Recensione a: Massimiliano Trentin (a cura di), L’ultimo califfato: l’organizzazione dello Stato islamico in Medio Oriente, il Mulino, Bologna 2017, pp. 240, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Salesio Schiavi
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È sullo sfondo della campagna per la liberazione della città di Mosul in Iraq e dell’avvio di nuove trattative a Ginevra per un cessate il fuoco in Siria che la casa editrice bolognese il Mulino pubblica L’ultimo califfato, saggio a cura di Massimiliano Trentin. Oltre al contributo del suo curatore, ricercatore e docente di Middle Eastern Studies presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, tale opera è il frutto del lavoro congiunto di altri sette esperti del settore, sia italiani che stranieri, che ripercorrono la storia e gli sviluppi ideologici di quei movimenti jihadisti i cui sforzi porteranno alla nascita di una nuova realtà nel Medio Oriente, quella dell’Organizzazione dello Stato Islamico.
Suddiviso in tre principali nuclei tematici, il testo tratta con dovizia di particolari il percorso storico che ha portato l’Organizzazione da un ruolo marginale nel contesto di guerriglia dell’Iraq, sotto l’occupazione delle truppe statunitensi, sino alla conquista di una notevole parte di territorio nel Mashreq e alla conseguente proclamazione del califfato nell’estate del 2014. Seguendo accuratamente le fonti, in particolare mediante l’indagine di testi di riferimento per i jihadisti e di dichiarazioni ufficiali dell’ISIS, il contenuto della teoria del movimento viene confrontato con le principali dottrine classiche del potere islamico portandone alla luce le incongruenze e le contraddizioni. Tale ricerca prosegue prendendo in esame le capacità comunicative dell’Organizzazione, volte innanzitutto al reclutamento di nuovi affiliati, evidenziandone un’estrema flessibilità nel coniugare strategie militari, comunicazione e politica in base a chi intende rivolgersi. Per ultimo il califfato viene confrontato con le prime fasi dell’espansione dello stato saudita e ne vengono esaminate alcune specificità determinanti che ne esaltano la natura totalitaria.
Attraverso un’attenta analisi dei progetti politici dell’Organizzazione dello Stato Islamico e dei contesti nei quali si è mossa, è stato possibile ricostruirne le specificità rispetto ad altre formazioni estremiste, così come le ragioni del suo successo. È opinione comune che siano soprattutto due le peculiarità che contraddistinguono l’Organizzazione all’interno della galassia dei movimenti di impronta jihadista-salafita: da un lato troviamo la sua spiccata autonomia politica, frutto dell’abilità organizzativa e militare dei suoi membri di ottimizzare al meglio le situazioni che progressivamente andavano a delinearsi negli ultimi decenni in Iraq ed in Siria; dall’altro, la sua volontà di emergere come realtà statuale attraverso la proclamazione a califfato, consolidando così il proprio percorso di legittimazione agli occhi delle popolazioni da esso assoggettate.
Genealogia dell’Organizzazione
Partendo dal presupposto che l’Organizzazione dello Stato Islamico affonda le proprie radici ideologiche nel fenomeno jihadista contemporaneo, per comprenderne a pieno la sua forma attuale è necessario analizzarne la genealogia attraverso una prospettiva storica più ampia, incentrata in particolare sui territori e sulle popolazioni in cui esso si è radicato. La storia dell’Organizzazione, infatti, risente fortemente dell’influenza del contesto geopolitico in cui opera, ovvero i territori di Iraq e Siria. Queste due nazioni condividono diversi aspetti: la loro popolazione è sin dalle origini composta di una grande varietà di gruppi etnici e confessionali; allo stesso tempo il percorso storico che esse hanno affrontato a partire dal dissolvimento dell’Impero ottomano segue le medesime tappe. L’avvento dei regimi baathisti durante gli anni Sessanta può essere identificato come una delle principali tappe della storia contemporanea dei entrambi paesi. Il loro consolidamento, oltre a riscrivere interamente la geografia politica della regione, ebbe conseguenze rilevanti soprattutto all’interno del tessuto sociale, a causa del ricorso ad un vasto apparato coercitivo e alla successiva eliminazione della sfera pubblica. La cessazione dello Stato di diritto contribuì ad ampliare ulteriormente il divario tra le autorità statali e le diverse comunità, esacerbandone le divisioni etniche e confessionali e trasformando i due paesi in un mosaico di realtà locali strettamente interconnesse (non è un caso che l’IS si sia sviluppato proprio in quei territori che furono storicamente marginalizzati dai partiti Ba’th).
Dopo la rovinosa sconfitta subita nella seconda guerra del Golfo, l’Iraq fu costretto a fronteggiare un durissimo embargo internazionale, durante il quale la popolazione del paese fu sottoposta ad una grave carenza di beni di prima necessità. Nel 2003 l’invasione statunitense portò al rapido collasso del regime di Saddām Husayn, evidenziando l’alto grado di decomposizione sociale ed economica raggiunto dalla società irachena. La frammentazione del paese fu notevolmente accelerata durante il radicale processo di ristrutturazione delle istituzioni politiche irachene. Come sottolineato da Trentin, “il passaggio fondante il nuovo ordine etnico-confessionale è il processo di smantellamento dell’esercito iracheno e di de-baathificazione”. La decisione di Washington di intraprendere il rapido scioglimento degli apparati statali e delle forze armate irachene fornì un grande bacino di reclutamento per i crescenti gruppi clandestini e di guerriglia.
È in questo contesto che emerse una delle figure più celebri del jihadismo contemporaneo, Abū Muṣʿab al-Zarqāwī: di origine giordane, è nel suo primo gruppo di ispirazione jihadista, il Jamāʿat al-Tawḥīd wa al-Jihād (JTJ), che furono poste le basi dell’attuale IS. Sebbene originariamente affiliato ad al-Qā’ida, fu sulla base del suo progetto principale di istituzionalizzare il jihad nel Bilād al-Shām che egli costituì nel 2004 al-Qā’ida in Iraq (AQI), scontrandosi spesso con al-Qā’ida “centrale” soprattutto sugli obiettivi strategici. In quell’epoca l’Iraq era divenuto uno dei principali teatri d’azione dei vari movimenti jihadisti internazionali: data l’incapacità del governo centrale iracheno di ottenere una piena sovranità sul territorio, il paese era scivolato in una guerra civile a carattere confessionale, in cui i gruppi jihadisti competevano per rappresentare la comunità sunnita. Il neo-nato gruppo stabilì le sue basi soprattutto nelle province di al-Anbār e Diyālā e iniziò a prendere di mira le diverse realtà sciite nel paese che si erano ben integrate nel nuovo sistema istituzionale promosso dagli Stati Uniti basato sulle affiliazioni confessionali ed etniche. Al-Zarqāwī mise inoltre in pratica una nuova forma di violenza, attraverso la diffusione di video che riprendevano le esecuzioni dei massacri delle sue vittime.
La volontà di divenire un “progetto territoriale” porterà alla nascita di un nuovo movimento, più o meno autonomo dalla leadership di al-Qā’ida, con la fondazione nel 2006 dello Stato islamico dell’Iraq (Dawlat al-ʿIrāq al-Islāmiyya). Dopo la morte di al-Zarqāwī, il comando passò all’egiziano Abū Ayyūb al-Maṣrī e all’iracheno Abū ʿOmar al-Baghdādī. Una simile struttura rimase attiva anche durante gli anni 2007-08, quando l’ISI divenne oggetto di pesanti attacchi da parte delle truppe statunitensi, che catturarono o uccisero molti membri di alto livello del gruppo e limitarono notevolmente le sue forze militari. Nonostante tali sviluppi, il gruppo era tutt’altro che sconfitto, proprio in virtù della struttura che si era attribuita; come afferma l’esperto del mondo islamico Lorenzo Declich, “paradossalmente proprio la débâcle militare può aver giocato un ruolo importante nella sua raffinazione e messa in ruolo negli anni seguenti”.
Sarà però il progredire dello scontro armato in Siria, che dal 2011 divenne il teatro di una rivolta civile senza precedenti, a fornire all’Organizzazione un’opportunità unica. Mentre si accentuava la frammentazione del paese, il movimento jihadista in Siria crebbe notevolmente come forza opposta al regime di Damasco. Fu così che il comando centrale di al-Qāʿida inviò Abū Muḥammad al-Jawlānī, un siriano che aveva combattuto in Iraq, a creare una cellula di al-Qāʿida in Siria, che prenderà il nome di Jabhat al-Nuṣra. Ben presto l’ISI iniziò a cooperare con questo ramo siriano di al-Qāʿida, sino a quando il nuovo leader Abū Bakr al-Baghdādī annunciò nel 2013 che il Fronte al-Nuṣra, sarebbe stato sciolto e che i due gruppi si sarebbero fusi in una nuova formazione con il nome di Stato islamico di Iraq e Levante (ISIL). Una tale dichiarazione portò alla definitiva rottura tra l’ISI, al-Qāʿida e la stessa Jabhat al-Nuṣra, con cui lo Stato Islamico si ritrovò spesso a combattere nel tentativo di ottenere la supremazia all’interno dei movimenti jihadisti in Siria.
Quanto sinora detto evidenzia l’interesse vitale che la Siria riveste per l’IS: se da un lato essa offre un presidio strategico da cui possono operare le basi di addestramento e di raccolta dei suoi guerriglieri, dall’altro essa fornisce una nuova legittimità internazionale per rivendicare la rappresentanza esclusiva dell’Islam sunnita. Sarà proprio dalla Siria che l’Organizzazione lancerà la sua campagna espansionistica nell’Iraq settentrionale, che terminerà con l’occupazione della città di Mosul e con la proclamazione il 29 giugno 2014 della nascita dell’Organizzazione e della restaurazione del califfato islamico, con Abū Bakr al-Baghdādī come califfo.
Ideologia e incongruenze del Califfato
Quando il 4 luglio 2014 gli occhi del mondo erano puntati sulle prime immagini video del neocaliffo Abū Bakr al-Baghdādī che dalla moschea al-Nūrī di Mosul proclamava la rifondazione del califfato, a ogni spettatore una simile affermazione deve essere apparsa tanto curiosa quanto sconcertante. L’inatteso richiamo a un’istituzione del passato, per quanto stupefacente, rappresenta invece il compimento di un progetto duraturo che affonda le sue radici nelle prime decadi del XX secolo. Sin dal suo scioglimento voluto dal governo di Ankara nel 1924, infatti, la riedificazione del califfato è da allora stato il traguardo (tanto ambizioso quanto utopico) dei principali movimenti radicali sunniti dell’epoca. I pilastri di questa ideologia furono gli scritti di Rashīd Ridà, Hasan al-Banna e di Sayyid Qutb, una triade di pensatori e di attivisti che sostenevano la necessità di riunire tutti i credenti sotto la medesima bandiera dell’islam sunnita. Le tesi di Qutb, in particolare, “riattiveranno il principio del tafkir – l’accusa di miscredenza rivolta contro un musulmano che ne prevede la condanna a morte –, dando la stura ai numerosi gruppi jihadisti, che combatteranno […] aggredendo in primo luogo i musulmani non conformi alle loro posizioni”.
I sostenitori di tale prassi identificano le prime tre generazioni di musulmani, quelle poste sotto il comando dei “califfi ben guidati” (ovvero i primi quattro califfi che successero a Muhammad), come modelli esemplari di virtù religiosa, i “pii antenati” (salaf al-sālih) che hanno guidato la umma islamica durante la sua epoca d’oro. Esprimendo la loro volontà di dar corso a un’interpretazione autentica dei dati coranici (ijtihād) e della tradizione giuridica islamica (Sunna), essi rifiutano la libera interpretazione del testo sacro fornita dalla maggioranza dei pensatori islamici (“azzerando di fatto quattordici secoli di storia islamica”). Preferendo fare riferimento piuttosto a figure di scuola hanbalita (la più rigorista e per questo fortemente minoritaria) come Ibn Taymiyya (m. 1328) e alle tesi di Ibn Abd al-Wahhāb (m. 1792), essi rimasero però sempre ai margini della storia dottrinale e religiosa islamica.
In riferimento al califfato, però, è necessario precisare che esso sia il frutto di uno scontro politico per il potere avvenuto tra i compagni del Profeta dopo la sua dipartita piuttosto che un’istituzione voluta dalla dottrina islamica. Il Corano, infatti, non contiene alcun riferimento specifico a una forma di governo per i musulmani, così come lo stesso Muhammad non aveva fornito alcuna indicazione a riguardo prima della sua scomparsa. Proprio per questa mancanza di chiare disposizioni, la questione fu trattata solo marginalmente almeno fino al XI secolo, quando apparvero i primi scritti che indicavano le caratteristiche del califfo. Ritenuto “vicario del profeta” (quindi privo di “alcuna prerogativa di mediazione religiosa con Dio”), egli doveva appartenere alla tribù dei Quraysh (quella del Profeta) ed essere eletto da un’assemblea consultiva (shurā) e riconosciuto dall’intera comunità islamica. Tali principi furono però ampiamente osteggiati da Ibn Taymiyya, importante teologo hanbalita del XIII secolo e principale referente per gli jihadisti, soprattutto per quanto riguarda la prerogativa quraysita; in quanto letteralista, egli riteneva infatti che, per mancanza di alcuna indicazione nei Testi il comando della umma fosse, in linea di massima, attribuibile a qualunque fedele.
Di fronte a tali premesse, il ripristino del califfato nel 2014 rappresenta un’evidente prova delle contraddizioni dottrinali che permeano l’Organizzazione. Oltre a non esser stato riconosciuto dall’intera comunità islamica e in aperta opposizione a quanto sostenuto da Ibn Taymiyya, l’ascendenza qurayshita del futuro califfo divenne così pressante che il suo nome fu cambiato in Abū Bakr al-Baghdādī al-Husaynī al-Hāshīmi al-Qurashī. Come evidenziato da Barbara De Poli, “la dichiarazione del califfato da parte della leadership dell’IS sembra dunque iscriversi nella pseudo-esegesi consolidata dei jihadisti, costituita da uno strumentale bricolage di elementi arbitrariamente estrapolati dai Testi, al servizio di un progetto politico, che se pretende di richiamare alla purezza delle origini, di fatto non esita ad alternarne la sostanza, riscrivendo una verità a proprio uso e consumo”. Non stupisce, di conseguenza, che l’autoproclamazione a califfo di al-Baghdādī sia stata fortemente osteggiata da tutte le istituzioni ufficiali musulmane in tutto il mondo.
Da quanto esposto finora emerge il grande valore di quest’opera ed il contributo che essa offre al panorama editoriale nazionale. Presentandosi con un taglio divulgativo di alta qualità L’ultimo califfato non solo permette al lettore di ampliare notevolmente le proprie conoscenze e di entrare allo stesso tempo in contatto con una serie di dibattiti teorici ed accademici, ma introduce contemporaneamente quei nuovi elementi di complessità necessari ad affrontare determinate tematiche al di fuori del rischio di semplificazione e di stereotipizzazzione a cui si è costantemente esposti. Il testo rappresenta quindi un chiaro tentativo di rispondere ad una nuova tendenza editoriale, ormai ampiamente consolidata in Italia, incentrata soprattutto a riprodurre tutta una serie di impostazioni scritte con un evidente taglio sensazionalistico e spesso prive di solide basi di ricerca, assolutamente inadeguate nel loro tentativo di generalizzare e di rendere universale un fenomeno (come l’avvento dell’ISIS) che è invece necessario contestualizzare attraverso le sue precise coordinate di spazio e tempo. Con questa opera, l’intento degli autori diventa perciò quello di spiegare l’evidente complessità di un’organizzazione che è riuscita nella sua prima fase di sviluppo a egemonizzare il jihadismo radicale internazionale contemporaneo ricollocandolo all’interno di un progetto di creazione statuale e nazionale.