Scritto da Francesco Medico
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
L’articolo di Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice, comparso sul n. 6/2019 della rivista «il Mulino» rappresenta un’operazione di esercizio intellettuale e politico molto interessante di due figure che oggi rivestono ruoli di rilievo sulla scena pubblica nazionale. Ma non è solo la posizione pubblica degli autori che giustifica questo interesse, ma piuttosto il calibro delle riflessioni che questo lavoro cerca di portare avanti e la sua evidente volontà di riaprire una stagione che forse nella classe politica e intellettuale italiana si era spenta da tempo: quello di un esercizio di cultura politica engagée che deve accompagnare e nutrire l’azione di governo.
Una scommessa coraggiosa e ambiziosa quella di voler presentare un “manifesto” per i tempi nuovi della sinistra e che nel suo contenuto è, a mio parere, soggetta a critiche ma da cui non si può prescindere dal confrontarsi, quantomeno nel tentativo di riaprire spazi di dibattito e contaminazione politica in quel variegato mondo che è la sinistra italiana. «La campana è suonata» ci dicono iconicamente i due autori e non si può che accogliere la sfida.
I punti centrali della tesi presentata possono essere considerati due: il tentativo di un “nuovo” matrimonio tra socialismo e liberalismo (le due culture dominanti del XX secolo) nel nuovo contesto della globalizzazione e una riconcettualizzazione del ruolo dello Stato.
L’idea che emerge chiara è la volontà di non rappresentare queste due culture politiche come conflittuali o opposte nella storia della modernità occidentale, ma piuttosto complementari in cui il socialismo svolgerebbe quasi una funzione escatologica di emancipazione del liberalismo da sé stesso e dalla sua deriva neoliberale. Il neoliberismo è considerato infatti come una degenerazione della cultura liberale, un suo prodotto reietto che si pone come obiettivo ultimo l’assorbimento della società nel mercato. L’operazione intellettuale è raffinata e sulla critica al demone del neoliberismo non c’è nulla da obiettare ma è il tentativo di fusione a freddo che pare mostri un significativo errore di analisi. Il riferimento storico a cui si rifanno gli autori è chiaro e evidente e prova a riecheggiare un eco di un passato non troppo lontano storicamente ma che ci sembra politicamente distante ere geologiche: i Trenta gloriosi.
È lì che si vorrebbe tornare, a quel periodo dopo la Seconda guerra mondiale in cui sono apparse «le società più prospere, colte e libere che mai si siano avute in tutta la storia umana» e in cui avvenne quel famoso incontro tra cultura liberale e socialista che è stato identificato con varie etichette dagli intellettuali occidentali – assecondando un po’ tutti i gusti – come capitalismo democratico, embedded liberalism, costituzionalismo democratico, Welfare State, socialdemocrazia, ecc.
Quei Trenta gloriosi, che per molti hanno rappresentato una fulgida età dell’oro (su cui non ci si pronuncerà in questo scritto ma si darà come affermazione condivisa), hanno rappresentato l’apogeo di uno scontro tra soggetti e classi sociali che si è costituzionalizzato in molte costituzioni continentali europee in una forma che Carl Schmitt avrebbe chiamato «compromesso dilatorio». Questo tipo di evoluzione e incontro ha portato a quello che si è definito una democratizzazione del capitalismo che si è inverato in una radicale trasformazione della struttura sociale della vecchia democrazia liberale, che ha dovuto scendere a patti con il suo opposto: la classe operaia.
Questo è avvenuto sulla base di due condizioni – una esogena e una endogena – presenti all’epoca che, con un po’ di approssimazione, potrebbero essere così riassunte: la presenza del blocco sovietico che premeva e rappresentava un altro mondo possibile (un fantasma) rispetto a quello che veniva definito il “mondo libero” e la forte pressione interna dei movimenti operai nazionali europei, che in forme diverse e variegate erano riusciti ad ottenere l’entrata nello Stato da parte delle vecchie classi egemoni liberali attraverso il riconoscimento dei diritti sociali e del suffragio universale.
In questo orizzonte storico e politico nasce quell’incontro che cambia il volto delle costituzioni europee, inserendovi il paradigma della democrazia sociale che entra così di diritto nel patrimonio valoriale del costituzionalismo. La comparsa dei diritti sociali e del riconoscimento legale degli strumenti di pressione democratica rappresentano dunque questa grande vittoria storica della cultura socialista nei confronti del capitalismo e della democrazia liberale. Ma questa vittoria – come tutte verrebbe da dire – non è assoluta, ma relativa e – come dicevo prima – figlia di un compromesso.
Ma sul come si sia realizzato questo compromesso vale la pena riflettere un momento perché rappresenta uno dei nodi della discussione, a mio parere. Quell’incontro tra cultura socialista e liberale aveva portato a quei frutti di riassetto dei rapporti di forza nella società proprio perché aveva introiettato nella costituzione quei due modelli come oppositivi e dialettici.
È la logica dell’opposizione che ha permesso quelle conquiste sociali e quella generale redistribuzione dei poteri avvenute negli anni del compromesso socialdemocratico. Era chiaro infatti come quelle due culture fossero politicamente nemiche e che il motore di processualità democratica dovesse passare dall’istituzionalizzazone di questa opposizione di visioni politiche mai risolubile definitivamente.
Non si trova traccia nella costituzione italiana di nessun tentativo di sussunzione di una cultura politica nell’altra o un tentativo di fusione a freddo, o peggio ancora di «superamento del liberalismo dall’interno». È qui che mi pare si trovi l’errore di analisi degli autori. Non pare corretto infatti voler partire da una riflessione a sinistra da una condizione di soggezione della cultura socialista rispetto a quella liberale, in cui non è solo questione di accenti ma anche la stessa sostanza pare eccessivamente squilibrata: c’è molto poco di socialismo e troppo di liberalismo. E questo – oltre a tanti altri problemi più strutturali nell’analisi della società – non è un buon punto di partenza, neanche se inteso solo in senso strategico, se l’obiettivo che ci si propone è di creare le condizioni per ingenerare una reale trasformazione (che come sostengono giustamente Fana e Gabbuti – parafrasando Tronti – necessita un pensiero della rivoluzione quantomeno à coté) ma rischia di rivelarsi perdente.
Non si trova lì in definitiva la “fortuna” del compromesso socialdemocratico che tutt’al contrario accettava di istituzionalizzare il conflitto capitale – lavoro, per l’appunto in ottica di entità radicalmente contrapposte. La logica che prevalse era quella dell’opposizione, non quella dell’inglobamento. Il conflitto politico come motore di democrazia è la giusta prospettiva, insomma.
Un compromesso costituzionale soggetto però – come si diceva – a differenti virtualità politiche di avanzamento e regressione proprio perché questa nuova ondata di costituzioni democratiche – tra cui la nostra rientra a pieno titolo – si sono limitate a istituzionalizzare il conflitto sociale, non a risolverlo: la reversibilità era sempre possibile. Da qui parte la seconda riflessione che vorrei sviluppare.
L’insinuazione del neoliberismo e la fine dei Trenta gloriosi si è potuto realizzare infatti sia per un generale cambiamento dei rapporti di forza (esogeni e endogeni) – intesi come trasformazione dei processi produttivi e modificazione delle culture politiche egemoni su cui gli altri contributi hanno già detto meglio di me – ma anche per una reversibilità normativa che la nostra costituzione – intesa come medium del conflitto sociale – aveva lasciato aperto. E in questo secondo elemento, c’è un aspetto da non sottovalutare: la clausola costituzionale dell’art. 11 Cost. che ha permesso la partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea.
La torsione neoliberale è stata possibile – da un punto di vista strettamente costituzionale – perché quell’ordinamento sovranazionale, che si è da sempre posto come suo sollen il fine del mercato come veicolo di pace nello spazio pubblico europeo e che si è sempre nutrita della retorica dei democracy failures e della crisi dello Stato come soggetto non in grado di agire in un contesto globalizzato, ha comportato una rilettura e una trasformazione di quell’originario conflitto tra capitale e lavoro inscritto nella nostra costituzione. Le quattro libertà fondamentali dei Trattati – di persone, ma soprattutto di servizi, di merci e dei capitali – assunte a metavalore di giudizio degli interventi redistributivi dello Stato, unita alla cornice di governance economia europea messa a punto in via definitiva durante la crisi dei debiti sovrani (Fiscal compact e ESM tra tutti), hanno creato una cornice disciplinare depoliticizzata e un vincolo esterno in cui la nuova razionalità economica si pone come nuova regola aurea neoliberale. Questa nuova regola aurea viene così costituzionalizzata, imponendosi alla logica del conflitto sociale della nostra costituzione e rimettendo in questione quegli equilibri assunti nel periodo dei Trenta gloriosi.
Allora è da qui che dovrebbe ripartire una riflessione a sinistra, che prenda atto di questo nuovo assetto globale o quantomeno regionale europeo, che riparta sicuramente da una nuova ricontettualizzazione dell’intervento dello Stato. Questo non deve essere considerato mero strumento-macchina o istituzione neutra ma piuttosto à la Poulantzas come campo dei rapporti sociali e quindi di lotta. Non tralasciando allo stesso tempo però il piano di contestazione a livello dello spazio pubblico europeo, che dovrebbe costruirsi attorno ad una critica contro il modello ordoliberale della concorrenza e della libera circolazione (soprattutto dei capitali) a tutti i costi.
Bisogna preoccuparsi in altri termini di portare avanti un doppio movimento di riflessione e azione politica – che passi dall’interno e dall’esterno della dimensione nazionale – e che cerchi di aprire nuovi spazi di politicità, che soprattutto sul piano dello spazio pubblico europeo non può passare da una logica dell’abbandono, nascondendosi dietro facili richiami sovranisti. Non esistono spazi politici completamente saturi e nonostante l’attuale assetto ideologico e costituzionale dell’UE, nulla impedisce di immaginare che quella torsione possa essere invertita e ri-direzionata. La costituzione materiale dello spazio pubblico europeo può essere modificata e parte della rinascita di una sinistra passa da questo dato, a mio parere.
L’attuale congiuntura storica causata da questa emergenza sanitaria può – se ben interpretata – rappresentare infatti un’importante occasione per mostrare le contraddizioni dell’attuale assetto del capitalismo e della governance neoliberale, in cui uno spunto importante può venire da questa nuova attenzione al ruolo dello Stato come vettore di protezione sociale e come spazio di redistribuzione dei poteri. Il rischio però di una definitiva torsione autoritaria del capitalismo e di un abbraccio mortale tra neoliberismo e autoritarismo – soprattutto nel continente europeo – che passi da una nuova stretta dello Stato in quello che viene definito authoritarian liberalism, è forte. Ma come sempre e più che mai nelle crisi, è sempre questione di politica e la sinistra – in tutte le sue nervature – non può che giocare la sua parte.