Vent’anni di “Women, peace and security”. Guerre, pace e prospettiva di genere
- 29 Gennaio 2021

Vent’anni di “Women, peace and security”. Guerre, pace e prospettiva di genere

Scritto da Silvia Samorè

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È il 31 ottobre 2000. Un momento storico decisamente particolare per gli studiosi di relazioni internazionali: quello che oggi definiamo “decennio umanitario” si avviava alla conclusione, portando con sé lezioni apprese e disillusione sul ruolo dell’ONU nel suo compito di protettore della pace, ma ancora l’11 settembre non aveva rivoluzionato lo scenario mondiale proiettando sull’Occidente lo spettro del terrorismo e delle successive guerre in Medio Oriente. In questo contesto veniva approvata la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1325 (UNSCR 1325/2000) “on Women, peace and security”, dedicata nello specifico al ruolo delle donne nel mantenimento della pace e considerata una vera e propria pietra miliare per i futuri sviluppi della gender perspective in relazione ai processi di analisi e risoluzione dei conflitti.

A distanza di vent’anni numerose altre risoluzioni si sono aggiunte a questa e le maggiori organizzazioni internazionali operanti nel settore (dalla NATO all’UE, dall’OSCE ai singoli Stati) hanno lavorato per adeguarsi alle linee guida dell’Agenda Women, Peace and Security (WPS) che in questo processo ha assunto significati più ampi di quelli iniziali ed ora si articola a livello complessivo su quattro pilastri: (1) una maggiore partecipazione delle donne nei processi di prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti, (2) protezione e (3) prevenzione delle violenze sessuali connesse ai conflitti ed infine (4) “relief and recovery” per le vittime di tale violenza[1].

Ma cosa è cambiato davvero per le persone coinvolte nei processi di peacebuilding? E ancora: a cosa serve in concreto adottare una prospettiva di genere in relazione a fenomeni già enormemente complessi quali sono i conflitti armati? Da queste domande prende avvio l’analisi che verrà sviluppata nel presente articolo. A partire da un approfondimento sul percorso storico che ha portato alla risoluzione 1325, verranno approfondite quelle caratteristiche peculiari dei conflitti armati dell’epoca post-bipolare che rendono essenziale l’adozione di un’ulteriore lente cognitiva, sia nel tentativo di comprenderli in termini di cause ed effetti sulla popolazione, sia nel faticoso svolgimento dei processi di pace e di ricostruzione successiva. In conclusione, verranno sottolineati quegli aspetti che ancora si dimostrano problematici.

 

Verso la risoluzione 1325/2000 del Consiglio di Sicurezza

La strada verso l’affermazione delle donne nei processi di pace è lastricata di conferenze internazionali[2]. Decenni di lotte e dibattiti della comunità internazionale hanno infatti preceduto la storica risoluzione 1325/2000[3]: nel 1969 la Commissione sullo Status delle Donne (CSW)[4], ad esempio, sollevò la questione del trattamento speciale di donne e bambini durante i conflitti armati, che portò nel 1974 ad una dichiarazione dell’Assemblea generale su tale materia. Un determinante passo avanti nel processo si è concretizzato grazie alle “UN World Conferences on Women”, in particolare la prima organizzata in Messico nel 1975, dalla quale ha avuto impulso l’approvazione della “Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women” (CEDAW)[5]. Nel corso degli appuntamenti successivi il dibattito è stato mantenuto vivo, fino alla costituzione, nel 1995, della Piattaforma per l’azione di Pechino. In questa circostanza, grazie all’attivismo della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà (WILPF)[6], il documento finale è stato arricchito con un capitolo specifico su donne e conflitti armati, riconoscendo inoltre che il numero di vittime civili nei conflitti aveva ormai superato quello dei combattenti legittimi, spostando il peso delle guerre in gran parte sulle spalle di donne e bambini[7].

Ciò che stava accadendo nel panorama dei conflitti armati all’indomani della fine della guerra fredda era, infatti, un cambiamento significativo, in termini di caratteristiche e natura dei conflitti stessi. Le teorie accademiche al riguardo sono numerose e il dibattito “vecchie” e “nuove” guerre non può ancora dirsi concluso del tutto. In maniera molto sintetica, i conflitti dell’era post-bipolare sono stati descritti come “ibridi” (Hoffman, 2007[8]), a causa delle nuove tattiche e mezzi utilizzati, “post-eroici” (Luttwack, 1995[9]), “guerre tra la gente” (Gen. R. Smith, 2005[10]), “guerre di terzo genere” (Holsti, 1996[11]), “guerre di quarta generazione” (Lind, Nightingale, Schmitt, Wilson, Sutton, 1989[12]) ed infine semplicemente “nuove guerre” (Kaldor, 1999[13]). Al di là della lunga lista di definizioni, alcune delle caratteristiche messe in luce dagli autori sottolineano proprio la crescente importanza del terreno umano[14] in questa tipologia di conflitti, nei quali è quasi impossibile distinguere tra civili e combattenti legittimi, e in cui la popolazione è vittima degli scontri sui campi di battaglia urbani. Inoltre, il ruolo degli Stati come protagonisti delle controversie internazionali risolte con la forza viene fortemente messo in discussione da attori differenti, come i gruppi armati non statali, che sempre più spesso sono implicati in duraturi conflitti interni, responsabili di violenza e insicurezza nei confronti delle comunità coinvolte. Semplificando, si può affermare che le guerre hanno avuto la tendenza a perdere la caratteristica stato-centrica dei conflitti Otto e Novecenteschi, in favore di una dimensione population centric sempre crescente. Ma cosa ha a che fare tutto questo con l’affermarsi della prospettiva di genere e l’enfasi attorno al ruolo delle donne nei processi di pace?

 

Quando e perché “gender makes sense

Dal punto di vista della comunità internazionale, e più in particolare degli attori impiegati sul campo, l’adozione di una prospettiva di genere emerge dall’esigenza operativa di poter analizzare l’operational environment con una prospettiva più ampia e inclusiva, al fine di pianificare e agire in direzione giusta per costruire una stabilità duratura[15]. Questo è certamente fondamentale quando si parla di componenti militari impiegate in missioni di crisis response o stability operations[16], ma la logica alla base è ovviamente la stessa che sono tenute a rispettare le organizzazioni internazionali prettamente civili (come le Nazioni Unite, l’OSCE o l’UE) e che ha animato l’evoluzione delle varie declinazioni dell’Agenda WPS da vent’anni a questa parte[17]. Infatti, quando si ha a che fare con Stati fragili o in conflitto e i conseguenti problemi di sicurezza interna, qualsiasi intervento in tale senso deve essere genuinamente population oriented, perchè il mancato soddisfacimento dei bisogni della popolazione comporta un rischio enorme per la tenuta della stabilità e il successo del processo di pace.

Considerando quindi le persone come ago della bilancia nel pianificare e nell’implementare qualunque tipo di azione sul terreno, risulta necessario comprendere la popolazione non solo nel suo insieme, ma ad un livello di dettaglio che consenta di adottare politiche il più inclusive possibili. All’interno della macro categoria “cittadini” della host nation, infatti, sono inserite fasce di età differenti, etnie, confessioni, comunità linguistiche e ovviamente uomini e donne in percentuali pressappoco uguali. Queste categorie possono sovrapporsi in alcuni tratti, ovviamente: un uomo appartiene ad una determinata fascia d’età, ad un’etnia, ad una confessione religiosa, parla una determinata lingua e l’appartenenza ad ognuna di esse contribuisce a formare il costrutto sociale all’interno del quale la persona opera[18]. Adottare un approccio di analisi inclusivo, dunque, è funzionale a comprendere identità e motivi delle azioni individuali, oltre a proteggere maggiormente i diritti di cui ogni persona è detentrice in quanto essere umano, che sono garantiti dal Diritto internazionale per porre solide basi per la tenuta della stabilità nel lungo periodo. Comprendere i bisogni specifici in termini di sicurezza, sviluppo economico e tutele da parte dell’autorità governativa è, infatti, un fattore chiave per il successo dell’operazione.

Questo è particolarmente rilevante quando ad esempio gli sforzi sul campo includono processi di supporto alla Riforma del Settore della Sicurezza (SSR), il ripristino del SASE (Safe and Secure Environment), il contributo a processi di DDR (Demobilization, disarmament and reintegration) o il demining[19]. Tali attività sono strettamente connesse alla dimensione della sicurezza degli individui e tutto ciò che ha a che fare con il concetto di “sicurezza” implica un’attenta analisi della percezione che ne hanno i soggetti destinatari dei provvedimenti da adottare. Il fatto che uomini e donne abbiano ruoli e compiti diversi all’interno della società, infatti, li espone a tipi di minacce differenti: per un uomo, ad esempio può essere “pericoloso” essere reclutato da bande armate irregolari e per evitare che sia costretto a fare questa scelta, può essere necessario sviluppare alternative lavorative altrettanto valide. Una donna, invece, è molto più esposta ad attacchi mirati ad abusi sessuali, che possono avvenire durante le attività quotidiane più banali. Le Nazioni Unite, ad esempio, hanno studiato come una conseguenza del cambiamento climatico e della desertificazione sia l’allungamento medio dei percorsi che le donne compiono per andare a reperire l’acqua per la comunità, questo a sua volta le espone maggiormente ad assalti e stupri[20]. Poter considerare le minacce in modo differenziato è quindi fondamentale sia nel prevenirle che nell’impostare i processi di pace andando incontro agli effettivi bisogni di tutti.

 

A vent’anni da oggi: prospettive future e considerazioni finali

Il cammino intrapreso con la risoluzione 1325 non si può certo dire concluso, anzi. Il ventesimo anniversario diventa un’occasione per riflettere sui traguardi raggiunti, che devono essere riconosciuti e celebrati, ma anche su ciò che ancora si può migliorare per il futuro. Nonostante sia possibile dimostrare che il coinvolgimento delle donne nei processi di pace aumenti di molto le probabilità di successo[21], gli attori che operano nella mediazione sono ancora fortemente restii ad includerle in molti casi; lasciando fuori le donne dai processi decisionali, tuttavia, si alimentano disuguaglianze e soprusi che causano violazioni di diritti e perpetrarsi di violenze di genere. Se da un lato, quindi, bisogna riconoscere che la necessità di adottare una prospettiva di genere sia ormai largamente riconosciuta, tanto che, se nel 2015 solo il 40% delle decisioni del Consiglio di Sicurezza in materia di crisi citavano l’Agenda WPS, tale percentuale è aumentata fino al 98% alla fine del 2017[22]; dall’altro questa consapevolezza non sempre sfocia in migliore rappresentatività. Se si consultano i dati relativi al numero di donne fisicamente presenti ai tavoli decisionali dei processi di pace, dal 1992 al 2019, in media si raggiunge una percentuale pari solo al 13% del totale (6% dei mediatori, 6% dei concreti firmatari degli accordi). Nel 2020 la situazione non è diversa: per fare alcuni esempi, le donne costituiscono solo il 10% dei partecipanti agli Afghan talks, partecipano per il 20% alle discussioni politiche relative alla situazione in Libia ma sono del tutto assenti dal dibattito militare sia in Libia che in Yemen[23].

Alla luce di questi dati e degli sviluppi del sistema internazionale, che sicuramente è soggetto a dinamiche di mutamento, risulta evidente come gli obiettivi della risoluzione 1325 rimangano attuali e imprescindibili anche a distanza di due decenni. Oggi, esattamente come nell’ottobre del 2000, c’è bisogno di insistere sull’importanza dell’Agenda WPS, sulla formazione e divulgazione in tale ambito e sulla necessità di una maggiore inclusività del dibattito politico: troppo spesso la prospettiva di genere è ancora considerata superflua da chi concretamente prende le decisioni in merito a tematiche di pace e sicurezza, cioè tendenzialmente uomini. Finché il discorso rimarrà così polarizzato, non potrà che prevalere la linea di chi banalizza il problema e lo semplifica a mera “rivendicazione” femminile, ma, se il ragionamento seguito fino a questo momento può considerarsi razionale, appare evidente come il problema sia di fatto universale e riguardi ogni singolo individuo[24]. Comprendere i bisogni specifici di genere è, a tutti gli effetti, un’esigenza per rendere efficace la difesa dei diritti umani, ma fino a quando il potere effettivo in merito alla scelta delle politiche da adottare resterà nelle mani di un solo genere, per quanto gli esponenti possano essere illuminati e agire nelle migliori intenzioni, ciò che emergerà saranno al più concessioni paternalistiche nei confronti di tutte le altre minoranze, non certo processi di pace inclusivi e duraturi. Ancora siamo lontani dall’equa rappresentanza: donne, persone non binarie e persone transgender sono di fatto sottorappresentate in tutto il mondo[25] e cambiare questa situazione richiede tempo, richiede rivoluzioni culturali e sociali profonde a livello globale[26]. A vent’anni da oggi sarebbe bello poter guardare al passato e dichiarare obsoleta la UNSCR 1325 perché ormai tutti gli obiettivi sono stati raggiunti e superati, ma nel frattempo l’impegno della comunità internazionale non può e non deve venire meno.


[1] Chinkin, C, et al. 2020. Gender and New Wars. Stability: International Journal of Security & Development, 9(1): 1, pp. 1–13, DOI: https://doi.org/10.5334/sta.733

[2] “Il background storico della CSW”, estratto da I temi della 56a sessione della commissione ONU sulla condizione delle donne, a cura del CeSPI, Osservatorio di politica internazionale, Approfondimento n. 49, febbraio 2012. Disponibile online a questo link.

[3] Per maggiori informazioni: https://www.peacewomen.org/why-WPS/solutions/background; https://www.unwomen.org/en/news/in-focus/women-peace-security#timeline

[4] Per maggiori informazioni: https://www.unwomen.org

[5] Per maggiori informazioni: https://www.ohchr.org

[6] Per maggiori informazioni: https://www.wilpf.org/

[7] https://www.peacewomen.org/why-WPS/solutions/

[8] Hoffman, F.G. (2007), Conflict in the 21st Century: The Rise of Hybrid Wars, Potomac Institute for Policy Studies, Arlington.

[9] Toward Post-Heroic Warfare, www.foreignaffairs.com

[10] Smith, General Sir Rupert, (2005) The Utility of Force: The Art of War in the Modern World. London: Penguin.

[11] Holsti, K. (1996). The State, War, and the State of War (Cambridge Studies in International Relations). Cambridge: Cambridge University Press. doi:10.1017/CBO9780511628306

[12] William S Lind; Keith Nightengale; John F Schmitt; Joseph W Sutton; Gary I Wilson (1989), The Changing Face of War: Into the Fourth Generation, Marine Corps Gazette (pre-1994); Oct 1989.

[13] Kaldor, M. (1999), Old and New Wars: Organized Violence in a Global Era, Polity, Cambridge Press.

[14] Il terreno umano può essere definito come “quegli aspetti dello spazio di battaglia che, grazie alla loro natura statica, potrebbero essere rappresentati visivamente su una mappa. (Barak A. Salmoni and Paula Holmes-Eber, 2008, Operational Culture for the Warfighter: Principles and Applications, Government Printing Office, p. 34). Nei conflitti che si svolgono tra le persone, nei quali la distinzione tra combattenti e non combattenti non è così netta, questa dimensione assume importanza cruciale perché fornisce chiavi di lettura e dati fondamentali per capire l’ambiente in cui le forze armate operano. Un ambiente che non è più solamente geografico, ma anche profondamente segnato dalle variabili culturali e sociali, come ad esempio la distribuzione dei ruoli in base al genere.

[15] Lena P. Kvarving and Rachel Grimes, Why and how gender is vital to military operations in PfPC SSRWG and EDWG, (Geneva: DCAF and PfPC, 2016).

[16] NATO Allied Joint Publication 3.4.5 disponibile online a questo link.

[17] In particolare indicazioni in questo senso possono essere riscontrate nel Rapporto del Segretario Generale nel 2004.

[18] Questo concetto è ciò che gli studi di genere definiscono “intersezionalità”

[19] Groothedde S., (2013), Gender Makes Sense: A Way to Improve Your Mission, Civilian-Military Centre of Excellence.

[20] Why climate change fuels violence against women, www.undp.org

[21] https://wps.unwomen.org/resources/fact-sheets/Fact-Sheet-and-Key-messages-Global-Study-EN.pdf

[22] https://www.aspistrategist.org.au/the-wps-agenda-is-almost-20-but-its-not-time-to-celebrate-yet/

[23] https://www.cfr.org/womens-participation-in-peace-processes/

[24] L’utilizzo dei termini “uomini e donne” è infatti una semplificazione: in questo quadro si devono ovviamente includere anche tutte le persone non binarie e sono compresi gli individui transgender. Questo aspetto può essere considerato una ulteriore linea di sviluppo per l’agenda WPS, che tuttavia meriterebbe un approfondimento a sé stante.

[25] Così come chi non si definisce eterosessuale e a causa di questo subisce persecuzioni e violazioni dei propri diritti. Tale condizione non è stata approfondita perché l’orientamento sessuale non è strettamente legato alle dinamiche sociali connesse ai ruoli di genere.

[26] https://www.osce.org/blog/no-peace-without-women

Scritto da
Silvia Samorè

Laureata in Scienze strategiche all’Università di Torino, ha conseguito il master di secondo livello in Studi internazionali strategico-militari presso il Centro Alti Studi per la Difesa di Roma. Ha inoltre svolto un tirocinio Blue Book presso il Service for Foreign Policy Instrument della Commissione Europea e successivamente è stata Pan European Fellow del think tank European Council on Foreign Relations presso l’ufficio di Roma. I suoi interessi di ricerca includono la difesa europea, analisi del conflitto, stabilizzazione e ricostruzione post conflitto e la riforma del settore della sicurezza.

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