Scritto da Paolo Furia
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La categoria di «rete» è entrata nella scienza e nel linguaggio comune delle società complesse per descrivere un’innumerevole quantità di fenomeni e campi. Si può in effetti parlare di reti in fisica, biologia, informatica, scienze sociali.
Nel senso più astratto possibile, la rete può essere definita come un insieme di relazioni tra oggetti o persone, in cui gli oggetti o le persone costituiscono i «nodi» e le relazioni gli «archi» di un grafo.
La scienza delle reti è dunque in realtà un modello di matematizzazione della realtà applicabile in linea di principio a tutte quelle dimensioni del reale caratterizzate dalla presenza di attori discreti in relazioni simmetriche o asimmetriche tra loro. Il National Research Council of the United States ha definito la scienza delle reti come «the study of network representations of physical, biological, and social phenomena leading to predictive models of these phenomena»[1].
La scienza delle reti ha avuto un significativo impatto in campo sociale. In particolare, il concetto di rete sembra prestarsi particolarmente alla descrizione dei rapporti sociali in un contesto tardo-capitalista, contraddistinto dall’indebolimento dei gruppi consolidati e delle classi e dalla variabilità delle relazioni possibili tra soggetti.
Tuttavia, il concetto di rete favorisce la comprensione delle relazioni sociali in termini di orizzontalità e cooperazione, mettendo in secondo piano (o direttamente oscurando) la realtà del conflitto e le asimmetrie del legame sociale. Da questo punto di vista, risulta estremamente interessante prendere in considerazione la «rete a invarianza di scala» elaborata dal fisico ungherese Barabási[2], in quanto si tratta di un modello che rende conto della tendenza al consolidamento delle asimmetrie e del potere all’interno di contesti complessi solo apparentemente caratterizzati da orizzontalità. Vediamo di cosa si tratta.
Le reti a invarianza di scala, o le asimmetrie delle reti
Le reti a invarianza di scala rappresentano una moltitudine di sistemi nei quali è dato osservare che pochi nodi molto connessi occupano in maniera relativamente stabile posizioni di potere nei confronti di tutti gli altri. Barabási osserva: «Over the past few years, investigators from a variety of fields have discovered that many networks – from the World Wide Web to a cell’s metabolic system to actors in Hollywood – are dominated by a relatively small number of nodes that are connected to many other sites»[3]. Ciò significa innanzitutto che i sistemi complessi, non riducibili alla ripetizione di rapporti meccanici regolari, non sono d’altra parte completamente casuali. La complessità non è l’irrazionalità che qualche mistico del postmoderno ha pensato sarebbe andato a sostituirsi alla regolarità dei rapporti discreti e proporzionali propri della meccanica classica e del positivismo (anche politico) ad essa ispirato[4]. Il riferimento principale che il modello Barabási replica è quello delle «reti casuali» di Erdös-Rényi[5]. Barabási lo descrive così:
In 1959, aiming to describe networks seen in communications and the life sciences, Erdös and Rényi suggested that such systems could be effectively modeled by connecting their nodes with randornly placed links. The simplicity of their approach and the elegance of some of their related theorems revitalized graph theory, leading to the emergence of a field in mathematics that focuses on random networks. An important prediction of random network theory is that, despite the random placement of links, the resulting system will be deeply democratic: most nodes will have approximately the same number of links[6].
Impegnato però con alcuni colleghi nel tentativo di tradurre in un grafo la distribuzione dei collegamenti nel world wide web, Barabási si è accorto che il modello delle reti casuali, democratico e simmetrico, non funziona:
The measurements, however, defied that expectation. Software designed for this project hopped from one Web page to another and collected all the links it could. Although this virtual robot reached only a tiny fraction of the entire Web, the map it assembled revealed something quite surprising: a few highly connected pages are essentially holding the World Wide Web together. More than 80 percent of the pages on the map had fewer than four links, but a small minority, less than 0.01 percent of all nodes, had more than 1.000. (A subsequent Web survey would uncover one document that had been referenced by more than two million other pages!)[7].
Si tratta di un esempio clamoroso di rete a invarianza di scala. Tre sono le sue caratteristiche. La prima: è orientata alla crescita, cioè nuovi nodi ne sono attratti e vi si inseriscono. La seconda: tra i nodi non si instaurano rapporti simmetrici. Un nodo «nuovo» tende preferenzialmente ad agganciarsi a un nodo con più relazioni. Con ciò, si definiscono nodi più forti e nodi meno forti e si instaura la particolare circostanza che i nodi più forti sembrano matematicamente destinati a essere sempre più forti. Chiameremo questi nodi forti «hub»: detentori e attrattori di relazioni, possiamo concepirli come dei centri di informazione proiettati verso il monopolio. La relazione tra «hub» e nodi minori segue una legge di potenza. Come afferma Barabási: «In contrast to the democratic distribution of links seen in random networks, power laws describe systems in which a few hubs, such as Yahoo and Google, dominate»[8]. Così caratterizzato, questo modello implica alcune conseguenze non corrispondenti ai processi empirici dei sistemi complessi in particolare sembra prefigurare una dinamica che premia automaticamente i nodi che stanno nella rete da più tempo. Ciò invece non è detto. Per ovviare a questa difficoltà empirica del modello, una terza caratteristica viene indicata come decisiva: quella del «fitness»; una variabile che mostra la capacità, che ogni nodo a priori può acquisire, di rendersi attrattivo verso gli altri, così sovvertendo l’esponenziale tendenza dei nodi già forti a diventare sempre più forti. La domanda che ha mosso Barabási per l’identificazione delle prime due caratteristiche: come ha potuto Google affermarsi come «hub» di proporzioni globali scalzando altri potenziali «hub» tra una miriade di «nodi» più deboli (a partire dai singoli consumatori del web)? La domanda che ha portato alla precisazione della terza caratteristica, quella del «fitness», invece è: come ha potuto Facebook scalzare Google come sito più cliccato del mondo anche se è arrivato dopo?
In ogni caso è bene precisare che il modello di Barabási trova applicazioni empiriche non solo nel campo dell’informatica, della cibernetica e della teoria dell’informazione, ma anche in quello delle reti sociali. Secondo alcuni ricercatori, una rete di relazioni sessuali tra persone seguono una legge di potenza: la gran parte ha una vita sessuale stabile con pochi collegamenti, qualcuno ha un numero di partner esponenzialmente maggiore e quanto più la cosa è risaputa tanto più sarà maggiore il numero di partner. Secondo altri ricercatori, le reti tra collaboratori in ambito scientifico e accademico sono pure a invarianza di scala. Ancora più importante, si è dimostrato, con il contributo di un team di ricerca dell’Università di Siena, che il sistema globale del business farmaceutico funziona come una rete a invarianza di scala[9]. Prendiamo un vecchio principio della sociometria di Moreno[10], secondo cui è misurabile la densità di una rete sociale a partire da un valore zero (tra i nodi – i singoli individui – non vi sono relazioni, ossia non c’è rete) a un valore uno (tutti i nodi hanno relazioni tra di loro). Ebbene, il modello Barabási permette di misurare le asimmetrie di densità all’interno di alcune reti sociali, in particolare di quelle molto grandi (quale quelle dei social network, ad esempio): reti «deboli», che qualche autore ha encomiato perché garantirebbero maggior spazio alla creatività e all’innovazione, senza però considerare il tasso e il peso delle asimmetrie che in esse si generano[11]. Asimmetrie che consistono in questo: pochi sono connessi con i tanti, li informano, li condizionano; mentre i tanti entrano tra di loro in una relazione già sempre mediata dai pochi, che forniscono strumenti e schemi, anche cognitivi, di interazione.
La sfida della sinistra nel tempo delle reti
I più accorti studiosi possono facilmente comprendere che la formalizzazione matematica della rete a invarianza di scala, applicata allo studio delle reti sociali, ha una rilevanza politica. Per un verso, essa conferma una volta per tutte la descrizione del mondo dell’informazione in termini di complessità. Le reti nelle quali si affermano i nuovi ricchi e i nuovi poveri, gli «hub» ricchi di informazione e i «nodi» poveri, snodi di nulla, non sono semplicisticamente eterodirette da poteri estranei al gioco della rete. Qui non vale la regola che ad una azione corrisponde una reazione proporzionata. Non vale la regola che un effetto ha solo una causa, né che una causa determina un effetto preciso. Lo stesso principio d’identità vacilla. I nuovi potenti sono in gioco. Non più sorretti dall’arcaica certezza della tradizione né dall’aura del divino, essi debbono rinunciare anche alla coscienza moderna di rappresentare una classe sociale omogenea, quella borghese, che, in perfetta coerenza con l’impostazione lineare e deterministica della mentalità positivista, trova il suo avversario di classe nel proletario, funzionale al processo di accrescimento del capitale. Il nuovo potere è costituito da attori in competizione tra lor: una competizione di «fitness», ed è competizione per il monopolio, cioè, appunto, per il potere. La cifra del loro potere si misura con la capacità di portare a sé, di attrarre, di connettere nuovi nodi. Di far desiderare a quei nodi di connettersi a lui. Un’egemonia è da sempre necessaria al potere per funzionare. Ricœur, sulla scorta di Weber e Gramsci, la chiamava capacità del potere di intercettare il «sistema di motivazioni» dei subordinati. Nella dinamica delle reti sociali complesse, in particolare nel tempo del virtuale, questo è talmente vero che la stessa posizione di potere ne dipende: il maggiore o minore successo di un «hub» dipende dalla capacità di affermarsi presso i suoi nodi come polo di attrazione. I potenti sono esposti al giudizio costante dei non potenti: della loro conferma hanno un bisogno costante ed essenziale. Non appena un nodo è in grado di attrarre più di un altro a massa degli altri nodi, il potere di quest’ultimo è sconfitto.
Non solo. Nella complessità della rete, il potere non è più definibile in termini di capacità di far fare agli altri quel che si vuole; il potere è tale nella misura in cui può e sa disporre di una straordinaria quantità di informazioni, di cui tuttavia non è proprietario. La rete web, come abbiamo visto, meglio di altri tipi di rete corrisponde al modello di Barabási, presenta una distribuzione del potere che non risponde a progetti univoci e unificanti, mentre omologa e contemporaneamente disperde e frammenta il fronte dei possibili soggetti del conflitto sociale. Detto altrimenti, i tanti nodi sono soli, mentre gli «hub» cui i nodi sono connessi competono quanto a attrattività, non potendosi garantire altrimenti che con l’attrazione dei nodi il mantenimento della posizione di successo. L’intrinseca contendibilità del potere nella rete virtuale rafforza inoltre il potenziale di democratizzazione insito nella diffusione e nella messa a disposizione di tutti i nodi di un’ingente quantità di dati. Oggi un’enorme mole di dati è a disposizione di tutti coloro che entrano «in rete». È possibile usare questi dati per la ricerca, per la decisione politica, per sollevare questioni in seno alla pubblica opinione. Indipendentemente dalla nostra estrazione sociale e dalla professione che facciamo, è probabile che in un modo o nell’altro siamo tutti coinvolti in questa rete. Solo gli asceti e gli eremiti, ed in qualche caso gli amanti o i moribondi, possono presumere di non essere coinvolti – e comunque per lassi di tempo assai brevi. In quel luogo comune, tutt’altro che privo di asimmetrie e di blocchi di potere, complesso e competitivo, che è la rete globale, ci ritroviamo tutti: come dei nodi cui potenzialmente nessuno vieterebbe di diventare «hub».
La presenza, tuttavia, di asimmetrie di fatto nel fluido sistema delle reti complesse, deve mettere al riparo lo studioso da facili entusiasmi. A livello antropologico, le asimmetrie nell’informazione rinnovano il concetto di «ultimo uomo» di Fukuyama: da last man della democrazia liberale borghese che ha vinto il secolare conflitto con il socialismo reale, uomo comodo e senza valori diversi da quelli della comodità, egli diventa il nodo che non è snodo, il consumatore, che poi diventa analfabeta funzionale, poi egemonizzato, poi atrofizzato, studiato, spossessato proprio nel cuore di quel sé che la modernità gli ha insegnato a considerare, da Rousseau in poi, autentica ed inespugnabile fortezza. Una nuova, gigantesca falsa coscienza si edifica intorno a questa fortezza, nelle retoriche dei diritti individuali, della cura della persona, del benessere, nei corsi di affermazione del sé, nello specchietto per le allodole del diritto alla privacy. Beninteso, nulla di tutto ciò rappresenta un male in se stesso; al di là però di una precisa considerazione del sistema, nonché dei suoi meccanismo di funzionamento, essi diventano appunto gli arnesi dozzinali di una falsa coscienza, quella di chi, assolutamente eteronomo nella realtà, si pretende esistenzialmente autonomo.
Data l’assoluta pervasività dell’informazione nel mondo attuale, non sembra possibile pensare di ridefinire il compito e il senso stesso della sinistra senza considerare la peculiare dialettica di distribuzione del potere or ora descritta, le sue potenzialità e le sue distorsioni. Dalla Rivoluzione Francese in poi, è la sinistra ad interpretare l’esigenza di una società nuova, dove le contraddizioni dell’attualità, quale che sia, siano superate nell’interesse di coloro che da una certa configurazione della realtà sono alienati, marginalizzati o, più o meno consapevolmente, sfruttati. In altre parole, non si conosce sinistra senza critica del presente. La critica contempla sempre un momento di diagnosi della realtà. La realtà dell’informazione, la realtà in cui il potere detiene l’informazione e cerca così di produrre una peculiare egemonia cognitiva, è una realtà che non si lascia più definire in termini di classi. I tentativi di ridefinire il compito della sinistra semplicemente riabilitando le categorie del conflitto tra dominanti e subordinati sono destinati a fallire, in quanto non tengono conto della solidarietà cognitiva e assiologica tra nodi nella rete globale. Fintanto che il potere c’è, c’è lo spazio per una sinistra che lo critichi; solo che il potere è cambiato e deve essere colto al di fuori dei troppo semplici schemi dell’individuazione dell’avversario storico.
In effetti, al fine di cogliere il nuovo senso della sinistra, due esacerbazioni vanno evitate. La prima è di cogliere, della nuova era contrassegnata dal protagonismo dei dati e dalla distribuzione non rigorosamente deterministica dell’informazione (e dunque del potere), solo il potenziale democratico, l’opportunità di liberazione e di creazione di libera soggettività. Questo approccio, che si riduce in una cambiale di fiducia nei confronti dei caratteri dell’epoca, annulla la funzione critica e dunque esclude l’esistenza stessa della sinistra. Eppure questa è una reazione diffusa. Non potendo più parlare di soggetto di classe ed avversario storico, tanto vale accettare che la realtà in cui viviamo è la migliore di quelle possibili e, perciò, adottare un atteggiamento di rampante ottimismo. Così, tra gli entusiasmi dei positivisti, muore la sinistra. La seconda, di segno opposto, è di cogliere, dell’epoca in questione, solamente gli aspetti critici: come se il potere costituito nell’informazione fosse più tremendo e inesorabile di qualsiasi altro potere, come se non vi fosse via di scampo a questa gabbia di ferro che rende i pochi sempre più forti e i molti sempre più subordinati. Questo approccio, che sostanzialmente considera gli aspetti di democratizzazione impliciti nella grande disponibilità di dati e di informazione delle illusioni, non è in grado di svolgere alcuna funzione autenticamente critica volta al cambiamento. Così, tra le condanne dei luddisti o dei moralisti, la sinistra fatalmente trascende nel conservatorismo, o nell’escatologia, comunque in qualcosa che non è più sinistra.
La sinistra deve invece dotarsi di strumenti cognitivi nuovi, in grado di cogliere la specificità del tempo: le nuove modalità di aggregazione del potere, le sacche di miseria cognitiva, culturale ed economica che il sistema consente o crea, l’emarginazione di fatto che una certa posizione di meri consumatori all’interno dell’economia dell’informazione determina. Così, a partire da una critica che è prima diagnosi e solo poi denuncia, sarà possibile separare il buon seme dalla zizzania del nostro tempo. Anzi, secondo quanto ancora di valido c’è nell’atteggiamento proposto da Marx, sarà possibile impiegare il buon seme, rappresentato dai vantaggi potenziali rappresentati dalle innovazioni tecnologiche, al fine di sradicare la zizzania della distribuzione ineguale del potere, dell’informazione e della conoscenza.
Inutile dire che siamo ancora in mezzo al guado. La fine del nemico di classe e, insieme, la dispersione del soggetto rivoluzionario in una miriade di nodi connessi con i nuovi centri di potere, determina una situazione non ancora del tutto acquisita dalla riflessione filosofica del nostro tempo. Tentativi un po’ retrò di individuare facili nemici di classe, accompagnati da modi raffazzonati e grossolani di intercettare le ansie dei soggetti emarginati (ora definiti come «gente», ora come «popolo», ora come «precari» e quant’altro) sono all’ordine del giorno; ma sono nocivi, nella misura in cui distolgono l’attenzione dall’unica vera riflessione che oggi conta, quella sul sistema in cui viviamo, sulle sue potenzialità e le sue equivocità. Forse la prima domanda che noi, che vogliamo rilanciare la sinistra, dovremmo porci, almeno sotto il profilo cognitivo, è la seguente: che tipo di soggettività ci proponiamo di affermare, in un mondo di «hub» forti e di nodi isolati, frazionati, in fondo abbandonati a se stessi? Chi sono gli esclusi e gli ultimi del nostro tempo? Forse che, in questo sistema, che (si noti en passant) sta erodendo vieppiù quelle che abbiamo conosciuto in altri tempi come le «classi medie», schiacciate mediamente verso il basso, si stia lentamente sedimentando, enormemente più vasto di un tempo e non del tutto individuato secondo criteri strettamente economico-sociali, un nuovo potenziale soggetto rivoluzionario?
Più modestamente, si tratterebbe intanto di approfittare delle possibilità cognitive offerte dalla massiccia diffusione di informazione, connessa (non si deve dimenticarlo) a un ridimensionamento dell’aura di cui il potere storicamente si è ammantato per esercitare la sua autorità, per ipotizzare il rilancio di un nuovo, poderoso processo di educazione sociale. Educazione tecnica, per potersi muovere con maggiore padronanza e sicurezza tra gli snodi della rete; educazione giuridica, per comprendere fino in fondo i terms of use dei nostri potenti «hub» e non lasciarsene dominare; educazione filosofica, perché il senso critico nei confronti della realtà (e della parte che in essa ciascuno di noi verosimilmente gioca) contribuisce ad abbattere quell’enorme muro di falsa coscienza del sé che vive secondo l’egemonia dominante senza problematizzarla. Senza voler promettere per il momento un mondo in cui ogni asimmetria nella distribuzione dell’informazione, e dunque del potere, sia svanita, la sinistra di oggi dovrebbe comunque operare contro ogni forma di monopolio nella rete e contro ogni distorsione dell’informazione condotta da questo o quell’attore in cerca di nuovi «nodi» da attrarre. Dovrebbe, soprattutto, rilanciare il ruolo di quei centri di potere il cui funzionamento non è descritto dal modello della rete a invarianza di scala: innanzitutto il centro politico, che, con buona pace degli entusiasti della complessità, ancora funzionano secondo progetti, obiettivi e fini. La politica, nel quadro del nostro ragionamento, si riafferma come la propaggine pratica della soggettività consapevole, non ridotta all’egemonia che vorrebbe piegarla. Essa è il luogo in cui entrano in relazione le azioni sensate e consapevoli delle soggettività che resistono all’assoggettamento dell’«hub». La politica è il luogo dei fini e degli scopi dell’umanità, i quali a buon titolo possono utilizzare la grande disponibilità dell’informazione per raffinare i mezzi con cui raggiungere gli scopi che si dà. La politica si ricostituisce al ricostituirsi della soggettività consapevole, che non è solo compresa nella rete, come nodo, ma la comprende, come soggetto cognitivamente critico e, per ciò stesso, almeno in parte, libero.
Solo rivendicando il diritto della politica, nelle dimensioni che più si confanno al compito, a intervenire nel flusso complesso, ma non irrazionale, dell’informazione e del potere, potranno essere posti i giusti limiti ad un sistema che, lasciato a se stesso, non sembra mantenere da sé la promessa della progressiva democratizzazione.
[1] National Research Council, Network Science, Washington DC, The National Academies Press 2005.
[2] Albert-László Barabási, nato in Romania da famiglia di ceppo etnico ungherese, ha insegnato fisica e networking in diverse università americane, tra cui Harvard e Northeast. Il testo teorico principale dell’autore è Linked: The New Science Of Networks, Perseus Books 2002 (tr. it.di B. Antonelli d’Oulx, Link. La scienza delle reti, Einaudi, Torino 2004). Gli articoli pionieristici di Barabási, spesso scritti nell’ambito di team interdisciplinari, riguardano il world wide web. Ricordiamo in particolare : R. Albert,, H. Jeong, A.-L. Barabasi, Scale-free characteristics of random networks: the topology of the world-wide web, Physica, 2000. L’autore si è poi dedicato all’applicazione del networking in biologia (A.-L. Barabási and O. Zoltán, Network Biology, Nature Reviews Genetics 5, 2004, pp. 101–113), in medicina (A.-L. Barabási, N. Gulbahce, J. Loscalzo, Network Medicine, Nature Reviews Genetics 12, 2011, pp. 56–68).
[3] A.-L. Barabási, Scale-Free Networks, in Scientific American, May 2003, p. 52. Si può sin d’ora comprendere che lo studio delle reti risponde ad un approccio formale, che come tale può adattarsi a campi anche molto distanti e semanticamente diversi tra loro. Si tratta di cogliere i cosiddetti « isomorfismi » tra ordini della realtà che non hanno, dal punto di vista strettamente semantico, nulla a che vedere gli uni con gli altri. Possono quindi essere affiancate, sotto l’aspetto del loro comportamento formale, reti che riguardano campi i più diversi del reale, come la popolarità degli attori di Hollywood, la diffusione del cancro nel corpo, al world wide web.
[4] L’equazione tra complessità e casualità è classica di alcuni sociologi dell’immaginario come Michel Maffesoli (cfr. M. Maffesoli, Du nomadisme. Vagabondage Initiatique, Le Livre de Poche, Paris 1997; tr. it. a cura di S. Mazzoli, Il Nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Franco Angeli, Milano 2000.
[5] P. Erdős, A. Rényi, On Random Graphs, in « Publicationes Mathematicae », n. 6, 1959, pp. 290–297.
[6] A.-L. Barabási, Scale-Free Networks, in Scientific American, cit., p. 52.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 53.
[9] Ivi, pp. 54-55.
[10] Cfr. J. L. Moreno, Sociometry, Experimental Method and the Science of Society. An Approach to a New Political Orientation, Beacon House, New York 1959.
[11] Cfr. in particolare Mark Granovetter, per il quale le reti a legami deboli, ossia meno intimi e stretti di quelli di tipo fortemente comunitario o familiare, danno ai suoi membri maggiori opportunità di crescita e un più alto potenziale di successo nel contesto professionale. (M. Granovetter, La forza dei legami deboli, saggi tradotti a cura di M. Eve e M. Follis, Liguori, Napoli 1998).