Scritto da Gio Maria Tessarolo
8 minuti di lettura
All’inizio del 2009, nell’Inaugural Address che ha rappresentato un momento di svolta e di rinnovamento per la storia degli Stati Uniti, Barack Obama definiva orgogliosamente il suo Paese «a nation of Christians and Muslims, Jews and Hindus, and non-believers»: nel celebrare l’abbattimento definitivo delle barriere di razza, celebrava dunque anche l’idea dell’America come Stato politicamente laico e socialmente multiculturale, capace di fare della tolleranza delle diversità confessionali una risorsa. Per mettere in dubbio la constatazione di un fatto apparentemente ovvio basta tuttavia notare come solo pochi minuti prima l’ideale americano fosse stato espresso nei termini di una «God-given promise that all are equal, all are free, and all deserve a chance to pursue their full measure of happiness», così come che pochi minuti dopo un appello alla virtù civica sarebbe stato basato su «the knowledge that God calls on us to shape an uncertain destiny»: ben oltre il tradizionale God bless you e God bless the United States of America conclusivo, la struttura del discorso sembra poggiare su basi concettuali che non sarebbero certamente condivisibili da non-believers. La sorpresa aumenta quando si constata che non si tratta di riferimenti occasionali o d’eccezione: nella stessa occasione quattro anni dopo Obama avrebbe nuovamente definito la libertà «a gift from God», la Terra un pianeta «commanded to our care by God» e il suo giuramento «an oath to God and country». In modo del tutto analogo, più recentemente Trump ha iniziato il suo mandato sostenendo che la nazione americana sia «protected by God».
Si potrebbe liquidare questa ricognizione di citazioni (facilmente estendibile a ritroso nel tempo) parlando di uso sapiente della retorica, di luoghi comuni privi di contenuto, di formule usate per convenzione. Per dimostrare che si tratta invece di un fenomeno che dovrebbe quanto meno servire da spunto di riflessione basterebbe richiamare le critiche e le contestazioni con cui larga parte dell’opinione pubblica italiana ha reagito di fronte alla menzione in Senato da parte di Matteo Salvini del Cuore Immacolato di Maria durante la recente crisi di governo: a questo si potrebbe ancora una volta replicare che chiamare esplicitamente in causa la Madonna è una mossa ben diversa da riferimenti generici ad un imprecisato God (e, come si vedrà, da un certo punto di vista è proprio questo il punto cruciale della questione). Se anche però gli usi che si sono visti nel contesto americano fossero pura retorica, sarebbero comunque rivelatori di strutture di senso comune che vale quanto meno la pena prendere in considerazione per metterne in luce le differenze rispetto a contesti come quello italiano, in cui l’utilizzo di frasi equivalenti a quelle che si sono viste nei casi di Obama e Trump non solo non è affatto all’ordine del giorno nemmeno nei contesti più ufficiali, ma sarebbe per di più probabilmente percepito come parziale, irrispettoso o addirittura inquietante.
Il primo a ipotizzare che si trattasse di ben più di un semplice vezzo retorico è stato negli anni Sessanta il sociologo Robert Bellah, che ha proposto di prendere sul serio l’utilizzo di questo linguaggio in un articolo pubblicato nel 1967 sulla rivista Daedalus, emblematicamente intitolato Civil Religion in America.[1] Le tesi esposte in poche pagine erano semplici e chiare, ma destinate ad accendere un dibattito lungo decenni che, se ha avuto pochi echi nella letteratura accademica italiana e più in generale europea, è stato fra i temi più ampiamente discussi in ambito socio-politico dall’altra parte dell’oceano. Nell’articolo originario, poi ampliato e corretto da una serie di interventi successivi, Bellah sosteneva che dietro agli utilizzi del termine God e di una simbologia religiosa in contesti come il discorso inaugurale di Kennedy del 1961 si nascondesse in realtà una vera e propria religione civile, intendendo con questo qualcosa di molto più sofisticato di ciò che è ancora normalmente associato all’espressione anche in ambito accademico:[2] non voleva infatti riferirsi né ad una semplice strumentalizzazione di concetti o simboli religiosi da parte della politica né ad un’ingerenza delle istituzioni ecclesiastiche nei processi politici. Ciò che secondo Bellah opera negli Stati Uniti è piuttosto una sorta di fede minima comune del tutto indipendente dall’adesione individuale a determinati culti: esistono cioè una serie di convinzioni specificamente religiose che tutti condividono e che hanno una serie di rilevanti conseguenze politiche. Non solo tutti gli americani credono nell’esistenza di un Dio unico, onnipotente e benevolo, ma anche nel fatto che dalla sua autorità e volontà dipende l’esistenza di una serie di diritti (in primis vita e libertà), che vengono non a caso presentati come di origine divina dalla Dichiarazione di Indipendenza:[3] in quanto comunità che ha compreso al meglio ciò che Dio vuole dagli uomini, gli Stati Uniti si concepiscono come una sorta di nuova Israele chiamata a realizzare la Terra Promessa, ossia a costruire uno Stato capace di garantire tali diritti attraverso la pratica della democrazia.
Sono naturalmente evidenti i tratti biblici al limite dell’impressionismo, che trovano riscontro in particolare negli scritti dei Padri Fondatori[4] e che non devono però portare a giudicare la religione civile americana una forma di cristianesimo: per quanto essa si appropri di immagini e linguaggi propri dei grandi monoteismi e in particolare di quello cristiano, lo fa in modo quasi sempre a-confessionale.[5] Il God cui tanto Washington quanto Kennedy quanto Obama fanno riferimento non è cioè né il dio di Abramo né quello di Gesù né quello di Maometto: si tratta di una divinità accettabile per qualsiasi credente che funge da chiave di volta di ciò che Bellah, con la chiarezza illuminante delle grandi intuizioni, definisce «an understanding of the American experience in the light of ultimate and universal reality».[6]
Già nell’articolo originale si identificavano esplicitamente le fonti di tale interpretazione: da un lato l’idea durkheimiana della religione come esperienza collettiva che determina come fatto sociale fondamentale l’autoconsapevolezza di ciascuna comunità ed è indipendente da dogmi, culti e trascendenza, dall’altro le problematiche tesi del penultimo capitolo del Contratto Sociale di Rousseau, che oltre all’espressione hanno fornito importanti basi concettuali alla teoria della religione civile. Quest’ultimo debito, poco considerato dalla critica successiva, è stato richiamato in particolare da un libro di Marcela Cristi,[7] che l’ha però interpretato soprattutto in chiave di imposizione e strumentalizzazione di credenze, mancando quello che è il vero punto fondamentale di analogia fra le tesi di Rousseau e la realtà americana. Sviluppando in modo estremamente originale e acuto alcune tesi di Machiavelli (forse l’autore che più di tutti si nasconde dietro a queste pagine), l’ottavo capitolo del quarto libro del Contratto presenta la necessità di una «professione di fede puramente civile, della quale spetta al corpo sovrano di fissare gli articoli», che consistono essenzialmente nei punti centrali della religione civile così come la legge Bellah: «l’esistenza della divinità potente intelligente, benefica, provvidente e provvida, la vita futura, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la santità del contratto sociale e delle leggi».[8] Se è vero che si raccomanda di cacciare o punire severamente chi non crede in tali “dogmi civili”, questo è perché essi possono essere interpretati, più che come opinioni da imporre dall’alto, come requisiti minimi di cittadinanza: dal momento che solo chi possiede la fede in tali dogmi può agire da cittadino virtuoso, la comunità dovrà essere composta solo da individui che, indipendentemente dalla loro adesione a culti specifici, condividono tali credenze di base. È facile constatare che si tratta di un’esplicitazione di ciò che secondo Bellah in America avviene a livello inconscio, attraverso la ripetizione di usi e pratiche: nessun cittadino americano deve naturalmente prestare un pubblico giuramento di fede. Lo Stato americano, anzi, si proclama laico e del tutto alieno a qualsiasi interferenza confessionale: come si è visto, questo non impedisce affatto l’utilizzo di concetti dalla portata metafisico-religiosa nel discorso pubblico, e nemmeno che il Presidente giuri con una mano appoggiata sulla Bibbia.
La persistenza di questi elementi nella vita pubblica americana è ora ampiamente documentata: è stato Bellah stesso a tratteggiare una prima sommaria storia del fenomeno, che ne ha messo in luce i legami profondi e complessi con la dimensione repubblicana della coscienza politica americana delle origini (studiata in modo sistematico per la prima volta proprio fra anni Sessanta e Settanta da autori come John Pocock). A partire dal suo lavoro e da quello dei suoi allievi e collaboratori è poi nato un vero e proprio filone di studi, che ha da un lato proseguito l’indagine sull’America e dall’altro l’ha estesa ad altre realtà di tutto il mondo. Il primo aspetto è stato recentissimamente interessato da una vera e propria piccola rinascita: dopo i decenni di polemiche concentrate sulla definizione del fenomeno identificato da Bellah, nuovi studi ne hanno preso in considerazione la dimensione storica,[9] socio-culturale[10] e strettamente politica,[11] mostrandone chiaramente la vitalità e la forte presenza.
Quanto quella di religione civile sia una categoria teoreticamente adeguata a descrivere il modo in cui gli americani pensano e sperimentano la dimensione religiosa della loro vita civile rimane però anche un problema: le critiche alle tesi di Bellah e dei suoi continuatori sono state numerosissime, e molte di esse hanno probabilmente acquisito peso con il passare del tempo. Come ha da ultima sostenuto Leilah Danielson,[12] presentare la religione civile come l’autoconsapevolezza che la totalità degli americani ha di sé, del proprio ruolo storico e del proprio rapporto con la trascendenza significa ignorare il fatto che tali convinzioni sono state storicamente quelle della parte della popolazione che ha gestito la vita pubblica americana, e che le ha quindi imposte alle minoranze o a coloro che si sono trovati in un rapporto di subalternità. Oltre a questo, si potrebbe aggiungere che si tratta di “dogmi” oggi scarsamente compatibili con la fede personale di una porzione non trascurabile della popolazione, dagli atei a coloro che credono in fedi estranee ai tre grandi monoteismi (e soprattutto al cristianesimo):[13] è difficile perciò pensare ad una società che condivida realmente un “credo minimo” come quello teorizzato da Bellah.
Sarebbe tuttavia ingenuo prospettare su queste basi un rifiuto integrale della categoria, dichiarandola inutile o ingannevole: come si è visto in apertura, Bellah aveva colto un tratto del modo in cui l’America concepisce la propria vita civile che è ancora oggi vivo nel discorso pubblico statunitense e che permette di comprendere in profondità alcune differenze sostanziali fra quella realtà e la nostra. Dal momento che in Italia il problema fondamentale in quest’ambito è stato il rapporto fra la pretesa assoluta laicità della Repubblica e le ambizioni di ingerenza della Chiesa cattolica, si è ragionato poco delle possibilità e dei rischi di una sacralizzazione della politica stessa: lungi dall’essere una peculiarità italiana, molti di coloro che hanno riflettuto teoricamente e storicamente sul rapporto religione-politica hanno semplicemente ignorato questo aspetto.[14] Da Machiavelli a Rousseau fino a Trump, quello che lo studio del caso americano suggerisce è quindi un modo di concepire la vita civile che ha avuto un grandissimo peso nella costituzione della modernità e della contemporaneità, illuminando aspetti raramente considerati della nazione che ha per molti versi determinato la storia del Novecento, dei suoi punti di forza e delle sue contraddizioni.
L’immagine è tratta dall’affresco di Constantino Brumidi The Apotheosis of Washington, nella Rotonda dello United States Capitol di Washington.
[1] R. Bellah, Civil Religion in America, in Daedalus, XCVI, 1, 1967, pp. 1-21.
[2] Emblematico è da questo punto di vista l’uso estremamente “largo” e flessibile che dell’espressione civil religion ha fatto Ronald Beiner in un libro recente e di notevole successo (Civil Religion. A Dialogue in the History of Political Philosophy, Cambridge University Press, 2011).
[3] Celebri sono le parole «We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness», in cui è importante notare che è il Creatore l’origine dei diritti.
[4] Cfr. Bellah, Civil Religion, cit., pp. 5-7 e, per un sommario degli studi successivi sulla questione, A. Squiers, The Politics of the Sacred in America. The Role of Civil Religion in Political Practice, Springer, 2018, pp. 1-5.
[5] Ci sono naturalmente anche eccezioni significative: per un esempio recente basta rivolgersi all’Inaugural Address di inizio 2017, in cui Trump ha esplicitamente citato un brano delle Scritture.
[6] Bellah, Civil Religion, cit., p. 18.
[7] M. Cristi, From Civil to Political Religion. The Intersection of Culture, Religion and Politics, Wilfrid Laurier University Press, 2001.
[8] J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino, 1994, p. 181.
[9] P. Gorski, American Covenant: a History of Civil Religion from the Puritans to the Present, Princeton University Press, 2017.
[10] P. Gardella, American Civil Religion. What Americans Hold Sacred, Oxford University Press, 2014.
[11] A. Squiers, The Politics of the Sacred in America, cit.
[12] L. Danielson, Civil Religion as Myth, not History, in Religions, X, 2019, 374.
[13] Un sondaggio del 2016 attesta che circa un quarto della popolazione americana si definisce non cristiana e che oltre un quinto afferma addirittura di non possedere alcuna identità religiosa (https://news.gallup.com/poll/200186/five-key-findings-religion.aspx).
[14] Esemplare in questo senso lo studio di Beiner citato alla nota 2.