“Il Sud, l’Italia e l’Europa” di Emanuele Felice
- 04 Novembre 2019

“Il Sud, l’Italia e l’Europa” di Emanuele Felice

Recensione a: Emanuele Felice, Il Sud, lItalia e lEuropa. Diario civile, il Mulino, Bologna 2019, pp. 280, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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In Il Sud, lItalia e lEuropa. Diario civile, edito da il Mulino, lo storico dell’economia Emanuele Felice propone al lettore una cronaca politica ed economica degli ultimi cinque anni, ri-organizzando in tre blocchi tematici – il Sud, l’Italia e l’Europa – gli articoli scritti dal gennaio 2014 all’estate del 2018 per diverse testate italiane, tra cui La Stampa e la Repubblica. Le pagine ripercorrono i travagli della politica interna italiana, dall’apogeo di Renzi al governo giallo-verde, e le grandi questioni europee ma non solo, spaziando quindi dalla Brexit al Medio Oriente, dalla Catalogna alla Cina. La peculiarità del volume risiede nella possibilità di ri-leggere e ri-vivere le impressioni, le analisi e i commenti di un intellettuale dinanzi ai terremoti politici degli ultimi anni, seguendone gli sviluppi attraverso le sue lenti. In questo modo si entra in contatto con una prospettiva interessante, proveniente sì da uno specifico mondo culturale, quello progressista e riformista, ma che andrebbe letta a prescindere, quantomeno per discuterla e, se necessario, criticarla. Ogni diario civile, come Felice battezza questo volume, muove da una Weltanschauung squisitamente personale; in questo caso, le premesse dalle quali nasce l’idea della pubblicazione concernono lo stato precario di salute della democrazia e dell’umanesimo liberale. Per citare direttamente l’Autore: «Quell’eccezionale colpo d’ala (nel benessere e nei diritti), impresso al volo per millenni radente dell’emancipazione umana, si è spezzato? Com’è potuto accadere?». Le pagine del libro provano a mettere in luce le cause di questa frattura, sostenendo come sia essenziale, per il benessere di tutti, ritrovare la rotta perduta.

Il primo blocco tematico riguarda il Sud, argomento centrale negli studi di Felice – autore del fortunato e discusso Perché il Sud è rimasto indietro (il Mulino 2013). Negli articoli che si susseguono risulta evidente l’obiettivo dell’Autore: combattere e superare la logica degli opposti pregiudizi che inquina da decenni il dibattito sul Mezzogiorno; «[…] da un lato c’è chi pensa che i meridionali siano atavicamente condannati all’arretratezza, dall’altro c’è chi favoleggia di un’esistente floridezza borbonica e attribuisce tutte le colpe ai colonizzatori settentrionali» (p.31). Il Sud, regione che fa due volte gli abitanti della Grecia o del Portogallo, è la più grande area in ritardo di sviluppo di tutta l’Europa occidentale. Le ragioni storiche, individuabili soprattutto nell’arretratezza dell’assetto sociale e istituzionale, vengono presentate da Felice attraverso un’analisi di largo respiro capace di evidenziare le diverse transizioni che hanno interessato la regione: in particolare, se a metà dell’Ottocento questa era già indietro rispetto al Nord, il distacco non era così marcato ed è invece cresciuto in seguito con l’accelerazione del triangolo industriale, facilitata dal minor tasso di analfabetismo e dagli assetti sociali-istituzionali più moderni; vi è stato poi un importante periodo di convergenza, tra gli anni Cinquanta e Settanta, grazie ad un utilizzo efficace della Cassa del Mezzogiorno nella sua fase iniziale, secondo una strategia top-down (operante quindi dall’alto) volta a realizzare infrastrutture e concedere finanziamenti industriali – con la speranza che assieme alla struttura economica si sarebbe trasformata anche la società. In una seconda fase, invece, la Cassa ha perduto la capacità di incidere: «sottoposta a crescenti pressioni politiche, gli aspetti assistenziali hanno via via preso il sopravvento su quelli produttivi […] in questo modo si sono creati incentivi distorti, i quali hanno alterato le condizioni di contesto civili e sociali del Mezzogiorno – e naturalmente anche quelle economiche – a scapito dell’imprenditorialità e del merito, e a favore della rendita […] Di questo fallimento, la responsabilità va attribuita in primo luogo alle classi dirigenti meridionali. Non è un caso che gli sprechi siano aumentati negli anni Settanta dopo la creazione delle regioni, le quali a un certo punto, con la legge 183 del 1976, sono entrate direttamente anche nella gestione della Cassa» (p.22). In seguito, con la crisi petrolifera e le profonde trasformazioni economico-industriali degli anni Ottanta, il Sud ha smesso di convergere, rimanendo indietro su tutti i maggiori indicatori macroeconomici e sociali.

Felice nei suoi numerosi articoli passa in rassegna i maggiori problemi del Sud: dalla demografia, gravata dalle poche nascite e dall’emigrazione di capitale umano, all’università, dove la logica del territorio prevale su quella del merito (si pensi alle pochissime assunzioni di docenti non meridionali e non italiani), passando per il degrado del discorso pubblico meridionale, caratterizzato sempre di più da una narrazione identitaria e autoassolutoria sulle colpe dell’arretratezza. Sono pagine molto importanti, lucidissime nell’analisi e capaci di mostrare le maggiori contraddizioni del Mezzogiorno.

Infine, vi è la constatazione amara dell’occasione perduta con il governo Renzi, emerso come rottamatore e modernizzatore ma all’atto pratico incapace di attuare un piano di lungo periodo per il Sud, di capovolgere le logiche clientelari del meridione e dare vita ad una classe dirigente di livello. Il problema principale del Mezzogiorno, secondo Felice, è proprio questo: il perdurare del clientelismo e delle misure-tampone, quando servirebbero invece una nuova classe dirigente e delle politiche strutturali.

Il volume prosegue quindi con gli altri due blocchi tematici. Per quanto concerne l’Italia, l’Autore individua – attraverso vari articoli molti dei quali strettamente legati alle specifiche politiche del governo Renzi[1] di quegli anni – le cause strutturali del declino economico italiano, dall’inefficienza del sistema amministrativo/giudiziario allo specialismo delle piccole aziende, passando per i bassissimi investimenti in ricerca e sviluppo. Con queste condizioni di partenza, a cui va aggiunto il peso del debito pubblico, l’Italia ha subito maggiormente i danni della crisi del 2008 – si pensi che tra il 2008 e il 2014, a prezzi costanti, il reddito italiano è diminuito del 10%, quello del resto dell’eurozona è invece aumentato del 2%. «Insomma, in Italia la crisi del 2008 è stata il detonatore del declino. Che si era avviato in maniera meno appariscente già da un decennio, trascinando a poco a poco il nostro Paese lontano dal “centro”. Declino di produttività, di reddito, di benessere. L’inefficienza della burocrazia (amministrazione, fisco, giustizia) e gli scarsi investimenti in istruzione e ricerca aumentano i costi e ostacolano l’innovazione; il sistema ingessato incoraggia la ricerca di posizioni di rendita, attraverso favori e clientelismo, anziché la concorrenza e il merito. All’alba del nuovo secolo, tutto ciò si salda con l’incongruenza del modello di sviluppo seguito fino ad allora: con la moneta unica, e nell’arena globale, la tradizionale strategia di competere all’estero con la svalutazione non è più possibile […] Insomma, motivi strutturali ed errori di politica economica si rafforzano a vicenda. Siamo diventati l’anello debole dell’eurozona, quello che risente maggiormente della congiuntura» (p.161). A queste problematiche di carattere strutturale, si aggiunge la questione sociale: Felice cita gli studi di Franzini sulle disuguaglianze, i dati sulla povertà e sul lavoro precario, tratteggiando un panorama poco sereno esacerbatosi con la crisi; l’Autore parla di radici economiche del populismo, evidenziando come il ceto medio poco qualificato, i piccoli commercianti e i colletti blu, avendo visto seriamente intaccato il benessere conquistato dalla generazione precedente, si siano indirizzati verso i partiti che più ascoltavano le paure dovute all’insicurezza economica (e sociale).

In questo contesto, di crisi economica, sociale e culturale, il riformismo, scrive Felice, è ad un bivio: o si prende carico dei problemi strutturali e sociali del Paese, con una nuova classe dirigente e una cultura politica più solida, o è destinato a sparire.

Lo stesso riformismo serve, secondo l’Autore, all’Europa, cui vengono dedicate le ultime pagine. La necessità di una intelligence europea, di investimenti pubblici – considerati i limiti della politica monetaria – e di un governo della globalizzazione interessano direttamente l’Europa come una regione avanzata capace, o quantomeno potenzialmente capace, di interloquire con le grandi potenze (Usa, Cina etc.). All’interno delle numerose turbolenze geopolitiche (Medio Oriente, Crimea, etc.) e delle principali questioni del presente manca la voce comune di un’Europa unita. Proprio questa mancanza di unità rappresenta un fattore determinante nella crisi attuale delle democrazie europee: per ora ci troviamo dinanzi a degli stati europei uniti da una moneta e disuniti in tutto il resto. Su questo bisogna lavorare, ci dice Felice in conclusione del suo diario civile:

«L’Europa è l’area del mondo che maggiormente ha saputo coniugare benessere e diritti […] Ma un tale disegno è oggi sotto attacco, anche per gli errori della classe dirigente occidentale negli ultimi trent’anni. Da qui nasce la crisi delle democrazie liberali. Che però, dobbiamo esserne consapevoli, sono quanto di meglio abbiamo avuto in tutto l’arco della storia umana, quanto di meglio ragionevolmente potremo avere domani: in termini di reddito, di libertà, di diritti. Di felicità possibili, in una società plurale» (p.263).

In un’epoca di grandi trasformazioni, dove capitalismo e democrazia, sostiene l’Autore, non sembrano più percorrere la stessa strada – con un capitalismo sempre più indifferente ai diritti dell’uomo – difendere l’umanesimo liberale rappresenta una necessità; considerate poi le implicazioni del progresso tecnologico, definito da Felice come una sorta di Giano bifronte, portatore sì di grandi opportunità ma, se mal adoperato, possibile fonte di scenari distopici, risulta inevitabile schierarsi e scegliere una delle due visioni del mondo che si profilano all’orizzonte: quella della democrazia liberale, dove capitalismo e diritti dell’uomo convivono, o quella dei regimi illiberali (indifferenti ai diritti dell’uomo) e delle autocrazie come la Cina – dove, appunto, il progresso tecnologico mal adoperato e irrispettoso dei diritti dell’uomo può condurre a scenari distopici e orwelliani. Su questi temi, sostiene Felice, si giocherà il futuro delle nostre democrazie.

Le pagine di questo volume, in particolare – a parere di chi scrive – quelle sul Sud, propongono una preziosa lettura sia dei problemi storici dell’Italia che di quelli più recenti. Gli articoli di Felice mantengono una intrinseca coerenza e seguono un filo logico preciso, capace di mostrare al lettore l’evolversi dei principali avvenimenti degli ultimi anni. Nel complesso, il libro rappresenta il lavoro di analisi e riflessione di un intellettuale riformista con una visione molto chiara del mondo e capace di descrivere il presente con grande lucidità.


[1] Ad esempio, criticando l’idea di abolire la tassa sulla prima casa, quando invece era meglio (e doveroso) riformulare il catasto e concentrarsi sull’abbattimento del cuneo fiscale.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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