Recensione a: Andreas Wirsching, Weimar, cent’anni dopo. La storia e l’eredità: bilancio di un’esperienza controversa, Prefazione di Angelo Bolaffi, Donzelli editore, Roma 2019, pp. VI-138, 17 euro (scheda libro)
Scritto da Andrea Della Polla
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La fine della Repubblica di Weimar rappresenta una delle questioni cruciali della storia europea. Qual è il “segreto” dell’eterno ritorno d’interesse nei confronti di un esperimento politico e culturale terminato in una tragedia senza precedenti? In Weimar, cent’anni dopo Andreas Wirsching[1] analizza gli assetti istituzionali ed economici, la politica, la società e la cultura dei quindici anni di vita della Repubblica, dal 1919 al 1933; dalla sconfitta dell’Impero tedesco nella Prima guerra mondiale al 30 gennaio 1933, il giorno in cui Hindenburg nominò Adolf Hitler cancelliere del Reich. L’autore ripercorre così le fasi cruciali del primo esperimento di Stato di diritto democratico e sociale della storia tedesca.
Per Wirsching la causa principale del fallimento del primo esperimento democratico in Germania è la frammentazione dei partiti liberali e conservatori. Lo storico tedesco descrive la formazione delle correnti politiche principali in Germania partendo dal 1870-1871. La nascita del Kaiserreich fu infatti cruciale per il sistema dei partiti. Esistono consuetudini di lunga durata nella tradizione politica tedesca che furono presenti nel periodo weimariano: dal tradizionale dualismo tra liberalismo e conservatorismo alla maggiore importanza del monarca e del ceto burocratico rispetto ai partiti politici. I partiti ebbero nella Repubblica di Weimar una scarsa preparazione ai compiti governativi e un’incapacità di creare un equilibrio all’interno del parlamento. Nella giovane repubblica la classe politica era convinta che esistesse un antagonismo tra potere legislativo (parlamento) e potere esecutivo (governo). Inoltre la precaria condizione economica non permetteva ai partiti di compiere compromessi e coalizioni.
Wirsching vuole dimostrare la frammentazione dei partiti politici nel periodo tra le due guerre. Le quattro correnti ideologiche principali della storia tedesca attraversarono una scissione nel periodo repubblicano. La Spd (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) il 4 agosto 1914, votò nel Reichstag a favore dei crediti di guerra. Quel giorno Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fondarono la Lega spartachista (Spartakusbund). Fu la prima scissione all’interno del partito socialdemocratico. Tra il 31 dicembre 1918 e il 1 gennaio 1919 nacque il Kpd (Kommunistische Partei Deutchlands), il partito comunista. Ad avere un peso notevole nel movimento operaio tedesco non era però il Kpd ma l’Uspd (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands) il partito socialdemocratico indipendente, distaccatosi dalla Spd nel 1917. Per l’autore la Spd non era più un partito marxista rivoluzionario, nonostante l’uso di termini come “lotta di classe”, “dittatura del proletariato” fosse ancora praticato dai funzionari, la trasformazione semantica era avvenuta. Per “rivoluzione” s’intendeva in un’ottica riformista: suffragio universale, sistema elettorale proporzionale, parlamentarismo, e miglioramento delle condizioni materiali della classe operaia attraverso lo sviluppo di uno Stato sociale. Inoltre nel fronte cattolico la divisione tra il Zentrum e il partito popolare bavarese (Bayerische Volkspartei) fu di origine federalista.
Nel 1922, nel maggior partito conservatore, ci furono varie scissioni all’interno del Dnvp (partito popolare tedesco nazionale), la formazione politica di riferimento per i protestanti e il mondo agrario. I principali due partiti liberali erano il Partito democratico tedesco (Deutsche Demokratische Partei) e il Dvp (Deutsche Volkspartei). «Il liberalismo tedesco pagò più di altre correnti politiche il fatto di non offrire risposte ai problemi economici e sociali generati dall’inflazione e dalla crisi economica mondiale» (p. 52). Evidentemente molti elettori liberali spostarono il proprio voto da Ddp e Dvp al partito conservatore, probabilmente per l’effetto dei problemi di politica estera e dell’esperienza traumatica del Trattato di Versailles (p. 51). Il monarchismo e il nazionalismo del Dnvp fecero la differenza dal punto di vista identitario. Dopo le elezioni per il Reichstag del 1928 ci fu anche la caduta del conservatorismo tedesco. Il Dnvp era un partito di opposizione e antisistema arrivò alle elezioni del dicembre 1924 a diventare la seconda fazione all’interno del Reichstag dopo la Spd. Ma gli inevitabili compromessi dovuti alla partecipazione al governo, provocarono un aspro confronto con l’ala destra del partito che chiedeva la continuazione della linea antirepubblicana. L’elezione del nuovo segretario Alfred Hugenberg portò il Dnvp sul fronte antirepubblicano e antiparlamentare. Il partito assomigliava sempre più, nei contenuti e nei metodi, al Partito nazionalsocialista. Hitler raggirò e usò i conservatori per poi respingerli una volta arrivato al potere. «Il collasso della Repubblica di Weimar fu provocato soprattutto dall’erosione di due dei suoi pilastri principali, quelli costituiti dal liberalismo e dal conservatorismo borghesi» (p. 61). All’interno del primo esperimento repubblicano tedesco venne così a mancare un fronte liberale, che avrebbe potuto dare un contributo fondamentale al funzionamento di una democrazia rappresentativa. Prima del 1933, secondo Wirsching, la struttura costituzionale repubblicana era sostanzialmente deteriorata. La compresenza di crisi economica e crisi statuale aveva traumatizzato i tedeschi, e Hitler ebbe così la strada spianata per avviare un tentativo di “rinascita nazionale”.
Nella seconda parte del volume, intitolata L’eredità di Weimar, cent’anni dopo, l’autore affronta il dibattito storiografico sulla prima Repubblica tedesca. Negli anni successivi al 1945 l’obiettivo era evitare che Bonn potesse “diventare Weimar” e, fino agli anni Ottanta, Weimar fu rappresentata come un’esperienza negativa, un modello di sconfitta della democrazia. Dopo la riunificazione tedesca avvenuta nel 1990, lo “spettro di Weimar” scomparve insieme alla sua funzione storico-pedagogica. L’analisi storiografica cambiò prospettiva, fu superata l’interpretazione della Repubblica come storia della “catastrofe tedesca”. L’interesse si era spostato dalle cause del fallimento di Weimar alla più generale crisi della modernità[2], di cui Weimar rappresenta il culmine, ma i cui primi sviluppi risalgono all’incirca all’inizio del XX secolo. Dagli anni Settanta nuovi nuclei tematici vennero esplorati dagli storici: l’esperienza culturale[3], la storia delle donne, la storia dei media, la politica sociale, la tecnica, la musica, l’esperienza del corpo e della fisicità.
Negli ultimi anni si è reintrodotta nel dibattito pubblico tedesco la “paura” di Weimar, legata all’aumento di consenso dei movimenti di estrema destra in un contesto di incertezza economica e disordine politico. Una nuova crisi della democrazia tedesca è all’ordine del giorno? È possibile cogliere dei paralleli con la situazione del 1933? Wirsching vuole innanzitutto dimostrare le differenze principali presenti oggi in Germania. La Repubblica Federale Tedesca ha una lunga tradizione, è una democrazia pluralista solida e il territorio dell’ex Rdt fa ormai parte della Repubblica federale da un numero di anni doppio rispetto all’intera esistenza della Repubblica di Weimar. «A Weimar molte delle élite politiche avevano un atteggiamento scettico rispetto alla repubblica, se non addirittura ostile» (p. 127). Oggi le cariche più importanti a livello statale sono ricoperte da uomini convintamente democratici. Una delle differenze messe in evidenza dall’autore è quella prettamente costituzionale. «La Costituzione di Weimar (Weimarer Reichsverfassung) era stata pensata come la più democratica di tutte le costituzioni democratiche» (p. 111). I padri costituenti idearono come garanti il Presidente del Reich e l’istituto del referendum popolare. Il ricordo negativo di Weimar fu decisivo nella redazione della “legge fondamentale” (Grundgesetz) e gli elementi di democrazia diretta e il potere del presidente della Repubblica sono stati ridimensionati nella Germania attuale.
Un’ulteriore differenza cruciale riguarda la formazione dei partiti politici. L’attuale sistema dei partiti tedesco è una forma di pluripartitismo polarizzato: il partito della Linke (Sinistra) mette sotto pressione il Partito socialdemocratico, mentre Alternative für deutschland (Alternativa per la Germania – AfD) promette un conservatorismo più radicale rispetto ai programmi della Cdu/Csu. La polarizzazione attuale non è però paragonabile a quella avvenuta nel periodo weimariano. Oggi in Germania non ci sono grandi partiti estremisti o antisistema. Invece, tra il 1930 e il 1933, la maggior parte degli elettori conservatori e liberali passarono al Nsdap e il partito nazionalsocialista divenne la formazione che rappresentava una quota importante della media borghesia protestante: «Il 37% degli elettori che diedero il proprio il loro voto al Nsdap non erano nazisti convinti, milioni di persone votarono Hitler per protesta, e per la sensazione di non avere alternative» (p. 117). Wirsching analizza inoltre il problema del radicalismo contemporaneo dell’estrema destra in Germania ritenendo che uno sviluppo simile sia attualmente da escludere. Nella Repubblica di Weimar esistevano anche estremisti di sinistra. Il Kpd non riconobbe spesso la differenza tra “democrazia borghese” e fascismo e la propaganda comunista dell’epoca considerava i socialdemocratici come “agenti del capitale” e “socialfascisti”. La divisione del movimento operaio tedesco contribuì direttamente a indebolire il complesso delle forze democratiche. Oggi la Linke, nonostante abbia un’idea di democrazia diversa da quella liberale, non è certo un pericolo per l’ordine repubblicano.
Andreas Wirsching concludendo propone al lettore una discussione sul populismo, oggi tanto presente nelle democrazie occidentali, e presenta una definizione di populismo moderno: «Essi rifiutano di considerare la realtà plurale e complessa come punto di partenza della politica, costringendo i conflitti nelle società moderne nelle categorie di un rigorismo pseudo-morale che in ultima istanza conosce soltanto colpevoli e vittime» (p. 121). Secondo l’autore l’esasperazione dell’opposizione amico/nemico è politicamente radicale e si confonde con l’estremismo. La critica retorica contro la classe dirigente appartiene sia al populismo sia al radicalismo di destra. Il miglior esempio storico è Hitler. Per Wirsching, egli costruì, attraverso una propaganda basata sullo schema amico/nemico, un’identità popolare nazionalistica. Hitler contrapponeva alla visione complessa dei partiti democratici le “leggi naturali della vita” e l’istinto naturale del popolo e propose risposte semplici alle questioni urgenti dell’epoca. La sconfitta nella Prima guerra mondiale era, ad esempio, risolta con la retorica della “pugnalata alle spalle” (Dolchstoß) e tutte le responsabilità della crisi economica venivano imputate ai partiti del sistema repubblicano.
L’autore ritiene che sia difficile ritrovare condizioni analoghe nel nostro tempo ma ci richiama alla cautela e a prestare attenzione ad alcuni temi cruciali, primo fra tutti le crescenti disuguaglianze sociali. In ultima istanza lo storico tedesco propone nella crisi attuale dell’UE di europeizzare il ricordo storico del fallimento della Repubblica di Weimar. “Europeizzare Weimar” significa avere la cognizione dell’imprevedibile, dell’arrivo dell’inatteso. L’esperienza del primo esperimento democratico tedesco e il suo drammatico fallimento ci ricordano la fragilità della democrazia rappresentativa.
[1] Storico, è attualmente direttore dell’Institut für Zeigeschichte di Monaco-Berlino. Ha insegnato Storia moderna e contemporanea nelle università di Augusta e Monaco.
[2] D. Peukert, La Repubblica di Weimar. Anni di crisi della modernità classica, Bollati Borighieri, Torino 1996.
[3] P. Gay, La cultura di Weimar, Edizioni Dedalo, Bari 1978.