Recensione a: Angelo Ventura, La questione agraria nell’Italia moderna e contemporanea, Donzelli, Roma 2018, pp. 223, 24 euro (scheda libro).
Scritto da Jaka Makuc
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La riflessione che la disciplina storiografica ha rivolto su di sé nel corso del Novecento è certamente una lezione irrinunciabile per lo storico contemporaneo: al di là del ripensamento più genuinamente metodologico (già di per sé bastevole di attenzione da parte dello studioso), essa ripropone – secondo angolazioni evidentemente distanti dalle più classiche filosofie della storia – il problema del senso stesso non solo della storicità, ma più propriamente dello “scrivere”, del “fare storia”.
Questo tipo di impostazione teorica, ancorché evidentemente sempre affacciata su una prospettiva di fatto metastorica[1], conserva il vantaggio di svolgersi internamente a logiche segnatamente storiografiche, favorendo così una declinazione del problema che tralascia impianti di marca teorica a favore di un procedimento strettamente pratico.
Gli studi di Angelo Ventura racchiusi nel volume La questione agraria rendono in effetti conto di questa esigenza di consapevolezza e rigore scientifici declinata in un procedere che, più che pratico, potremmo appunto chiamare attuoso.
Come osserva giustamente Carlo Fiuman nella prefazione al testo, «non è un caso che [Ventura] amasse ripetere come fosse opportuno sconsigliare agli storici di discutere di metodologia prima di aver compiuto i settant’anni» (p. XIV); nella raccolta non sono dunque rintracciabili considerazioni genuinamente metodologiche, proprio per quanto detto in precedenza: un problema storiografico deve essere approcciato secondo criteri interni alla materia stessa.
L’elaborazione di un metodo si traduce perciò direttamente in un preciso stile di lavoro, che trova nella teoria economica la garanzia di scientificità di cui si è parlato in precedenza: solo attraverso un confronto serrato con l’economia[2] sarà possibile una scienza storiografica rigorosa e affidabile.
In questo senso, appare giustificata la particolare attenzione che Angelo Ventura riservò, per tutta la durata della sua attività di storico, all’agricoltura italiana e all’impatto che questa ebbe in termini non solo economici, ma anche sociali e politici. La presa in esame di un problema storiografico classico gli consente di mostrare l’efficacia e la particolare precisione di un’impostazione di ricerca destinata per tali ragioni a diventare a propria volta paradigmatica.
Il volume ripropone cinque saggi scritti da Ventura a partire dagli anni ’70, nei quali lo studio della “questione agraria” diventa dunque occasione per riflettere in maniera analitica non solo sulla società agricola italiana dal post-risorgimento alla Resistenza[3], ma anche sullo status quaestionis della storiografia economica in Italia.
Questo aspetto, che emerge con chiarezza nel primo scritto proposto (Witold Kula: lavoro storico, ricerca economica, modelli), rappresenta certamente una costante nel lavoro di Angelo Ventura.
La realizzazione di un raccordo scientificamente rigoroso «tra teoria economica e ricerca storica» (p. 3) viene riscontrata con entusiasmo nel lavoro che Kula dedica ai modelli economici in epoca feudale; tale risultato consente tuttavia a Ventura di constatare come la storiografia economica in Italia sia caratterizzata, nonostante alcune ragguardevoli eccezioni[4], da un «cronico disordine» (p. 7) che investirebbe ricerca e università; per tale ragione, viene sollevata l’esigenza di una rigorizzazione del metodo di lavoro storiografico, a cominciare da un maggiore e meno «dilettantesco» (p. 3) studio della teoria economica.
In particolare, il pregio del lavoro di Witold Kula è rintracciabile nella sua capacità di relazionare un sistema sociale – quello feudale – con accurate analisi microeconomiche[5]: ciò che emerge è una nuova ermeneutica storiografica che si prefigge non già di leggere il singolo dato microeconomico in funzione del sistema preso in esame, ma al contrario di ricostruire il sistema stesso attraverso i singoli dati ricavati dall’applicazione in sede storiografica della microeconomia; in effetti, è questo il metodo di ricerca impiegato da Ventura in tutti i saggi proposti nel volume, a cominciare da Le trasformazioni economiche nel Veneto tra Quattro e Ottocento.
In questo breve testo, di particolare significatività per concisione e precisione storica, si ripercorre la genesi della “questione agraria” veneta[6] a partire dagli inizi del Quattrocento, per arrivare a comprendere le ragioni per cui il Veneto si caratterizzerà «come regione agricola per eccellenza sino al secolo XX inoltrato» (p. 25).
Proprio per mezzo delle strategie metodologiche succitate, il testo si articola attraverso un continuo rimando tra trends economici generali (o sistematici, come quelli europei o mediterranei) e aspetti particolari (o, per l’appunto, microeconomici) delle singole realtà sociali venete, come quelle veronese e polesana; il punto d’incontro tra istanze così distanti viene individuato nel ruolo politico-economico svolto da Venezia, la cui decadenza, assieme all’arretratezza diffusa del sistema agricolo, impediscono «la partecipazione del Veneto all’espansione economica europea, che si manifesta a partire dagli anni venti del Settecento» (p. 25): la questione agraria in Veneto viene così ricondotta remotamente a latitudini storiche ben anteriori al solo Ottocento, dimostrando al contempo la complessità del problema e la possibilità di risolverne o semplicemente schiarirne alcuni aspetti attraverso un approccio storiografico depurato da generalizzazioni corrive.
È nel testo centrale del volume, La Federconsorzi dall’età liberale al fascismo: ascesa e capitolazione della borghesia agraria, 1892-1932, che il problema agrario viene tuttavia discusso in una prospettiva nazionale e non più regionale; anche in questo caso, Ventura decide di salvaguardarsi dal pericolo di sintesi affrettate incentrando la propria disamina storica intorno ai consorzi agrari.
Lo studio ripercorre la storia della Federazione italiana dei consorzi agrari (1892) dalle origini al fascismo, marcando l’importanza del consorzio non solo da una prospettiva segnatamente economica, ma anche socio-politica.
In particolare, Ventura intuisce come la “questione agraria” sia intimamente connessa a quell’altra vexata quaestio che è la “questione meridionale”; mentre infatti i consorzi del nord nascono dalle «forze più dinamiche ed evolute del capitalismo agrario» (p. 31), al contrario nel Mezzogiorno ciò non si verifica per due ragioni di fondo: da una parte, i consorzi meridionali non riescono a garantire né un approvvigionamento significativo di risorse agricole (macchine, fertilizzanti etc.), né servizi di natura creditizia, tradendo dunque la propria funzione di forza di mediazione verso istanze monopolistiche, assai diffuse nel meridione; dall’altra, attraverso documenti d’archivio che vengono citati sovente, in una costante esigenza di precisione e fedeltà storiografiche, Ventura rimarca come l’assetto sociale e culturale proprio del Mezzogiorno fosse ancora troppo distante dalle dinamiche di cooperazione.
Per queste ragioni, il testo si articola in una dialettica che pone in costante connessione nord e sud Italia, al fine di cercare una comprensione esaustiva del fenomeno dei consorzi capitalistici agrari a livello nazionale.
Tentando di offrire un’epitome evidentemente sommaria delle dettagliate analisi di Ventura, si può dire che questi vede nella vicenda di Federconsorzi un progressivo appiattimento di quest’ultima sulle politiche promosse dalla grande industria nazionale; se, infatti, in un primo momento i consorzi agrari settentrionali riescono a intrattenere un rapporto produttivo col nascente comparto industriale[7], inaugurando una collaborazione spesso fruttuosa, in seguito il graduale rafforzamento della realtà industriale determina una riconfigurazione dei rapporti di forza a proprio favore.
Questa subordinazione del settore agricolo a quello industriale trova il proprio compimento durante il fascismo: è infatti chiaro che le politiche accentratrici e monopolistiche imposte dal regime snaturino profondamente l’istituzione della Federconsorzi; la rivale Montecatini, espressione emblematica del monopolio industriale, si vede favorita dalle politiche statali a tal punto da rendere per molti aspetti inutile l’opera dei consorzi agrari; se a ciò si aggiunge la depressione economica che investe l’Italia a partire dai primissimi anni Trenta, si capisce come «verso la fine del 1931 numerosi consorzi versavano in condizione di grave disagio per gli eccessivi immobilizzi e le perdite subite a causa del ribasso dei prezzi e delle insolvenze di molti agricoltori» (p. 76): la Federconsorzi perdeva così anche la sua importante funzione di istituto di credito.
In Strutture agrarie e movimento socialista nelle campagne, la “questione agraria” viene indagata a partire dalla realtà contadina (non più borghese) e dal suo rapporto con le organizzazioni socialiste.
Il testo si segnala per la versatilità metodologica impiegata nella ricostruzione storica: alla irrinunciabile prospettiva economica, infatti, si accosta un’attenzione particolare per le suggestioni di natura antropologica e sociologica, mutuate dall’impostazione scientifica francese (e in parte anglosassone). L’indagine sulla nascita del socialismo rurale si accosta così a spunti interessanti intorno alla cultura delle plebi agrarie, in cui spesso suggestioni religiose e popolari si stratificano in un insieme di credenze che talvolta favoriscono la ricezione della pedagogia socialista[8].
La strategia ideata dal socialismo settentrionale (si parla di territori quali il Polesine veneto, le campagne del mantovano, l’alto ferrarese) per affrontare la “questione agraria” si può riassumere nell’espressione «socializzazione» (p. 100): è qui evidente la matrice riformista alla base di questo genere di politica.
È di particolare interesse il fatto che Ventura noti come l’azione socialista trascuri sia i piccoli proprietari terrieri, sia i rapporti di mezzadria (che troveranno invece attenzione maggiore in ambito comunista), per concentrarsi interamente sulle plebi agrarie; questa legittima scelta di campo si rivela tuttavia fondamentale per comprendere l’evoluzione della “questione agraria” quantomeno sino agli anni Sessanta. Difatti, una volta abbandonata, seppur dopo un lungo travaglio, la politica di socializzazione, e favorito invece quel pluralismo sociale che ricomponeva operai e lavoratori in un’unica compagine di classe, tale alleanza «diventava per ironia della storia il ponte di passaggio verso una politica agraria centrata sul rafforzamento dei ceti medi rurali» (p. 116), andando a vantaggio proprio di quella piccola proprietà contadina che il socialismo rurale delle origini aveva dimenticato[9] di coinvolgere nella propria istanza di riforma sociale.
Il lavoro che conclude la collezione di saggi, La società rurale veneta dal fascismo alla Resistenza, offre al lettore la possibilità di riscontrare molte delle intuizioni metodologiche approntate dalla ricerca di Ventura.
L’indagine storiografica dedicata alla “questione agraria” si precisa qui intorno alla difforme realtà contadina veneta, eletta a oggetto di ricerca paradigmatico proprio per quanto detto nei testi precedenti, che viene studiata secondo un metodo analitico votato alla sobria ricostruzione descrittiva di micro-situazioni sociali: Ventura stabilisce perfino un’accuratissima distinzione tra agricolture di montagna, di collina, di pianura, ricostruendo così una precisissima geografia economico-sociale che consente di comprendere chiaramente la peculiare natura della Resistenza da parte dei ceti rurali più arretrati. La lotta al fascismo si declina in un sincretismo di suggestioni religiose, politiche e antropologiche che acquisiscono dignità storiografica solo se svincolate da approssimazioni impressionistiche, per essere al contrario rilette in una prospettiva scientificamente rigorosa, ovvero capace di non sacrificare il particolare economico-sociale a modelli interpretativi precostituiti e, pertanto, fallimentari.
Al netto di quanto detto sin qui, rimane trasparente nei lavori di Angelo Ventura la contezza che «lo studioso che si accosti al tema vasto e complesso della mentalità e degli orientamenti politici dei ceti rurali non può sottrarsi a un senso d’impotenza […] di fronte al compatto silenzio che il mondo contadino oppone ai suoi interrogativi» (p. 164): la lucidità metodologica e l’onestà intellettuale di rispettare questi silenzi della storia, senza innestarvi sopra artefatte precomprensioni, rimane un insegnamento indimenticabile per approcciarsi non solo alla complicata “questione agraria”, ma alla disciplina storiografica stessa.
[1] Un esempio significativo in questo senso è l’opera di Reinhart Koselleck. Cfr. Koselleck, Reinhart, Storia. La formazione del concetto moderno, Rosanna Lista (a cura di), CLUEB, Bologna, 2009.
[2] È qui evidente il congedo dalla più tradizionale storiografia italiana, ancora agganciata a schemi di matrice retorico-classicistica, in cui l’economia trova spazio solo in termini assai generali e, talvolta, persino approssimativi.
[3] Con numerose incursioni anche in secoli precedenti.
[4] Giorgio Fuà è citato esplicitamente. Inoltre, è impossibile non pensare, tra gli altri, ai lavori oramai classici di Carlo Maria Cipolla.
[5] Mentre, all’epoca, venivano privilegiate visioni macroeconomiche.
[6] Il Veneto rimane punto di partenza privilegiato per gli studi di Ventura, il quale – giova ricordarlo – fu professore di Storia contemporanea all’Università di Padova.
[7] Mentre, nel Mezzogiorno, s’impone pressoché da subito in ambito agricolo il monopolio di grandi colossi industriali.
[8] È qui impossibile problematizzare sufficientemente il rapporto tra cultura cattolica e socialismo. Pare però importante rilevare che non di rado fu il socialismo a conformarsi alla mentalità religiosa e non viceversa: «il predominio moderato-cattolico bonomiano sui coltivatori resta uno dei pilastri del potere democristiano» (p. 101). Come si vedrà più avanti, la questione della cultura rurale contadina viene approfondita nell’ultimo saggio proposto, La società rurale veneta dal fascismo alla Resistenza.
[9] O, come in parte suggerisce lo stesso Ventura, non aveva saputo.