Recensione a: Franco Cardini, Samarcanda. Un sogno color turchese, il Mulino, Bologna 2016, pp. 325, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Diego Baroncini
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Ci sono parole che portano con sé un personale immaginario, ovvero parole recanti mondi fantastici, vaghi e apparentemente preclusi, confusi nella leggenda e perduti nelle lontananze geografiche. Samarcanda è uno di questi nomi. Infatti in esso, nel nome di Samarcanda, confluiscono suggestioni orientali e esotiche non meglio identificate, tuttavia attraenti quanto basta per sollecitare la curiosità di chi, fra noi occidentali, si ritrovi a rivolgervi l’attenzione. Non in molti, probabilmente, saprebbero rispondere, in prima battuta, alla domanda su dove sia collocata Samarcanda, che essa si trova in Uzbekistan, benché forse alcuni, utilizzando Google Maps, potrebbero dirigere il cursore verso l’Asia centrale, ovvero verso quell’insieme di Stati dai nomi terminanti in -stan, le cui specifiche identità diluiscono in quella maggiore e conglomerante di ‘repubbliche ex-sovietiche’. Dunque della fascinazione e delle conseguenti possibilità di specificazione celate sotto il nome della città centro-asiatica è ben consapevole Franco Cardini[1], capace nel suo libro[2] di utilizzarne l’allure affascinante per sospingere il suo lettore verso coordinate e intersezioni sempre più precise, vale a dire sempre più reali. Lo storico infatti, conforme al principio che la conoscenza muove dal noto all’ignoto, fine verso cui tende appunto la curiosità, dà inizio alla sua storia riecheggiando la popolare canzone di Vecchioni del 1977[3] e lo spettro immaginifico di Samarcanda, scarmigliato quanto rinomato fra cupole color del cielo, serragli di emiri e mercanti a dorso di cammello, in un racconto che, a partire appunto dai toni fiabeschi dell’immaginario trattato (il primo capitolo si intitola Kan ma kan, ‘c’era una volta’), si mostra, e tale in realtà è fin dall’inizio, quale racconto storico vero e proprio.
Il libro di Cardini è infatti, prima di tutto, un libro di storia. Ma un libro di storia che racconta una storia, quella di Samarcanda. Per fare questo, l’autore è spesso costretto ad ingrandire l’angolo visuale e ad abbracciare una porzione di mondo più vasta, quella delle antiche Sogdiana e Transoxiana, nomi scomparsi e dimenticati dei territori grossomodo compresi fra le sponde orientali del Mar Caspio e le pendici occidentali delle alte montagne del Karakorum. Solo all’interno infatti della storia di questo angolo di Asia centrale, i cui confini si ampliano e si restringono al ritmo dei conquistatori che man mano si sono succeduti (niente meno che Alessandro Magno, Gengis Khan e Tamerlano), si può comprendere la storia di Samarcanda: è infatti nella rete di relazioni etniche e religiose, di identità stratificatesi nel corso del tempo (dapprima altaico e iranica, poi musulmana e infine sovietica), che la sua identità si inscrive. Ed è così che la linea narrativa cronologica, giustamente preferita dall’autore per il racconto dell’evoluzione della città, a partire dalle sue tre mitiche fondazioni, nel momento in cui si interseca con la coordinata spaziale, spinge Cardini non solo ad ampliare i confini, ma a ripercorrere, al ritmo dei cavalli dei nomadi della steppa, lunghe distanze geografiche, da Damasco a Kiev, a Delhi e a Baghdad. Se così l’opera si mostra come un fitto intreccio di cui la storia tout court e la geografia costituiscono l’ordito, risulta evidente che popoli, religioni, politica e leggende ne compongono la trama, contribuendo così alla tessitura di un testo prezioso quanto un tappeto di Bukhara (ma attenzione alle imitazioni! Come ci ammonisce lo stesso Cardini, a proposito di quelli che potrebbero offrirci, turisti ignari, nei molti vicoli della vecchia Samarcanda).
L’abbiamo accennato, Cardini lo racconta, le origini della città si perdono nella leggenda, o per meglio dire nelle leggende: due di fondazione e una cosiddetta di conversione, data la sovrapposizione etnica in continuo rimescolamento tipica di queste contrade, ora come allora. La prima (p. 18) è di matrice aria, oggi sostenuta dalla popolazione tajika, appunto di discendenza iranica, che ritiene Samarcanda la propria capitale spirituale[4], e rintraccia un’etimologia turco-mongola a significare ‘città del principe Samar’[5]. La seconda, invece, di matrice altaica, famiglia linguistica cui appartiene sia il popolo uzbeko sia gli stessi mongoli, per un breve periodo dominatori dell’Asia, contrappone – per indispettire i tajiki – un altro principe fondatore, Afrasiab, avente lo stesso nome con cui era conosciuta l’antica cittadella. Tuttavia, come ricorda Cardini, sembra che siano entrambi i principi dei rispettivi miti fondatori ad acquistare il nome dalla città e non viceversa, risultando infatti l’impianto urbanistico assai più antico rispetto alle prime migrazioni sia arie che altaiche (p. 19). Venendo alla terza, quella di conversione, essa è sentita dalla popolazione come altrettanto importante, in quanto inserisce la ‘Perla delle Città’, come amava chiamarla Timur-Tamerlano, all’interno della umma musulmana, e non si esclude la possibilità della sua comparsa proprio a partire dall’epoca del grande emiro, sebbene Cardini sembri ipotizzarne anche più antica e complessa genesi (cfr. pp. 19-20). L’identità musulmana dunque, fondamentale per la città, rende necessario un mito di conversione atto a mostrare l’antica e quasi immediata iscrizione della città nel cosmo musulmano alto-medievale, direttamente conseguente alla parabola vitale di Maometto, benché in una declinazione del tutto particolare, fortemente dipendente dalle tradizioni sociali e religiose delle popolazioni altaiche, come l’identità stessa del protagonista, Chupan Ata traducibile con un generico ‘Padre dei Pastori’, testimonierebbe[6]: l’Islam centro asiatico, principalmente sufi, è infatti a tutt’oggi commisto di pratiche e tradizioni di derivazione sciamanica (di cui ricche erano le religioni animiste dei popoli della steppa) sulle quali in alcuni casi, ovvero laddove non sono state liberamente mantenute, venne posto un velo di ortodossia islamica, un riadattamento all’interno della prescrizioni della mezza luna, per accoglierle ed enuclearle. Ad ogni modo, prima della partecipazione a questa sostantia secunda, Samarcanda era parte dell’antico impero persiano, capitale della satrapia della Sogdiana, e come tale venne conquistata da Alessandro Magno (nelle fonti arabografe poi noto come Iskander) nel IV secolo a.C. durante la sua opera di espansione in Asia; egli la conobbe con il nome di Maracanda. Riconfermatesi, dopo la parentesi ellenistica di Alessandro, una delle maggiori città persiane della dinastia Sassanide fino alla tarda-antichità, durante i secoli medievali, sotto la dinastia Abbaside, la città si avvantaggiò notevolmente della sua posizione geografica: sita lungo la Via della Seta, importante arteria di comunicazione fra Europa e Asia, Samarcanda, grazie ai suoi mercati e ai traffici commerciali, divenne la città più ricca dell’intera Asia centrale e la sua popolazione aumentò progressivamente.
Tuttavia, dopo secoli di prosperità, nel 1220 Samarcanda venne conquistata da Temugin, ovvero Gengis Kahn, il più grande conquistatore dopo Alessandro (p. 71) e la cittadella antica di Afrasiab data alle fiamme. Per la gloriosa e ricca città, per questo porto di terra che era Samarcanda, stava cominciando un nuovo periodo di decadenza, dal quale solo con l’affacciarsi sulla soglia della storia, circa un secolo dopo, di Timur, più noto in Occidente come Tamerlano, si sarebbe ripresa. Tuttavia, come ricorda Cardini, se per Samarcanda fu un duro colpo il ferro di Temugin, e per quanto i suoi modi fossero duri e feroci, la portata storica della sua azione fu ben altro, ottenendo un risultato quale la cosiddetta pax mongolica, ovvero un periodo di pace (il cui nome riecheggia la più antica pax romana di Ottaviano Augusto) dovuto all’immensa estensione del fugace impero mongolo, che permise una grande circolazione di merci e di idee lungo le mille strade che componevano quel fascio di rotte carovaniere che era la Via della Seta, anche se in questo periodo, per quanto qui ci interessa, ormai la maggior parte dei convogli di mercanti passava a Nord o a Sud della città. A questo proposito, secondo Franco Cardini (cfr. pp. 79-83), da quanto si legge nel Milione, per esempio, è infatti improbabile che il nostro stesso Marco Polo, il più famoso fra i viaggiatori della Via della Seta, l’abbia attraversata. Per quanto riguarda Timur, protagonista di un’altra opera di Cardini, il romanzo Il signore della paura, egli è una delle figure centrali delle pagine dedicate a Samarcanda, in quanto contribuì ad adornarla, a glorificarla ed incensarla erigendo monumenti di impressionante bellezza, che la rendono oggi la principale meta turistica dell’Uzbekistan, uno fra tutti la moschea di Bibi Khanum, così chiamata perché dedicata da Timur alla sua amata prima consorte. A proposito del grande emiro, Cardini ci chiarisce un’altra pagina di storia, a volte poco nota benché forse di portata epocale anche per il continente europeo: in seguito al disfacimento dell’impero mongolo, l’Asia centrale era divisa in piccoli regni, chiamati khanati, e il sogno di Timur, che richiamava per sé una discendenza dal grande Gengis, era quello di una nuova vasta confederazione che si estendesse da Baghdad fino all’India ad Est e fino all’Anatolia ad Ovest; e se da un lato, storicamente parlando, si può affermare solamente che la sua conquista dell’Anatolia, ai danni dei turchi ottomani, ritardò la caduta di Costantinopoli di un cinquantennio, dall’altro si può ad ogni buon conto sostenere che, per quanto i rapporti con gli europei insediati nelle roccaforti del Mediterraneo orientale non siano stati del tutto pacifici, ad Occidente si ebbe la distinta percezione che Timur abbia contribuito a deviare la minaccia turca dai troppi interessi verso l’Europa.
Successivamente Cardini prosegue descrivendo i governi degli eredi diretti o sedicenti di Timur e il periodo di lotte fra i diversi emirati e khanati sorti dalla frantumazione del sogno del grande emiro, per arrivare poi a parlare del Grande Gioco in pieno XIX secolo, ovvero di quella silente contrapposizione fra impero russo e impero britannico per il dominio sui territori dell’Asia centrale. Samarcanda, l’8 giugno 1868, venne conquistata dai russi e da questo momento in poi la sua storia, come quella dell’intera regione centro-asiatica, fu legata a doppio filo con quella di San Pietroburgo e Mosca. Tuttavia con l’ingresso nella contemporaneità il racconto storico di Cardini non diviene meno affascinante e la sua prosa non si fa meno attraente, continuando anzi a trattenere il lettore in meandri e gomiti della storia solitamente non molto approfonditi al di fuori delle opere di studio o della letteratura di viaggio di fine Ottocento-primo Novecento. Di questa Samarcanda contemporanea restano visibili edifici e quartieri, alcuni quasi fine de siècle e altri invece prettamente sovietici, testimoni di un accrescimento identitario per la città paragonabile a quello musulmano del primo medioevo, incardinatosi sulle precedenti tradizioni e religioni altaiche ed iraniche. Cardini è infatti sempre attento nel corso dell’intera narrazione a mostrare, come la migliore delle guide, sia le vestigia fiabesche dell’epoca di Timur, oggi patrimonio dell’Unesco visibili al turista contemporaneo (e per esso separate da un muro dai vicini quartieri degradati), sia il lato meno esotico della città, in modo da presentare al suo lettore sempre dei contraltari all’immaginazione, che potrebbe facilmente, data la città, prendere il sopravvento, vale a dire dunque dei referenti oggettuali alla sua narrazione: i superstiti della storia.
La Samarcanda occidentale, russa e successivamente sovietica, è per Cardini altrettanto importante per le identità multiple della città che si accastellano l’una sull’altra, e proprio per evitare di ridurla a una vetrina-museo per turisti restaurata ad hoc di mosche e madrase dalle cupole turchesi egli accentua l’analisi storica particolarmente sul periodo sovietico: il rischio sarebbe quello di perdere la farsi sfuggire la città reale. Dire cosa fu il periodo sovietico non pertiene all’analisi di Cardini, diversamente egli racconta quali caratteristiche esso assunse in queste contrade, così periferiche rispetto a Mosca e alla cultura che aveva sviluppato socialismo e marxismo. Non fu né facile né efficace per il partito il tentativo di estirpare la religione e le tradizioni popolari dall’Asia centrale, tanto che, alla fine, a questi riguardi dovette cedere istituendo un organo direttivo, il Sadum[7], del cosiddetto ‘Islam ufficiale’, in modo da regolamentare le pratiche religiose. A questo provvedimento, ad ogni modo, l’Unione Sovietica accompagnò la chiusura in massa di moschee e scuole coraniche, fra le quali quelle bellissime affacciate sul registan di Samarcanda (l’antico mercato sul quale svettava anche la moschea di Bibi Khanum), non conseguendo tuttavia nessun altro risultato che il proliferare della clandestinità religiosa: moschee e scuole non regolari si diffusero a macchie di leopardo per tutto il territorio, sia nei centri cittadini sia nelle aree rurali. La stessa vita della maggior parte della popolazione, nonché degli ufficiali di partito in comando, era divisa in due, fra l’epurata dimensione pubblica, priva di riferimenti tradizionali-religiosi, e quella intima e familiare, ancora simbolica e celebrativa. Insomma, in alcuni momenti anche il partito, a Samarcanda, così come nel resto di questi territori, volgeva lo sguardo altrove. Ma questo fu il modo, per quanto possa apparirci incoerente, in cui la nuova identità sovietica potette trovare il suo posto accanto alle antiche, turco-altaica ed in parte iranica e successivamente musulmana. Avendo quindi esaurito anche la storia recente, a questo punto vogliamo in ultimo ricordare, a proposito degli accostamenti identitari presenti a Samarcanda e nelle sue genti, come essi siano mostrati da Cardini attraverso le descrizione dei luoghi, cui accennavamo poco sopra, luoghi appunto paratatticamente accostati: l’antica Afrasiab, i mercati della Via della Seta, la capitale di Timur con i suoi fiabeschi palazzi e infine la città russa e quella sovietica. In questo modo, attraverso le pagine di Cardini, come in un antico arazzo in cui le scene si muovono, avvicendandosi ferme, in orizzontale, si può rileggere la storia di Samarcanda, nei suoi molti percorsi e nelle sue molte facce, come le si vedrebbe di persona, se mai ci si andasse, le molte Samarcanda l’una accanto all’altra. Quale futuro per Samarcanda? Anche per lo storico è difficile da dirsi, fra la tutela quale ‘patrimonio mondiale dell’umanità’ da parte dell’Unesco e la morte del ventennale presidente Karimov nel 2016. Qualunque cosa accadrà a questa città, la Samarcanda eterna, conclude Cardini (p. 294), quella fuori dalla storia, quella a cui non accadrà nulla, quella Samarcanda è irraggiungibile e immutabile, è il nostro immaginario occidentale da cui siamo partiti, di un sogno color turchese.
[1] Franco Cardini, noto intellettuale italiano, di formazione e professione storico, è medievista e islamologo. Oltre alle numerose pubblicazioni specialiste e divulgative di carattere storico e politico-sociale, getta uno sguardo sempre attento anche su diversi aspetti dell’attualità attraverso la redazione del blog francocardini.it .
[2] Ultimo titolo fra quelli di Cardini dedicati ad alcune importanti città per la collana Intersezioni della casa editrice Il Mulino: Id., Gerusalemme, Il Mulino: Bologna 2012; Id., Istanbul, Il Mulino: Bologna 2014.
[3] La canzone narra in prima persona di un soldato che, avendo scorto fra la folla una ‘nera signora’, chiede un cavallo al suo re per poter fuggire fino a Samarcanda dove, infine, troverà proprio quella nera signora ad attenderlo. Il tema è quello della morte inevitabile che trova una delle sue prime stesure in una parabola all’interno del Talmud babilonese, ove re Salomone, spaventato dall’Angelo della Morte, per salvare i suoi scribi li invia alla città di Luz in cui, in realtà, erano da esso attesi. Da questo primo seme germogliarono molte varianti leggendarie del tema, fino al Novecento in cui, in Occidente, esso si legò al nome della città irachena di Samarra, dapprima a causa della pièce del ’33 Sheppey di Maugham, in seguito e soprattutto grazie al noto romanzo del ‘52 Appuntamento a Samarra di John O’Hara, cui anche Vecchioni dice di essersi ispirato; tuttavia, per quanto riguarda il panorama italiano, proprio in seguito all’uscita del celeberrimo brano del cantautore, sarà allora Samarcanda a divenire per antonomasia simbolo della morte inevitabile.
[4] La Republica Socialista Tajika, di cui il Tajikistan odierno è la diretta continuazione, in seguito all’instaurazione dell’Unione Sovietica, solo nel 1929 è stato posto a tavolino sul confine orientale dell’Uzbekistan, mentre fino a quella data ne era parte.
[5] Un’altra etimologia, sempre ricordata da Cardini (pp.18-19), mantenendo la radice del nome Samar, si riferisce al vocabolo sogdiano känd per indicare ‘insediamento’, tipico di altri toponimi lungo la Via della Seta come Kandahar.
[6] Cardini, più che ricondurre direttamente Chupa Ata all’arrivo del popolo uzbeko, del XV secolo, sembra considerarlo in modo più generale una «figura archetipica altaica, in relazione con il mondo turanico (scil. turco-altaico) insediato in Asia centrale» (p. 19), idoneo a inserire Samarcanda in un «islam mitico e atemporale» (ibidem).
[7] Sigla russa della Direzione generale dei musulmani nell’Asia centrale e nel Kazakhstan (p. 246, n. 7).