme Court Justice Stephen Breyer, che concepisce l’interpretazione del testo costituzionale come un’opera di bilanciamento tra valori giuridici in itinere, indissolubilmente legata, dunque, alla valutazione delle sensibilità etiche e all’apprezzamento delle necessità sociali che scaturiscono dalla relazione dell’ordinamento con la propria epoca. Dall’altra, la teoria testualista dell’originalismo –forse oggi prevalente – elaborata dal former Supreme Court Justice Antonin Scalia, che si concreta in un’opera di interpretazione letterale e rigida, atta a ricostruire le intenzioni normative dei Founding Fathers per come erano sintatticamente e semanticamente intese al momento della scrittura della Costituzione, e ad ignorare scientemente le eventuali trasformazioni di significato verificatesi con il mutare dei tempi. Tornando all’esame del particolare, due sono le posizioni logico-filologiche principali intorno al valore giuridico del termine vested:
Un’altra clausola fondamentale, l’interpretazione della quale ricopre un ruolo imprescindibile nella perimetrazione dei poteri attribuiti all’ufficio del Presidente, è la Take Care Clause:
«Article II, Section 3 – (…) he shall take Care that the Laws be faithfully executed (…)»
«(Il Presidente) dovrà prendersi cura (lett.) del fatto che le Leggi siano eseguite fedelmente». Ma cosa vuol dire “prendersi cura”? Qual è il livello di controllo che ne deriva? L’interpretazione estensiva di questa clausola, propria della teoria dello Unitary Executive, conferisce all’esecutivo un potere vastissimo nella selezione delle modalità di applicazione delle norme di origine congressuale e nella loro effettiva implementazione sul piano della prassi amministrativa.
Ovviamente il dibattito intorno alla corretta ermeneutica dell’Articolo 2 della Constitution non si esaurisce in tali questioni (apparentemente) semantiche, ma investe l’analisi dell’intero sistema istituzionale statunitense. Ciò non toglie, che l’attribuzione dell’uno o dell’altro significato alla parola vested, o all’espressione take care, eserciti una funzione di imprescindibile importanza nel fondare testualmente le varie teorie costituzionali della divisione e del rapporto tra i poteri dello Stato federale.
Energy in the Executive: la decostruzione dello Stato amministrativo
Siamo tornati al principio del nostro discorso, cioè alla questione dello unitary executive: perché se si adotta una interpretazione estensiva dell’Articolo 2, e si accetta dunque che il potere esecutivo appartenga per intero e strutturalmente all’ufficio del Presidente degli Stati Uniti, e conseguentemente promani da esso in ogni sua forma, allora cede la distinzione classica, e tendenzialmente connaturata allo stato di diritto, tra gli organi di indirizzo politico posti al vertice della pubblica amministrazione e l’apparato burocratico professionale sottostante. Sul piano pratico: applicando la versione più estrema della teoria dello unitary executive l’ufficio del Presidente avrebbe il potere di rimuovere qualsiasi funzionario federale, cambiare a suo piacimento i vertici delle agenzie governative, e, in generale, di esercitare un controllo diretto e non mediato su tutta l’amministrazione (sul tema la Corte Suprema ha tenuto posizioni alterne, anche se, ultimamente, sembra propendere per il riconoscimento di un removal power progressivamente più ampio, sebbene non esteso ai cosiddetti inferior officials. Alcune delle sentenze di maggiore interesse sul tema, in ordine cronologico: Myers v. United States, 272 U.S. 52 (1926); Humphrey’s Executor v. United States, 295 U.S. 602 (1935); Morrison v. Olson, 487 U.S. 654 (1988); Edmond v. United States, 520 U.S. 651 (1997); Seila Law LLC v. Consumer Financial Protection Bureau, 591 U.S. 197 (2020); Collins v. Yellen, 594 U.S. (2021).
La volontà della Trump Administration di assoggettare l’apparato amministrativo federale ad un controllo il più possibile ramificato si è concretata anche nell’emanazione dell’Executive Order n. 14215 del 18 febbraio 2025, che circoscrive considerevolmente l’autonomia delle independent regulatory agencies (con l’eccezione della FED, limitatamente alla sua funzione di decision-making sui tassi d’interesse, ma non per quanto riguarda le attività di supervisione del sistema bancario), mediante l’introduzione dell’obbligo di sottoporre alla Casa Bianca, for review («per revisione»), all proposed and final significant regulatory actions (“tutte le azioni regolatorie significative proposte e finali”) e di uniformarsi alle authoritative interpretations of law for the executive branch («interpretazioni autoritative del diritto per il potere esecutivo») formulate dal Presidente e dall’Attorney General .
Da un’angolazione diversa, si dimostra di eccezionale rilevanza la recente sentenza sul caso Loper Bright Enterprises v. Raimondo, 603 U.S. 369 (2024), deciso con una maggioranza di 5 voti contro 4 dalla Corte Suprema, che ha determinato l’overruling di Chevron U.S.A., Inc. v. Natural Resources Defense Council, Inc., 467 U.S. 837 (1984), landmark decision mediante la quale era stato introdotto l’obbligo per i giudici federali di avere un atteggiamento di deference (e dunque, letteralmente, di ossequio) nei riguardi delle interpretazioni degli statutes, elaborate dalle agenzie indipendenti e relative agli ambiti di loro competenza, salvo il caso in cui si fossero configurate come irragionevoli. Anche questo è stato un fortissimo segnale di indebolimento della governance amministrativa, sebbene nel caso di specie, sia il potere giudiziario a guadagnare spazio, e non quello del vertice politico dell’executive branch.
Queste trasformazioni dell’ordinamento statunitense, seppur attraverso traiettorie tra loro distinte, e modalità giuridiche di implementazione variate, tendono al medesimo fine. In una formula: la decostruzione dello Stato amministrativo («deconstruction of the Administrative State») preconizzata e auspicata da Steve Bannon già Capo stratega (Chief Strategist) della Casa Bianca. L’assunto alla base di questa idea è di portata, in qualche modo, ontologica: la neutralità non esiste. E, soprattutto, non esiste la neutralità degli «unelected bureaucrats», di quella componente delle istituzioni, cioè, costituita da career civil servants, selezionati mediante procedure competitive interne atte a valutarne le capacità professionali, immuni dagli effetti dell’alternanza tra le forze politiche, e che costituiscono, con un termine ormai molto inflazionato, il Deep State. Per cui, nell’ottica di Bannon, e di una parte consistente della New Right, alla sussistenza di agenzie federali, autorità indipendenti e pubbliche amministrazioni centrali tese a tutelare più o meno implicitamente gli interessi dell’establishment, dissimulando scelte politiche in valutazioni tecniche, è preferibile la riconduzione e subordinazione diretta dell’intera organizzazione amministrativa all’ufficio del Presidente. Il motivo? Il Presidente, almeno, è una carica elettiva, dunque democraticamente legittimata.
E questo, forse, è uno dei temi centrali della nostra contemporaneità. Perché in un contesto in cui, ad ogni livello e in ogni forma, si assiste ad una tecnicizzazione dei processi decisionali, e alla corrispettiva diminuzione degli atti di governo realmente liberi nei fini e nei mezzi che, in via ormai quasi residuale, spettano agli elected officials, la domanda che è arrivata dall’elettorato americano, e non solo, è semplice: “sovranità”. Che non va intesa solo nel senso di indipendenza nazionale, ma come connaturata autonomia e quasi-autarchia della volontà popolare rispetto a “tutto il resto”. Ignorare, cioè, quel sistema intricato di vincoli (giuridici, sanitari, economici, ambientali, precauzionali) che limitano in astratto e in concreto le possibilità di scelta dei vertici politici, vincoli che, in massima parte, sono stati storicamente introdotti a garanzia degli strati più fragili della popolazione. E le politiche di questi primi mesi del secondo mandato di Donald Trump, dichiaratamente tese a indebolire, alleggerire o riformulare l’ordine mondiale preesistente, sono espressione proprio di questa idea olistica, comprensiva e pervasiva di sovranità. La questione è: più sovranità (del Presidente) può davvero significare più tutele (per i cittadini)?