Scritto da Lorenzo Castellani
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Nel corso della transizione presidenziale Donald Trump ha messo insieme una serie di dichiarazioni che parlano al resto del mondo, ma si rivolgono anche ai tre pilastri elettorali che lo hanno sostenuto. Senza aver ben chiaro il panorama interno agli Stai Uniti è difficile comprenderne i riflessi esterni, poiché nella configurazione imperiale estero e interno si tengono insieme.
Ecco allora il ruolo dell’elettorato trumpiano nella definizione delle priorità politiche. In primo luogo, ci sono i propositi che piacciono all’elettorato populista-reazionario quali la proposta di nuovi dazi, la riduzione dei flussi migratori, la retorica pacifista-pragmatica nei confronti di Putin e della guerra in Ucraina, l’intenzione di far pagare molto di più agli alleati europei la loro sicurezza attraverso la NATO. Vi sono state poi le esternazioni che tengono a bada l’elettorato repubblicano classico come la riduzione della tassazione sulle imprese e l’inaugurazione di quella che viene chiamata dottrina “Donroe”, crasi tra Donald e dottrina Monroe, la quale vuole affermare il potere americano nel “cortile di casa” da Panama fino al Canada e la possibilità di acquisire, con una transazione economica o con pressioni politico-militari, la Groenlandia. È una vecchia forma di imperialismo, figlia di una competizione con la Cina che, come più volte sottolineato da Niall Ferguson, lambisce i contorni di una seconda guerra fredda, che è pienamente accettabile e anzi auspicata dall’elettorato conservatore. Ci sono poi i programmi di drastica riduzione della burocrazia federale, con la costituzione del DOGE (Department of Government Efficiency) diretto da Elon Musk, di deregulation dei mercati, di marcia indietro sulle politiche ambientaliste dell’amministrazione Biden e l’esibizione di un atteggiamento più aggressivo verso l’Unione Europea al fine di espandere i mercati delle grandi aziende tecnologiche.
Il sistema di potere americano ha mostrato la sua plasticità con un mutamento di posizione dell’establishment intorno a Trump, chiaro già in vista delle elezioni e ancor più consolidato nelle prime settimane dopo la vittoria. Ciò si è tradotto, anche sul piano culturale ed economico, nella dismissione da parte di molte grandi aziende di quei programmi di diversità e inclusione che avevano caratterizzato le policy aziendali dell’ultimo decennio. Sono decisioni che partono dai vertici delle grandi aziende e che servono sì per compiacere Trump ma anche per liberarsi della burocrazia di una cultura woke che non è riuscita a mettere solide radici nella società provocando, al contrario, una brutale reazione. Insomma, il Trump II ha traghettato sulle sue rotte l’establishment americano, ha costruito un nuovo mainstream, ha cambiato il quadro politico nazionale e globale. Ma il rapido adeguamento dell’establishment economico finanziario americano ai mutamenti politici ci svela anche altri due aspetti spesso sottovalutati: il primo è che negli Stati Uniti la politica ha ancora un ruolo di guida rispetto alla società, l’economia si adegua ad essa e non viceversa; il secondo è che le istanze avanzate da Trump sono riuscite a penetrare in profondità nel sistema dei poteri.
È qui che la vicenda americana si interseca con quella europea, dove parimenti si sta determinando un ampio spostamento di potere ma paradossalmente ciò avviene con minore unità nelle classi dirigenti rispetto agli Stati Uniti e al tempo stesso con un livello di perentorietà inferiore nell’incedere del cambiamento politico. Ne è una prova il processo di istituzionalizzazione e conquista del potere da parte dei partiti della destra radicale europea. Un percorso che si snoda tra una prima fase di polarizzazione ed estremizzazione di questi movimenti e una conseguente drastica riduzione della loro carica innovativa e dirompente sul piano della prassi politica una volta conquistato il potere. L’esempio più fulgido in questo senso è quello di Giorgia Meloni, la quale ha fondato la propria ascesa politica sull’idea del sovranismo, di una riappropriazione della sovranità in ambito nazionale, sul conseguente euroscetticismo e su una forma di moderato nazionalismo. A seguito della vittoria delle elezioni politiche nel 2022, il sovranismo di Meloni è di fatto sparito. Non ve ne è più traccia nei discorsi della Presidente, nei programmi di governo, nei convegni della destra. Ciò è successo per una serie di motivi. Il primo è quello economico. Se si vuole governare nell’eurozona si deve mettere da parte l’idea di una sovranità politico-economica integrale. È un principio di ragion di Stato dovuto all’interdipendenza consolidatasi nelle istituzioni europee. Senza un buon bilancio, senza sostegno dei mercati sui titoli di Stato, senza seguire le regole europee si rischia di finire rapidamente in una spirale di crisi finanziaria e politica. Ma il sovranismo è finito anche sull’immigrazione, dal blocco navale si è passati agli accordi con i Paesi di partenza, poi al programma comune con gli altri Stati europei e infine all’esternalizzazione dell’accoglienza in Albania. Terzo, non si può essere sovranisti se non si è una grande potenza mondiale perché questo presuppone una sovranità politica forte. E in Europa non c’è più alcuna grande potenza tale da perseguire una sovranità integrale senza che i danni siano maggiori dei vantaggi.
Dunque gli stati europei non sono sovrani dal punto di vista militare, dove si riparano dietro l’ombrello della NATO e non appaiono, salvo i casi dei Paesi nell’orbita del confine russo, in grado di aumentare significativamente la quota della spesa militare sul PIL. E anche qui, in ogni caso, non c’è autonomia strategica sul piano dei prodotti e della tecnologia militare, la quale discende per gran parte dagli Stati Uniti o dalla collaborazione con Paesi extra-europei.
Non ci può essere sovranismo senza tecnologia, che oggi è uno degli assi portanti della sicurezza. Di qui il rischio di dipendenza da fornitori americani, si pensi a Starlink di Musk, per quanto riguarda la cybersicurezza e le comunicazioni satellitari. Ma se non ci può essere un recupero della sovranità nazionale anche a fronte della volontà politica, lo stesso si può dire per forme di “sovranismo europeo” o di “autonomia strategica”. Alla prova dei fatti, quest’ultima si è risolta in un nulla di fatto sia sul piano dei progressi nell’integrazione politica sia sul piano degli impulsi alla costruzione di campioni industriali continentali in grado di contenere o colmare il divario dagli Stati Uniti e dalla Cina nell’alta tecnologia e nella manifattura avanzata. Basti pensare a programmi inefficienti e ritardatari come Iris 2 nel satellitare o Gaia-X nel cloud per verificare l’impotenza della politica industriale europea di fronte ai concorrenti globali.
In questo scenario, sembra dispiegarsi il paradossale dramma europeo: i partiti moderati ed europeisti continuano a perseguire un’ideale integrazione europea che sul piano politico risulta allo stato attuale impossibile, ne derivano iniziative di policy troppo slegate dalla realtà (come alcune parti del Green Deal) che si trasformano in boomerang politici o in eccessivo attendismo nell’attuare i programmi che a sua volta si risolve nell’iper-regolazione e nella burocrazia più che nella concreta azione politica; i partiti sovranisti e nazionalisti dall’altro canto, mostrando un maggiore cinismo di fronte ai fallimenti e alla farraginosità dell’Unione Europea, sembrano disposti ad accettare quasi più di buon grado dei loro oppositori il ruolo dominante delle altre potenze mondiali rispetto ai nodi fondamentali del potere europeo e a garantire alle stesse un maggior accesso alle infrastrutture e alle forniture di servizi avanzati pur di evitare l’attesa di un Godot di Bruxelles a cui non hanno mai creduto. Questo “sovranismo impossibile” segna delle differenze all’interno delle varie famiglie della destra tra chi prediligerebbe un accresciuto vincolo esterno atlantico e chi invece ne preferirebbe uno russo o euroasiatico.
Sull’impossibilità del sovranismo politico sia nazionale che europeo, sull’arretratezza industriale e tecnologica, sul nanismo militare s’innesta il progetto trumpiano nel suo secondo capitolo. Un piano che non è isolazionista, come vuole la vulgata superficiale, ma semmai volto a proiettare un imperialismo rivisitato con la lente del realismo.
In questo contesto, l’Europa è percepita dal nuovo corso politico americano come il ventre molle dell’Alleanza atlantica, se da un lato va infatti incentivata a spendere in armamenti dall’altro è necessario per Washington controllare i nodi strategici delle infrastrutture e delle tecnologie che in assenza di forniture europee potrebbero finire ai cinesi. La catena dell’Impero si sta accorciando rispetto agli Stati-seguaci che fanno parte della sua alleanza per avere maggior presa in uno scenario internazionale dove i grandi attriti tra blocchi si mostrano in modo più grave ed evidente.
La punta di diamante, quella più visibile a livello internazionale, di questo progetto resta per ora Elon Musk. Egli non è soltanto l’ispiratore della destra internazionale, una definizione iperbolica di cui gran parte della sinistra europea si è convinta, ma per l’amministrazione Trump vorrebbe interpretare insieme ai suoi sodali dell’impresa ad alta tecnologia, per usare un’analogia storica, il ruolo di una nuova Compagnia delle Indie Orientali, la società privata di mercanti che ha permesso all’Impero Britannico di controllare i suoi possedimenti e sbarrare il passo agli avversari per quasi due secoli. È questo il modo anglo-americano di concepire la proiezione esterna del potere, quello che Michael Mann ha ribattezzato il “potere infrastrutturale”. Un’osmosi tra pubblico e privato, dove non arrivano le strutture governative allora si protendono le grandi aziende private quasi sempre risultanti in monopoli od oligopoli. L’interesse politico e l’interesse economico si contemperano, si influenzano, cooperano. D’altronde, JP Morgan non ha forse aiutato il governo americano nel trasferimento di potere economico e politico dall’Europa verso Washington, che c’è stato tra le due guerre, attraverso le sue manovre finanziarie sui titoli di Stato dei Paesi europei? E, ancora prima, i robber barons, i grandi industriali monopolisti di fine Ottocento e inizio Novecento a cui oggi molto somigliano i capitalisti digitali e tecnologici, non hanno forse, insieme ad aver accumulato fortune personali enormi spesso grazie al legame con la politica, contribuito ad accrescere il potere politico degli Stati Uniti?
L’impegno di Musk in politica estera va letto anche con questa lente storica. Da un lato le preferenze politiche del tycoon e della sua rete, dall’altro l’opportunità di essere utili al governo americano nel rafforzare la presa sugli alleati e di espandere il proprio mercato attraverso la possibilità di influenzare le regole europee e di ricevere commesse pubbliche in un continente dove nessuno oggi possiede le capacità per fare concorrenza.
È questa un’altra faccia dell’America first che integra il protezionismo. Se così è il sovranismo europeo è destinato al tramonto, almeno nella formula in cui è nato, anche se probabilmente continuerà a trionfare nelle urne. Ciò accade perché da un lato la sinistra europea oggi non sembra in grado di riconquistare l’elettorato perduto, quand’anche la carta dell’ambientalismo non ha prodotto i risultati sperati. Dall’altro perché i partiti moderati sono costretti, da un elettorato che li mette sotto pressione, a guardare a destra. È per questo che le conventio ad excludendum con grandi coalizioni sono sempre meno praticabili: i partiti di centrodestra e centrosinistra sono sempre meno forti e i primi iniziano a preferire, per evitare di perdere ulteriori voti, la trattativa con i partiti della nuova destra. È successo in Italia, in Olanda, in Austria. In Francia i Repubblicani sembrano meno ostili di un tempo a una possibile trattativa con il Rassemblement National, lo stesso può dirsi per i Popolari spagnoli rispetto a Vox. In parte è accaduto anche a Bruxelles, con il secondo mandato di Ursula von der Leyen molto attento a includere pezzi dei conservatori nella nuova formula della Commissione e della maggioranza parlamentare.
Queste analisi politiche vengono fatte anche dall’altro lato di governo e così nascono nuove trame politiche sofisticate. Non è un caso che Alice Weidel, leader di AfD, abbia utilizzato una conversazione con Musk, organizzata dal patron di X, sia per legittimarsi a livello globale sia per liquidare le accuse di nazismo e accreditarsi come movimento conservatore-libertario. Due termini palatabili per la propaganda dell’accelerazione reazionaria di Musk e Trump, ma che servono a smarcarsi dall’armamentario concettuale del nazionalismo e del sovranismo dal quale AfD ha pescato sino ad oggi. Anche Weidel, dunque, pur assestandosi su posizioni ancora radicali lascia intravedere una “strategia Meloni”. Come quest’ultima ha iniziato a smarcarsi dalle accuse di fascismo, la prima ha cominciato a cercare di allontanare il partito dalle nostalgie naziste. Come la premier italiana si è inventata per qualche tempo l’espediente del conservatorismo e del sovranismo, così Weidel si è buttata sul libertarismo. Certo ad oggi una moderazione di AfD è ancora frenata dalla conventio ad excludendum delle altre forze politiche tedesche ma nel futuro chi può dirlo. D’altronde Meloni, Wilders, Le Pen, l’FPO austriaco erano tutti considerati impresentabili fino a cinque anni fa e oggi o sono al governo del proprio Paese o potrebbero andarci presto senza oramai sorprendere nessuno.
La scomparsa del sovranismo, pur se avvenuta secondo un cinico disegno e oggetto di un abile travestimento per penetrare nelle istituzioni, potrebbe non essere una cattiva notizia perché molti partiti di destra radicale paiono aver dismesso i propositi più “sovversivi”. Prendere voti con una proposta sovranista e poi, negli anni, lasciarla evaporare è la via rapida, insieme allo scenario internazionale favorevole, attraverso cui la destra può giungere al potere dove non è ancora arrivata. Questo scenario s’interseca con i fatti internazionali e con gli obiettivi politici delle grandi potenze, in primis quella americana, e potrebbe portare a una diversa configurazione del potere europeo. Quella in cui la reazione alla crisi ventennale europea porta al potere il sovranismo in larga parte degli Stati, ma questo per ragioni di realpolitik, di compromesso con le forze politiche moderate e di limiti obiettivi della struttura della società europea, porta i Paesi del Vecchio continente a una condizione ancor più “satellitare” rispetto a Washington che in passato.