Scritto da Andrea Pareschi
11 minuti di lettura
Uno degli elementi più intuitivi eppure paradossali che contraddistinguono l’Unione Europea è la mancanza di una visione condivisa, da parte delle classi dirigenti e delle popolazioni nazionali degli Stati membri, su ciò che essa costituisce. Come scriveva lo studioso Christopher Flood, la sua «costruzione ibrida, multilivello e incompiuta» è aperta ad un ventaglio di interpretazioni differenti[1]: «In che misura sta (diventando) democratica? In che misura sta (diventando) un bastione del neoliberismo economico? Sta distruggendo le identità e l’autonomia delle sue nazioni costituenti o le sta proteggendo […] nell’ambito del necessario adattamento alle moderne condizioni globali? È una grandiosa follia, condannata al fallimento dalle leggi della storia e della natura umana? O rappresenta la possibilità di un ordine postmoderno autenticamente razionale?».
Un filone di studi ha indagato i modi in cui l’Unione Europea è stata percepita dai cittadini e dipinta dagli attori politici, le motivazioni sottese al sostegno e all’opposizione nei suoi confronti, i frames di interpretazione utilizzati per coglierne il senso e la natura[2]. Tra questi prismi interpretativi – legati al ruolo attribuito all’Unione in relazione alla sovranità, ai diritti, alla società, alla cultura, all’identità, all’economia, all’efficienza, all’arena internazionale – non mancano prospettive imperniate sul tema della democrazia.
Come altri frames, anche questo inquadra l’Unione Europea secondo connotazioni che possono essere positive, negative o ambivalenti. Nella sua ricostruzione delle visioni dell’integrazione europea sedimentatesi in diverse comunità nazionali, il sociologo Juan Díez Medrano ha rimarcato come lo spiccato europeismo spagnolo abbia preso le mosse da desideri di modernizzazione culturale, di prosperità economica e, non ultimo, di democratizzazione del sistema politico. Nell’Italia contemporanea, la critica al “vincolo esterno”, unita a torsioni problematiche della governance dell’Eurozona, ci ha invece abituati ad un accresciuto uso “in negativo” dell’argomento che lega l’Unione alla democrazia. Né si può tralasciare l’ampio dibattito sul “deficit democratico” della costruzione europea, che si ritiene comunemente essere stato almeno arginato dall’ascesa del Parlamento europeo al ruolo di co-legislatore (in molti ambiti di policy).
Nell’ultimo decennio, una minaccia lampante alla democrazia in Europa ha peraltro preso forma e vigore. “L’altro deficit democratico” dell’Unione Europea[3], ovvero il democratic backsliding in particolare in Ungheria e Polonia, si è fatto sempre più pronunciato. Questo articolo ne tratteggia i contorni e gli sviluppi recenti, che sostanziano il tentativo dell’Unione di dotarsi infine di strumenti di risposta efficaci.
Le fondazioni democratiche dell’Unione Europea
Che l’Unione Europea concepisca come democratica la propria natura non è in dubbio. Valga richiamare l’Art. 2 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), secondo cui «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani», e l’Art. 10(1), per cui «il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa». D’altra parte i criteri di Copenaghen, definiti dal Consiglio europeo nel 1993 come requisiti essenziali per l’adesione di ulteriori Stati, includono «istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani nonché il rispetto e la tutela delle minoranze».
L’Art. 7 del TUE, volto a proteggere i valori affermati dall’Art. 2, pone però barriere significative all’agire contro uno Stato membro che li comprometta. Secondo l’Art. 7(1), per riconoscere «un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro» occorre che, su proposta di 1/3 degli Stati membri, della Commissione o del Parlamento, il Consiglio deliberi a maggioranza dei 4/5, previa approvazione del Parlamento a maggioranza dei 2/3, dopo che lo Stato sia stato ascoltato e abbia ricevuto eventuali raccomandazioni. I suoi diritti di voto possono essere sospesi, per decisione del Consiglio a maggioranza qualificata, solo se sia stata però constatata «l’esistenza di una violazione grave e persistente»: secondo l’art. 7(2), ciò richiede che il Consiglio europeo, su proposta di 1/3 degli Stati o della Commissione, deliberi all’unanimità, previa approvazione del Parlamento a maggioranza dei 2/3.
Sebbene l’unanimità richiesta non includa, naturalmente, lo Stato in questione, una coppia di regimi in viaggio verso la “democrazia illiberale” è passibile di bloccare il meccanismo. L’allineamento tra Polonia e Ungheria ha certamente avuto tra le sue ragioni d’essere una reciproca protezione in sede europea, insieme ad un policy learning di misure autoritarie con cui soggiogare contrappesi dello Stato di diritto: il potere giudiziario, e in particolare la corte costituzionale, i media pubblici e privati e la commissione elettorale, nonché procedure elettorali e regolamenti parlamentari[4]. L’offensiva alla rule of law – una cui ricognizione è oltre la portata di questo articolo – è stata condotta dai governi di Fidesz in Ungheria sin dal 2010, da quelli di Prawo i Sprawiedliwość (PiS) in Polonia dal 2015.
Il consolidamento di regimi illiberali fra gli Stati membri contribuisce alla “policrisi” dell’Unione Europea con molteplici conseguenze nefaste: una crisi di identità, legata ad un deterioramento dei suoi valori di fondo, e invero un aggravio della crisi di decision-making cui l’Europa già va incontro su questioni cruciali; una crisi di percezione, che ne macchia la reputazione interna ed esterna; una crisi di conformità e implementazione, nella misura in cui il rispetto del diritto dell’Unione è messo a repentaglio[5]. Se, infatti, le corti nazionali devono contribuire alla sua corretta applicazione, l’asservimento del potere giudiziario a quello politico in uno Stato membro mina la fiducia e il riconoscimento reciproco, con il rischio di spingere altri Stati a pratiche di self-help una cui impennata minerebbe alla base l’architettura giuridica europea e lo stesso processo di integrazione[6].
La (non) risposta europea e il ruolo dei partiti
Come è possibile che, in un’Europa democratica, il regresso di Stati membri verso l’autoritarismo non sia stato contrastato per tempo? L’Art. 7 del TUE è il punto di partenza di ogni risposta con le sue condizioni esigenti, probabilmente motivate da un orientamento ideale che nella democrazia avrebbe visto un incontrastato Zeitgeist, la sicura destinazione di un percorso unidirezionale anche per gli Stati di nuova adesione all’UE. Ma l’analisi deve ricomprendere anche gli attori rilevanti in seno alla procedura descritta: le istituzioni europee, e i leader di governo e i partiti politici, nazionali ed europei, che in esse agiscono.
Una teoria sistemica in proposito è stata offerta dal politologo R. Daniel Kelemen, secondo cui nell’Unione un “equilibrio autoritario” si è instaurato in forza di tre fattori[7]. Il primo è la politicizzazione parziale dell’Unione. Se un leader autoritario porta seggi nel Parlamento europeo ad un europartito, esso è incentivato a evitargli reprimende, anche perché gli altri partiti nazionali che ne fanno parte non scontano seri costi reputazionali alle elezioni; non è invece permesso a europartiti rivali dare sostegno materiale a forze di opposizione. Inoltre gli Stati, che controllano il Consiglio e il Consiglio europeo, sono riluttanti ad agire duramente contro un membro del loro consesso. Il secondo fattore è dato dalle risorse economiche provenienti da Bruxelles: il leader autoritario può gestire il regime come un rentier State, incanalandole verso reti clientelari per cementare il consenso, mentre l’appartenenza all’Unione impedisce comunque che gli investimenti diretti dall’estero (FDI) siano scoraggiati oltre misura. In terzo luogo, la libertà di movimento nell’Unione agevola l’emigrazione dei dissidenti; gli emigrati inviano rimesse in patria, migliorandone pure la condizione economica, mentre il regime si adopera per escluderli dal voto politico.
Riguardo al primo fattore, vari osservatori hanno imputato al Partito Popolare Europeo (PPE), di cui Fidesz ha fatto parte sino al 2021 – e in subordine al più piccolo Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei (ECR), di cui il PiS è membro influente – una spregiudicata negligenza verso il loro autoritarismo[8]. Nel 2013, ad esempio, una maggioranza dei parlamentari del PPE votò contro il “Rapporto Tavares”, che denunciava l’erosione dei diritti in Ungheria, tacciandolo di motivazioni politiche. Dopo che nel 2014 la Commissione introdusse il Rule of Law Framework – un’allerta precoce, tramite una serie di pareri e raccomandazioni, ad uno Stato “a rischio di Art. 7” – i MEP popolari contrastarono una risoluzione che ne chiedeva l’uso verso l’Ungheria. È segno della centralità politica del PPE rispetto all’ECR che la Commissione Juncker non procedesse in tal senso, attivando invece il meccanismo verso la Polonia con avvertimenti crescenti già nel 2016, fino ad avviare la procedura dell’Art. 7(1) nel dicembre 2017. Incidentalmente, il Regolamento 1141/2014 sullo statuto dei partiti politici europei dispone una procedura per la de-registrazione di un europartito, in caso di gravi violazioni dei valori di cui all’Art. 2 del TUE, ma un tentativo di attivarla è stato bloccato con argomenti controversi nel 2019 dallo staff dell’allora presidente del Parlamento, Antonio Tajani[9].
Nel settembre 2018, grazie all’appoggio del PPE, dovuto alle ambizioni personali del capogruppo Manfred Weber, il Parlamento ha potuto fare uso della sua prerogativa di avviare il procedimento dell’Art. 7(1) anche verso l’Ungheria. Da parte sua, il Consiglio si è però limitato a lanciare un suo dialogo parallelo sullo Stato di diritto e a svolgere audizioni secondo l’Art. 7(1).
Nel frattempo, alcuni sviluppi sono giunti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Numerose sue sentenze, anche sulla base di procedure di infrazione lanciate dalla Commissione contro Polonia e Ungheria, hanno invero avuto valore circoscritto, costringendo a riparazioni tardive e limitate regimi illiberali altrimenti intenti a consolidare il proprio potere a pieno ritmo. Tuttavia, con la sentenza Commissione c. Polonia (Indipendenza della Corte Suprema) del novembre 2019, la Corte ha reso operativo l’Art. 19(1) del TUE a difesa dello Stato di diritto, tramite il legame fra tutela giurisdizionale effettiva del diritto dell’Unione Europea e indipendenza dei giudici[10].
The EU strikes back: prospettive a fine 2022
Significativi avanzamenti dell’ordinamento europeo per via giudiziaria, come è noto, sono già occorsi in tornanti “storici” del processo di integrazione. È però dubbio che sviluppi di tipo giuridico compensino appieno la mancanza di soluzioni di high politics, nella misura in cui non contrastano i fattori abilitanti dell’arretramento democratico.
Tale considerazione vale anche per una delle prime iniziative della Commissione von der Leyen, annunciata nei suoi Orientamenti politici e nel Programma di lavoro per il 2020, ma dotata di “potenza di fuoco” presumibilmente limitata verso durevoli regimi illiberali. Il Piano d’azione per la democrazia europea[11] comprende azioni su tre versanti: a) elezioni libere e regolari – compresa legislazione per la trasparenza dei contenuti politici sponsorizzati –; b) libertà e pluralismo dei media – comprese una direttiva per la protezione dei giornalisti da azioni legali pretestuose e una raccomandazione sulla loro sicurezza –; c) contrasto alla disinformazione.
Denso di implicazioni è invece il Regolamento 2020/2092, proposto dalla Commissione nel maggio 2018 nell’ambito del pacchetto legislativo sul bilancio 2021-2027, poi adottato da Parlamento e Consiglio nel dicembre 2020 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2021. Il Regolamento stabilisce una chiara relazione tra l’esecuzione efficiente del bilancio dell’Unione e il rispetto dello Stato di diritto, subordinando quindi l’erogazione di fondi europei ad una condizionalità basata sulla rule of law. Di non trascurabile importanza a questo proposito è che la Commissione si fosse già dotata, nella seconda metà del 2019, di un ciclo di esame della rule of law, incentrato sulla pubblicazione annuale di una Relazione sullo Stato di diritto nei Paesi dell’UE[12].
L’iter del Regolamento non è stato agevole. Benché il Consiglio dovesse esprimersi a maggioranza qualificata, sotto la minaccia di veto al bilancio europeo da parte di Ungheria e Polonia, per vederlo approvato la Commissione aveva raggiunto un compromesso con il Consiglio europeo. Avrebbe elaborato linee guida applicative; non lo avrebbe fatto sino a che gli Stati interessati a ricorrere alla Corte di Giustizia contro il Regolamento non avessero ottenuto una sentenza; e fino ad allora non avrebbe proposto misure a norma del Regolamento. Il Parlamento, con varie risoluzioni, contestava invece la validità legislativa dell’accordo, inscritto nelle Conclusioni del Consiglio europeo, e reclamava la pronta applicazione del Regolamento, intentando persino un’azione legale contro la Commissione. La querelle si è conclusa quando, nel febbraio 2022, la Corte di Giustizia ha rigettato con i cosiddetti Conditionality judgments le istanze di annullamento di Polonia e Ungheria, offrendo il destro alla Commissione per attivare il meccanismo di condizionalità verso quest’ultima.
Così, in settembre la Commissione ha raccomandato di sospendere il versamento di 7,5 miliardi di euro – il 65% dei fondi di coesione accordati all’Ungheria per il periodo 2021-2027, pari a circa il 5% del PIL – a causa di irregolarità sistemiche negli appalti pubblici. A fronte di 17 misure identificate come rimedi, di un’estensione dei tempi per implementarle concessa dal Consiglio e della “linea dura” chiesta invece dal Parlamento, a fine novembre la Commissione – contro le aspettative degli esperti – ha confermato la richiesta di bloccare i fondi. Al momento della stesura di questo articolo, si attende per dicembre una decisione di accoglimento, modifica o respingimento da parte del Consiglio, a maggioranza qualificata. In parallelo, la Commissione ha proposto al Consiglio l’accoglimento del PNRR dell’Ungheria – l’unico non ancora approvato – ma anche il congelamento di 5,8 miliardi in sovvenzioni fino alla completa attuazione di 27 misure legate a corruzione e indipendenza dei giudici[13]. Mentre l’Ungheria continua a minacciare veti su diversi dossier – da un aiuto all’Ucraina per 18 miliardi al perfezionamento dell’accordo OCSE per una tassazione minima globale delle multinazionali – alcuni Stati premono per un accordo nella speranza di scongiurarli, altri chiudono la porta all’acquiescenza.
La Polonia, dal canto suo, non ha subito l’attivazione del meccanismo di condizionalità e ha visto approvare il proprio PNRR nel 2022, con una decisione resa controversa dal permanere di ostacoli all’imparzialità della magistratura. Da obiettivi in questo senso dipenderà però l’effettiva erogazione dei circa 35 miliardi di euro del PNRR polacco, mentre i 75 miliardi di fondi di coesione destinati al Paese hanno subito un blocco temporaneo. Un dialogo più disteso pare comunque sussistere, probabilmente a causa del posizionamento del Paese rispetto alla crisi ucraina, ben diverso da quello ungherese.
Conclusioni
«A dispetto di dieci anni di tentativi, da parte dell’UE, di tenere a freno le violazioni dello Stato di diritto, e anche se gli Stati membri in arretramento democratico hanno perso casi davanti alla Corte di Giustizia, i regimi illiberali all’interno dell’UE si sono consolidati vieppiù: pur con le sue vittorie, l’UE ha comunque perso»[14]. Questa valutazione, data nel 2020 da tre studiosi di diritto, rimane pienamente condivisibile alla luce degli sviluppi più recenti? In circostanze instabili è difficoltoso avventurarsi in risposte nette, ma la situazione corrente consente comunque di ricavare – o rievocare – alcune considerazioni non prive di valore.
Innanzitutto, il quadro d’insieme delineato illustra quanto l’UE, solitamente dipinta come un attore politico unitario nel dibattito nazionale, sia un soggetto composito – e non di rado contraddittorio – per pluralità di istituzioni, logiche decisionali, tavoli negoziali. Attribuire all’Unione Europea una capacità di resistere all’arretramento democratico è una semplificazione, attribuirle una volontà indivisibile di farlo – o meno – è una ipersemplificazione. Se è il Parlamento europeo ad avere più precocemente e fermamente preso posizione, e se i governi nazionali rappresentati nel Consiglio si sono mostrati restii almeno sino ad ora, la Commissione, pur navigando un corso intermedio, sembra avere abbracciato un approccio più risoluto. Resta da verificare se ciò, insieme ai recenti sviluppi per via giuridica, possa condurre per lo meno ad un equilibrio più avanzato, che ponga i regimi illiberali sulla difensiva e li induca a sollevare il veto a soluzioni europee ad impellenti problemi comuni.
In questo giocano un ruolo anche i partiti politici, nazionali ed europei. Le ambiguità del PPE nell’affrontare seriamente la questione Fidesz si sono protratte oltre le elezioni europee del 2019, poco prima delle quali il partito di Viktor Orbán è stato “semi-sospeso”; ma la sua fuoriuscita nel 2021, cagionata da crescenti malumori interni, è un fatto sostanziale. Lo è pure che l’attuale Commissione, guidata da un esponente del PPE, si sia mossa nel modo già ricordato; ma lo è anche che il partito esprima interesse per allineamenti con il gruppo ECR, senza aggiungere “pro-democrazia” alle red lines di un posizionamento “pro-Europa, pro-NATO, pro-Ucraina”[15]. Sebbene il PSE, il cui gruppo parlamentare è il secondo per ampiezza, non possa vantare assoluta purezza – si pensi ai rapporti con il partito SMER dell’ex premier slovacco Robert Fico – in questi anni gli esponenti socialisti hanno aderito con più convinzione ad un approccio democracy first, rispetto allo spregiudicato pragmatismo dimostrato sino al recentissimo passato dalla controparte cristiano-democratica.
Va infine ricordato che la minaccia di erosione dello Stato di diritto – e delle fondamenta democratiche degli Stati membri – ha carattere almeno potenzialmente sistemico. Certo, stando alla Comunicazione sull’applicazione del diritto dell’UE[16], pubblicata dalla Commissione a ottobre 2022, la sfida al diritto comunitario non pare ampliarsi a macchia d’olio. Ed è vero che, nella rilevazione annuale condotta da Freedom House, l’Ungheria è l’unico Paese dell’Est europeo etichettato come “regime di transizione o ibrido”, mentre la Polonia – al pari della Croazia – è indicata come “democrazia semi-consolidata”[17]. Tuttavia, le tendenze evidenziate da questo e altri progetti, in fatto di variazioni negli indicatori legati alla democrazia dell’ultimo decennio, non incoraggiano affatto all’entusiasmo. E nella Grecia di Kyriakos Mitsotakis sono già visibili lesioni della libertà di stampa, tramite pressioni sui media, uso orientato dei fondi pubblici e una legge che criminalizza le fake news in modo indebitamente ampio: elementi rimarcati proprio nella relazione annuale della Commissione sulla rule of law, ai quali si è aggiunto uno scandalo delle intercettazioni nei confronti di giornalisti e politici di opposizione[18].
[1] C. Flood, Euroscepticism: A problematic concept, saggio presentato alla conferenza annuale UACES, 2002, p. 7. La traduzione delle citazioni contenute in questo articolo è a cura del suo autore.
[2] Per un approfondimento e un tentativo di catalogazione dei frames: A. Pareschi, On framing the EU: A plea for the relaunch of frame analysis in the study of elite and mass attitudes on European integration, «Journal of Contemporary European Research», di prossima pubblicazione.
[3] R. Daniel Kelemen, Europe’s Other Democratic Deficit: National Authoritarianism in Europe’s Democratic Union, «Government and Opposition», 52(2) 2017, pp. 211-238.
[4] A. Holesch e A. Kyriazi, Democratic backsliding in the European Union: the role of the Hungarian-Polish coalition, «East European Politics», 38(1) 2022, pp. 1-20.
[5] K. Raube e F. Costa Reis, The EU’s Crisis Response Regarding the Democratic and Rule of Law Crisis, in The Palgrave Handbook of EU Crises, a cura di M. Riddervold, J. Trondal e A. Newsome, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2020, pp. 627-646.
[6] K.L. Scheppele, D. V. Kochenov e B. Grabowska-Moroz, EU Values Are Law, after All: Enforcing EU Values through Systemic Infringement Actions by the European Commission and the Member States of the European Union, «Yearbook of European Law», 39(1) 2020, pp. 3-121.
[7] R. Daniel Kelemen, The European Union’s authoritarian equilibrium, «Journal of European Public Policy», 27(3) 2020, pp. 481-499.
[8] F. Wolkenstein, European political parties’ complicity in democratic backsliding, «Global Constitutionalism», 11(1) 2022, pp. 55-82; Y. Mounk (2018), The Failure of the Center-Right, «Slate», 4 settembre 2018.
[9] F. Wolkenstein (2022), op.cit.; A. Alemanno e L. Pech, Holding European Political Parties Accountable – Testing the Horizontal EU Values Compliance Mechanism, «Verfassungsblog», 15 maggio 2019.
[10] K. Raube e F. Costa Reis, op. cit.; G. Pitruzzella, L’integrazione tramite il valore dello “Stato di diritto”, «Federalismi.it», 27 (2022), pp. IV–XIII; per un’estesa disamina giuridica, si veda K.L. Scheppele et al., op. cit., pp. 42-59.
[11] COM(2020) 790 final.
[12] COM(2019) 343 final.
[13] F. Baccini, La Commissione pronta a bocciare le riforme dell’Ungheria, resta in piedi la proposta di congelamento dei fondi UE, «Eunews», 24 novembre 2022.
[14] K.L. Scheppele et al. (2020), op. cit., p. 3.
[15] N. Vinocur, Brussels Playbook: Macron’s win? – EPP in Athens – Dublin gets tough, «Politico.eu», 2 dicembre 2022.
[16] COM(2022) 518 final.
[17] https://freedomhouse.org
[18] N. Stamouli, How Greece became Europe’s worst place for press freedom, «Politico.eu», 8 agosto 2022.