Scritto da Flaviano Zandonai, Andrea Baldazzini
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Questo articolo si inserisce all’interno di un percorso di approfondimento parte del progetto Aut – Futuri Fuori promosso da Cob Social Innovation. Aut – Futuri Fuori è un processo di immaginazione collettiva sulle possibilità di Futuro per costruire il nuovo modello di società al 2050. L’intento è cambiare la direzione attuale facendo leva sulla capacità umana di aspirare, e sulla possibilità di farlo insieme.
E se fosse lui l’origine di tutti, o di molti, dei mali che affliggono, ormai atavici, ambiente e società? Proprio lui, quel contratto sociale posto a fondamento della modernità che doveva elevarci da una condizione animale di perenne conflitto e insicurezza per garantirci un’esistenza capace di mettere a frutto due tra i principali caratteri dell’umano cioè la conoscenza e l’agire collettivo?
Quella che abbiamo di fronte non è solo una crisi dei modelli democratici e di rappresentanza, ma ad essere rimessa in discussione è l’intera architettura relazionale che costruisce i legami tra le diverse organizzazioni della società, siano esse di natura pubblica o privata, così come tra singoli individui. Da qui ad esempio l’emergere nel dibattito pubblico di posizioni secondo cui il sistema economico oggi sia dominante rispetto a quello politico o di un individualismo sempre più estremizzato o ancora il riemergere di comunità rancorose che si riteneva avessero esaurito la loro carica conflittuale. Dunque, a cadere per primo sotto il peso di una (post)modernità che ha aperto le porte ad una nuova e lunga transizione, sembra proprio essere il pilastro nel quale il contratto sociale moderno aveva trovato le sue condizioni di possibilità, ovvero il diritto. Nel corso degli ultimi secoli esso si era infatti affermato come unico dispositivo in grado di assolvere una triplice funzione: 1) mediare in maniera pacifica tra interessi divergenti, 2) proteggere individui e comunità rispetto ai rischi che accompagnano le trasformazioni delle società, 3) essere garante verso quell’insieme di convinzioni e valori che trovano traduzione nei diritti sociali. Guardando all’oggi, invece, esso sembra aver perso molta della sua forza originaria e mostra sempre più limiti nel dover affrontare tanto le criticità che emergono in seguito alle dinamiche di carattere globale, quanto nel favorire il rinnovamento delle forme di vita a livello territoriale e comunitario.
Un contratto sociale che si è quindi esteso nell’utilizzo e complessificato nella normazione, riguardando non solo il rapporto con la sfera pubblica dello Stato e delle sue articolazioni, ma anche nei legami con organizzazioni di natura privata che attraverso “termini e condizioni” di clausole sempre più articolate e unilaterali stabiliscono crescenti margini di delega rispetto all’utilizzo di nostre risorse (economiche, cognitive, motivazionali, informative) in cambio dell’accesso a beni e servizi dai quali dipende un sempre più presunto “benessere”. Per dirla in maniera sintetica: discutere del contratto sociale significa pertanto mettere al centro il tema sia di come le collettività decidono del proprio futuro in termini di mezzi e processi, sia di quali significati adottato per orientare l’agire.
E così, come svela in modo eclatante questa fase storica, ci si ritrova prigionieri di dinamiche schizofreniche. Soverchiati, da una parte, da micro norme che erodono l’esercizio di libertà quotidiane e, dall’altra, da tentativi, poco credibili, di stracciare o anche solo riscrivere il contratto più a colpi di soluzioni preconfezionate da vecchie ideologie che sulla base di piani ben architettati (e gestiti). Che si tratti di “controculture” spesso di seconda mano, o di nuovi “paradigmi” che non sono in grado (o non vogliono) misurarsi con il loro effettivo consenso e impatto, il risultato è simile: un approccio auto assolutorio rispetto allo status quo che finisce col rafforzarlo. Lo si nota nelle sollecitazioni al ritorno alla convivialità e alla decrescita per contrastare il neoliberismo (sapendo che si tratta di soluzioni praticabili solo da chi è dotato di particolari risorse economiche e culturali), o anche nei riferimenti a “terze vie” della società che, ancora una volta, preferiscono rinchiudersi nella normazione di settore (come quella del Terzo Settore) piuttosto che agire una trasformazione sistemica. Il rischio, così operando, è che il contratto sociale assuma sempre più una connotazione “sacrale” che lo astrae cioè dai processi sociali, ingenerando atteggiamenti di sudditanza verso di esso che non lasciano margine per cambiamenti all’altezza della sfida che forse stiamo già perdendo: la sopravvivenza, a questo punto non solo nostra, ma del pianeta. Un fallimento che è strutturale e di sistema e non solo contingente, legato cioè a determinate soluzioni e assetti politico-istituzionali storicamente determinati. È proprio il significato originario del contratto sociale che si è spezzato e che, va ricordato, era stato siglato all’alba dell’era definita “moderna” da un’umanità che, almeno nel cosiddetto mondo occidentale, si avviava lungo un percorso di progressivo svelamento della propria natura marginale, fragile e transitoria rispetto alla quale era necessario ideare e sancire una forma di tutela. Un “lume” per tenere salda la collettività di fronte allo smarrimento grazie a un’entità terza in grado di produrre regole e di farle rispettare.
I rimedi, in tal senso, sono quasi ancor più disvelatori di questo fallimento. Sia che si tratti del carattere “etico” dello Stato, il quale da un lato dissemina il tessuto sociale di nudge tossici (bonus, sgravi, ristori) privi di qualsivoglia visione e, dall’altra, concede spazi di partecipazione e di coprogettazione che in realtà sono ad autonomia limitata perché mantiene ben salda la “golden share” sulla scelta finale rispetto all’allocazione delle risorse. Oppure, sul fronte delle organizzazioni di mercato, guardando allo sgocciolamento filantropico che, non contento di “prendere per fame” la società civile attraverso il gioco al ricatto dei bandi, ora tenta, ancor più subdolamente, di colonizzarlo attraverso il mantra dei partenariati. Eppure, al di fuori del radar di politiche pubbliche benevole e di strategie dell’economia privata responsabili, qualcosa sta cambiando.
La prima sollecitazione viene dai risultati della ricerca scientifica in campi fin qui alieni rispetto al pensiero filosofico e politologico che ha elaborato la teoria del contratto sociale e partorito la sua iconografia del leviatano. Archeologia, neuroscienze, biologia, climatologia, ecc., grazie anche al potenziamento delle loro capacità tecniche di analisi e all’allargamento e consolidamento delle rispettive comunità scientifiche, contribuiscono sempre più a riscrivere i fondamenti antropologici e sociali dell’umano, arricchendo in modo sostanziale le basi sulle quali si può costruire, e riscrivere, il contratto sociale. La conoscenza delle determinanti del comportamento individuale e collettivo interpolato a fattori ambientali è oggi molto più dettagliata rispetto a quella su cui potevano contare gli scienziati sociali ed i filosofi che elaborarono il modello del contratto sociale e ispirarono le sue applicazioni politiche. Un contratto sociale elaborato alla luce di una rappresentazione dell’uomo come specie asociale e dell’ambiente come minaccia e fonte di sfruttamento che, vista con gli occhi della scienza di oggi, appare quasi caricaturale ma che, va ricordato, ha influenzato e per certi versi ancora persiste all’interno dei quadri conoscitivi delle scienze sociali, ad esempio nella modellistica delle “scelte razionali” in economia.
La seconda sollecitazione risiede in un binomio solo a prima vista inedito, ovvero quello tra tecnologia e comunità che invece ormai da decenni, e non solo dalla più recente “rivoluzione digitale”, sta assumendo uno spazio crescente all’interno delle organizzazioni e della società, anche e soprattutto, nelle istituzioni di grandi dimensioni e d’impianto formale, oltre che in quelle particolarmente complesse e ad elevata intensità di conoscenza. Se all’inizio sembravano solo eccezioni alla regola rispetto alla formidabile gabbia d’acciaio burocratica e che si potevano manifestare quindi solo negli interstizi delle procedure e degli organigrammi, oggi le comunità di competenze, aspirazioni, interessi che elaborano e socializzano informazioni e conoscenze per la creazione e l’uso, spesso creativo e fuori norma, delle tecnologie, rivelano la possibilità di poter limitare o addirittura fare a meno di deleghe a entità terze per coordinare attività umane anche di fronte a progettualità complesse e a vario titolo rischiose.
La terza sollecitazione è una declinazione del tema precedente a livello di cambiamento organizzativo. Dopo generazioni di istituzioni e imprese costituite e gestite per “normalizzare” le attività umane rendendole sempre più stabili e continuative (non solo in ambito pubblico, ma anche nell’imprenditoria privata e pure nelle soggettività nonprofit) oggi si assiste alla (ri)nascita di organizzazioni trasformative. Soggettività che non si basano esclusivamente su capacità hard di progettazione e produzione di innovazioni tecnologiche, ma anche sulla generazione, spesso in forma collettiva, di nuovi significati e forme d’uso rispetto a queste ultime, che quindi passano da uno status di supporto strumentale “inerte” a entità sociotecniche dotate di un’intelligenza non meramente artificiale. La capacità di sense-making orientata a obiettivi di trasformazione sociale positivi e duraturi richiede però una diversa “contrattualizzazione” della missione di queste organizzazioni che scaturisce non certo da regolamenti interni e patti parasociali, ma da norme costituenti riconducibili alle principali sfide sociali e ambientali, ciò consente quindi ai diversi partecipanti di agire ampi gradi di libertà che si misurano su obiettivi di cambiamento e non sul mero sul rispetto delle procedure. Da questo punto di vista appaino subdole, se non opportunistiche, le posizioni che sostengono una sorta di “neutralità organizzativa” in termini formali facendo prevalere elementi più fluidi legati alla mission e modus operandi. In realtà se le organizzazioni sono anche (e soprattutto) significanti allora i loro stessi assetti formali assumono una rinnovata importanza per contrattualizzare apporti più sfaccettati e mutevoli da parte di soggetti diversi. A fronte di queste, e probabilmente altre, sollecitazioni su quale base si può riscrivere il contratto sociale?
In primo luogo non dovrebbe trattarsi di un contratto vero e proprio, volto cioè a regolare in senso “equilibrato” e meccanico lo scambio di risorse che soddisfano interessi resi (a volte forzatamente) convergenti, ma piuttosto di un patto basato sull’evidenza delle interdipendenze che legano risorse umane, naturali e tecnologiche. Il confronto, non a caso molto acceso e ricco di mistificazioni, rispetto a questioni solitamente trattate come specifiche e distanti – ad esempio il rapporto tra cambiamento climatico e migrazioni – denota lo sforzo in atto per giungere a una sintesi sistemica in grado di invertire la rotta rispetto a culture, strategie e politiche (non solo quella liberista) risultate non “semplicemente” inefficienti, ma basate piuttosto su premesse ideologiche, culturali e antropologiche incomplete che hanno portato a enfatizzare aspetti specifici tralasciandone altri perché non visibili o ritenuti, spesso anche in modo strumentale, marginali. È questo, con tutta probabilità, il principale campo di innovazione scientifica e di potenziamento delle capacità che ci attenderà nei prossimi anni, ovvero approfondire e verificare la natura di legami estesi tra fattori e variabili allo scopo di dipanare la nebbia delle correlazioni individuando veri e propri legami causali intorno ai quali costruire un nuovo contratto sociale che sappia valorizzare e non semplicemente contenere le interdipendenze tipiche di quest’epoca.
In secondo luogo la centralità assunta da una nuova rappresentazione sociale del sistema sociotecnologico e ambientale apre la strada a un ridimensionamento del meccanismo di delega che fin qui ha monopolizzato l’impostazione del contratto sociale, aprendo invece ad assunzioni di responsabilità da parte di individui e comunità maggiormente consapevoli e competenti, in grado quindi di gestire componenti significative del sistema. In questo senso il ruolo di un soggetto “terzo” a cui affidare il presidio e l’esecuzione del contratto potrebbe essere legato non tanto a funzioni di comando e controllo, ma piuttosto di abilitazione del protagonismo come dimostrano i tentativi di modificare il “codice genetico” del diritto introducendo ad esempio il principio di sussidiarietà nella nostra Costituzione che ha portato, in questi ultimi anni, a sbloccare un potenziale di partecipazione sociale e civica che prima giaceva inerte sotto un sistema di regole procedurali ispirate a meccanismi di delega. Da questo punto di vista sarà interessante verificare come il leviatano in versione abilitante saprà allestire i processi partecipativi autentici perché anche questi ultimi non sono neutrali. Il riferimento va soprattutto all’utilizzo di strumenti legati ad esempio alla raccolta di idee, alla condivisione di contenuti, alla costruzione di comunità, al supporto all’avvio di nuove organizzazioni o al cambiamento di quelle esistenti, ecc. Un insieme di tools ormai molto codificato che però a volte tradisce impostazioni ideologiche basate su relazioni top down e asimmetriche come ad esempio nei percorsi di capacity building delle organizzazioni della società civile o nei processi di incubazione e accelerazione di imprese innovative.
Tutto ciò richiede, infine, l’adozione di schemi di azione fondati non solo su istruzioni e norme alle quali sottostare o al massimo criticare, ma soprattutto su un’impronta educativa che consenta di rimettere in moto le capacità di relazione e confronto che alimentano quei processi di riproduzione sociale che, proprio dalla modernità in avanti, sono stati espropriati di importanti funzioni e istituzioni, sia politiche che economiche e anche sociali come dimostra la “tragedia dei commons”. Un esito, quest’ultimo, per certi versi comprensibile considerati i limiti in termini di conoscenza, competenza e tecnologia che impedivano agli assetti comunitari premoderni di espandersi e replicarsi oltre una dimensione strettamente locale ma che le esperienze di socialità e cooperazione più recenti stanno progressivamente superando nonostante un contratto sociale a loro avverso. Lo dimostra, ad esempio, la crescente capacità di sottoporre a governo cooperativo piattaforme digitali sfuggite al controllo di quella economia della condivisione che le aveva incubate come innovazioni sociali. Un percorso che avviene non solo evidenziando i fallimenti del mercato attraverso attività di advocacy ma anche (e soprattutto) potenziando la gestione delle componenti “core” della tecnologia e del capitale. Ecco quindi che se dalle turbolenze sociali in atto riuscirà ad affermarsi un terzo pilastro della società fatto di soggetti a base comunitaria in grado di esercitare una maggiore capacità di governo al suo interno e rispetto alle istituzioni dello Stato e del mercato, allora si potranno creare nuove condizioni per definire un assetto di società più maturo per contrattualizzarsi in senso mutualistico ed essere all’altezza delle sfide che già ci sollecitano.
Pistor K. (2021), Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza, Roma, Luiss University Press.
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Ventura R.A. (2020), Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, Torino, Giulio Einaudi Editore.
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