Scritto da Luca Picotti
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Il sistema di economia mista che ha guidato l’Italia nella sua crescita nel dopoguerra agli inizi degli anni Novanta ha visto esaurirsi la propria spinta positiva e, anche a causa dell’integrazione europea, non è sopravvissuto alla radicale riscrittura dell’infrastruttura giuridico-economica del Paese avvenuta alla fine del secolo. Da quel decennio di transizione, caratterizzato da profonde riforme (concorrenza, settore bancario, mercati finanziari), non è però emerso un capitalismo privato capace di competere quantomeno con i grandi attori europei: le privatizzazioni sono state spesso parziali, non si sono formati modelli di public company in stile anglosassone e, nei fatti, la grande impresa – capace di innovare, espandersi e gareggiare a livello internazionale – ad oggi rimane quella a partecipazione pubblica (Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, etc.)[1]; il grande capitalismo privato o non si è sviluppato o è rimasto ancorato a poche realtà familiari. Nel complesso, si può dire che, nonostante le riforme, non sono venuti a crearsi dinamici mercati finanziari o comunque strutturati mercati del capitale di rischio.
È utile al fine di comprendere queste contraddizioni del capitalismo italiano – il cui pendolo disfunzionante oscilla tra Stato e mercato senza trovare un equilibrio virtuoso – porre l’attenzione su alcuni aspetti attinenti al cosiddetto mercato del controllo societario[2]: in particolare, le prassi, gli istituti e i diversi interventi del legislatore volti a limitare la contendibilità delle imprese italiane o rafforzare le posizioni di controllo di alcuni grandi azionisti, in una logica di protezionismo societario indice di una certa fragilità sui mercati dei campioni nostrani.
Se nella stagione dello Stato imprenditore problemi di contendibilità o ingressi stranieri in imprese strategiche non si ponevano, con la privatizzazione sostanziale degli enti pubblici economici (D.L. 31 maggio 1994, n. 332, Norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni, convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 1994, n. 474) ci si era iniziati a domandare come mantenere egualmente sotto l’orbita pubblica le imprese in via di privatizzazione, di cui gran parte era attiva nei settori essenziali dell’economia. La soluzione è arrivata con la trasposizione dell’istituto anglosassone della golden share nel Decreto poc’anzi citato: negli statuti delle imprese privatizzande fu inserita una azione speciale conferente al Governo determinati poteri che gli garantivano di mantenere, nonostante la dismissione delle partecipazioni, un controllo di fatto sull’impresa – poteri di gradimento sulle acquisizioni e sulla stipula di patti parasociali, poteri di veto su determinate delibere societarie e poteri di nomina di amministratori. In questo modo, per le maggiori società italiane (Enel, Telecom, Eni, etc.) qualsivoglia operazione significativa volta a modificare gli assetti proprietari o l’organizzazione aziendale sarebbe dovuta passare per il vaglio positivo del Governo.
Questa disciplina rappresenta un chiaro esempio di come l’Italia abbia affrontato sin dal primo momento la stagione delle privatizzazioni. In ogni caso, l’introduzione di azioni speciali non è stata una peculiarità nostrana, anzi: praticamente tutti i paesi europei ne hanno fatto uso. Solo l’intervento delle condanne comminate dalla Corte di Giustizia UE ai diversi stati membri – per alcuni profili di incompatibilità tra i poteri speciali e le libertà economiche previste dai Trattati – ha fatto sì che queste discipline protettive venissero notevolmente ridimensionate.
Negli anni, non si sono comunque fatti attendere altri interventi guidati da logiche prettamente difensive-antiscalata. Ad esempio, un caso di particolare interesse riguarda il D.L. 25 maggio 2001, n. 192, recante Disposizioni urgenti per salvaguardare i processi di liberalizzazione e privatizzazione di specifici settori dei servizi pubblici, adottato con tempestività per (probabilmente) impedire l’ingresso nel nostro mercato energetico delle due società francesi EDF e Gaz De France; ai sensi del Decreto, veniva prevista infatti, per le imprese operanti nei settori dell’elettricità e del gas, «la sospensione automatica dei diritti di voto eccedenti la soglia del 2 per cento quando tali partecipazioni fossero acquisite da soggetti non quotati in mercati finanziari, titolari nel proprio mercato nazionale di una posizione dominante quando controllati direttamente o indirettamente da uno Stato o altre amministrazioni pubbliche»[3]. Misura che non è ovviamente sfuggita alla Commissione europea, ma tanto è bastato per dare un segnale ai competitor francesi.
Qualche anno dopo, con la L. 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006), il legislatore ha voluto introdurre dei diritti speciali in capo all’azionista pubblico in caso di offerte pubbliche di acquisto ostili. Più nello specifico, si trattava di una poison pill (pillola avvelenata), istituto noto nei mercati finanziari – soprattutto anglosassoni – e che nel caso di specie consentiva all’azionista pubblico, in caso di Opa ostile avente come bersaglio società dallo stesso partecipate, di deliberare un aumento di capitale, in modo da accrescere la propria quota di partecipazione e scongiurare così il tentativo di acquisizione.
Ancora più emblematico è il D.L. 34/2011, emanato in piena crisi economica e che ha esteso alcune prerogative di Cassa Depositi e Prestiti, rendendola sempre di più una sorta di holding di salvataggio al pari dell’ex IRI. Con l’art. 7, è stata infatti prevista la possibilità per CDP di assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale, individuate in ragione della strategicità del settore di operatività, dei livelli occupazionali, dell’entità di fatturato o delle ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese[4]; con successivo decreto del MEF dell’8 maggio 2011, sono stati individuati come strategici i settori relativi a difesa, sicurezza, trasporti, comunicazioni, energia, assicurazioni, intermediazione finanziaria, ricerca, alta tecnologia e altri pubblici servizi[5]. Tra questi, anche la realtà aziendale di Parmalat (per espressa nota di Palazzo Chigi), in modo – qui una delle probabili ragioni dell’intervento – da consentire a CDP di acquisire partecipazioni rilevanti nella stessa al fine di ostacolare la scalata che aveva in quel frangente avviato la (come sempre) francese Lactalis[6].
Le stesse tendenze sono riscontrabili con specifico riferimento alle società quotate, soggette alla particolare disciplina del TUF (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, D.lgs. 58/1998), terreno in cui opera la disciplina del mercato del controllo societario nella sua accezione più puntuale. D’altra parte, la rigidità del capitalismo italiano appare in tutta evidenza proprio con riguardo ai mercati regolamentati – dato il numero relativamente basso di società quotate e, in generale, la scarsa dinamicità della sua borsa.
Innanzitutto, va sottolineato come alcuni istituti tipici del mercato del controllo societario volti a favorire la contendibilità delle imprese, come la passivity rule e la breakthrough rule, siano stati ricondotti negli ultimi anni all’autonomia statutaria delle singole società. La breakthrough rule (art. 104 bis TUF), che prevede nel caso di offerta pubblica d’acquisto la neutralizzazione di vincoli alla trasferibilità delle azioni o di altri meccanismi interni di governo societario potenzialmente di ostacolo all’acquirente, è stata resa facoltativa, in una logica di opting-in (se la società lo vuole, la inserisce nello statuto). La passivity rule (art. 104 TUF), che impedisce agli amministratori della società target – salvo autorizzazione assembleare – di adottare misure difensive sempre nel caso di offerta pubblica, da imperativa è stata resa derogabile secondo un meccanismo di opting-out, per cui la società può decidere di escluderla statutariamente; è interessante notare come questo cambio di prospettiva sia avvenuto proprio nel 2008-2009, nel pieno della crisi economica e per fare fronte ai potenziali rischi di shopping straniero favorito dai corsi azionari depressi. In sostanza, anche le misure più coerenti con l’obiettivo di contendibilità delle imprese hanno dovuto cedere alle istanze di chiusura volte a rendere meno scalabili le imprese nazionali[7]. Infine, due altri istituti degni di nota sono quello del voto maggiorato e la cosiddetta norma anti-scorrerie. Il primo, introdotto con il D.L. 24 giugno 2014, n. 91, ha permesso di inserire negli statuti delle società con azioni quotate nei mercati regolamentati clausole che prevedono un premio per gli azionisti fedeli, i quali possono vedersi attribuito un voto doppio relativamente al titolo posseduto continuativamente per almeno 24 mesi. La finalità è chiara: facilitare il mantenimento del controllo all’azionista storico; non a caso, ha rappresentato un modo per “convincere” diverse società familiari o comunque ad azionista dominante di maggioranza – prima restie – a quotarsi. Il secondo concerne il comma 4 bis dell’art. 120 del TUF, inserito con D.L. 148/2017, proprio in concomitanza della opaca scalata su Mediaset della francese Vivendi[8]: con la disposizione in oggetto, vengono aggravati gli oneri informativi e di trasparenza per il soggetto scalatore – proprio per questo è stata chiamata norma anti-scorrerie – il quale, superate le soglie del 10%, 20%, 25% di partecipazione al capitale con diritto di voto, è tenuto a comunicare all’emittente, alla Consob e al pubblico gli obiettivi che intende perseguire nei sei mesi successivi.
A questa rassegna di alcuni tra gli istituti, norme e prassi più indicativi di come il mercato del controllo societario italiano abbia negli anni visto intensificarsi i meccanismi difensivi, si aggiunge la (imponente e in questa sede non trattabile) disciplina del golden power (D.L. 21/2012), nata dalle macerie della golden share. Il livello più acuto di protezionismo societario deriva proprio da questa peculiare normativa, che – in sintesi – prevede la possibilità per il Governo di opporsi o sottoporre a specifiche condizioni determinate operazioni societarie rilevanti (acquisizioni di controllo, delibere di fusione etc.) idonee a pregiudicare l’interesse nazionale e poste in essere da imprese operanti nei settori della sicurezza e della difesa nazionale (in cui rientra anche quanto concerne il 5G) o aventi asset strategici nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni e ad alta intensità tecnologica. Da qui, i diversi provvedimenti assunti negli anni dal Governo italiano, tra cui, per rimanere in tema di rivalità italo-francese, il veto nel 2017 (il primo dall’introduzione della disciplina) all’acquisizione da parte del gruppo francese Altran della società Next s.r.l.; oppure, il tanto discusso, mediaticamente ma anche in dottrina, intervento governativo (con specifiche condizioni, sempre nel 2017) nella lunga e tortuosa vicenda che ha visto coinvolte Tim e la francese Vivendi.
In definitiva, da un punto di vista più squisitamente politico, ci sono tre aspetti che meritano di essere menzionati: in primo luogo, l’Italia ha affrontato la fase di transizione degli anni Novanta sotto la spinta dell’emergente ordinamento comunitario e senza interrogarsi a fondo sulla compatibilità del nuovo modello economico – concorrenza, mercati finanziari, arretramento dello Stato – con le peculiarità culturali, politiche ed imprenditoriali proprie del Paese; in secondo luogo, è interessante notare come la tentazione protezionista italiana in ambito di mercato del controllo societario si sia sempre manifestata in modo particolarmente accentuato nei rapporti con la vicina Francia, sintomo di una rivalità profonda che mette tra l’altro in luce alcune contraddizioni interne al progetto europeo; infine, è possibile ravvisare come il deflagrare di misure difensive finalizzate a ridurre la contendibilità delle imprese aumenti radicalmente nei momenti di crisi: così nel 2008-2009 e così oggi, in cui, al di là dell’evento pandemico, nuove tensioni geo-politiche e tecnologiche hanno spinto i diversi stati ad assumere posizioni maggiormente difensive in tema di rapporti commerciali.
Sia chiaro: rigidità e contraddizioni nel mercato del controllo societario non riguardano solo l’Italia. Francia e Germania, ad esempio, non si astengono di certo dal ricorrere ai più svariati interventi difensivi. Quello su cui però ci si dovrebbe focalizzare è: cosa intende fare l’Italia del proprio capitalismo? Aprirsi ai mercati finanziari e sviluppare una cultura della contendibilità e della public company in stile anglosassone? O rimanere arroccata nelle misure difensive? E, se quest’ultima è l’opzione, vuole farlo con cognizione di causa, scegliendo di valorizzare le società a partecipazione pubblica e accettando un capitalismo privato costituito da PMI e multinazionali tascabili, o rimanendo in una situazione intermedia di stallo?
È dagli anni Novanta che queste domande accompagnano il nostro Paese. Al momento, non sembra esserci una bussola, per cui ci si ritrova a dover convivere con una realtà costituita da alcune buone società a partecipazione pubblica non inserite però in una strategia organica, dei mercati finanziari poco sviluppati e particolarmente rigidi in cui, tra patti parasociali, partecipazioni reciproche e voti maggiorati operano (se operano) società perlopiù a controllo familiare o comunque con socio dominante di maggioranza, e una capillare rete di piccole e medie imprese a fare da cornice. Alla luce di questo, risulta necessario capire come agire: accettare la peculiarità italiana e provare a renderla un punto di forza, o spingere sulla strada intrapresa a partire dalla fine del secolo scorso, correggendo gli errori commessi e perfezionando quanto è stato fatto in modo parziale; o, ancora, perseguire una via di mezzo, che sia però più virtuosa e coerente di come non lo è ora.
L’unica certezza è che l’interregno in cui viviamo da trent’anni non sembra essere una soluzione auspicabile.
[1] Si veda l’intervento di U. Pagano, Quale modello per il capitalismo italiano?, «pandorarivista.it», 16 gennaio 2021.
[2] In questo contributo, utilizziamo la nozione di mercato del controllo societario in un’accezione più ampia e generale, non circoscritta alla disciplina dei mercati finanziari ma estesa a tutte le fattispecie concernenti controllo e contendibilità, quindi anche alle diverse barriere formali o meccanismi affini. Sul tema si veda l’ottimo lavoro di M. Cistaro, Il mercato del controllo societario. Note per una teoria generale della libera concorrenza, Cedam 2015.
[3] Cfr. R. Magliano, Neo colbertismo domestico e misure antiscalata, in Dir. comm. int., 2012.
[4] Cfr. C. San Mauro, La disciplina della nuova golden share, in «Federalismi», 2012.
[5] Al di fuori dei settori sopra indicati, sono considerate di rilevante interesse nazionale le società che possiedono un fatturato annuo netto non inferiore a 300 milioni di euro e un numero medio di dipendenti nel corso dell’ultimo esercizio non inferiore a 250 (qualora rientri nel 20% di tali valori, l’attività della società deve risultare rilevante in termini di indotto e di benefici del sistema economico-produttivo del Paese, anche in termini di presenza sul territorio di stabilimenti produttivi). Nel giugno del 2011, il CDA di Cassa Depositi e Prestiti ha approvato la costituzione del Fondo Strategico Italiano, una apposita società per azioni finalizzata all’assunzione di partecipazioni strategiche, con statuto approvato il successivo 27 luglio.
[6] Cfr. R. Magliano, Neo colbertismo domestico e misure antiscalata, cit. p. 654.
[7] Del resto, non rappresenta altro che una logica conseguenza delle difficoltà europee nell’adottare una direttiva sull’Opa (2004/25), considerata la delicatezza del tema del mercato del controllo societario e le esigenze protezionistiche dei diversi stati membri
[8] Cfr. L. Baldacci, La “difesa dell’Italianità”, in Giur. comm., 2020.