Recensione a: Stefano Massini, 55 giorni. L’Italia senza Moro, il Mulino, Bologna 2018, pp. 176, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Giacomo Centanaro
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Sul caso Moro esiste una fitta e rigorosa letteratura, arricchitasi specialmente nell’ultimo anno, che si concentra sui retroscena politici, sulla narrazione didascalica degli eventi e sull’analisi dei protagonisti di quei fatti. 55 giorni. L’Italia senza Moro non ci parla di via Fani, della Renault rossa o dei servizi segreti, ma di Rino Gaetano che si esibisce sul palco del Festival di Sanremo, di Niki Lauda che, nonostante le ustioni, decide comunque di gareggiare e del Napoli di Ferlaino che acquista Beppe Savoldi per la cifra astronomica di due miliardi di lire. Ed è proprio grazie a questo taglio singolare che il lavoro di Massini si discosta dalla letteratura preesistente.
Scrittore, drammaturgo e sceneggiatore, nel suo libro Massini dimostra grande finezza nell’analizzare l’Italia che vive incredula quei due mesi e nell’interpretarne le reazioni, spesso irrazionali. Nelle parole di Massini non c’è giustificazione ideologica, ma una profonda comprensione di quelle dinamiche sociali e della loro origine. La narrazione si snoda attraverso le grandi passioni italiane che, mentre si consumava la tragedia di Moro, esercitavano il loro ruolo di cartina di tornasole dello stato emotivo degli italiani. Lo si evince facilmente dai capitoli: “L’Italia in hit parade”, “L’Italia in campionato”, “L’Italia sul telecomando”, “L’Italia al giro”. A questi si alternano piccoli intervalli, chiamati dall’autore “intermezzi pubblicitari”, per ricordarci che, in una società di cittadini-consumatori che vedono i propri modelli di vita minacciati, le battaglie ideologiche si combattono anche sugli scaffali del supermercato.
La decisione di scrivere questo libro deriva da un autentico senso di coinvolgimento personale dell’autore nella vicenda che, per usare le sue parole, rappresenta «una macchia indelebile, l’equivalente laico di un peccato originale che nessun battesimo avrebbe potuto emendare» (p.9). Il confronto in camerino, dopo uno spettacolo, con due degli esecutori materiali del sequestro Moro, è per Massini l’innesco necessario per narrare di una guerra che «non è solo la cronaca di un sistema di una somma di battaglie, quanto l’emergere di una somma di cause e di contesti» (p.14). Fin dalla premessa l’autore chiarisce che la sua sarà un’analisi della società, «studiare ciò che si muove sullo sfondo è in realtà un far luce sul primo piano, pur senza mai citarlo» (p.14); «questo non è un libro sul calvario di Moro, ma su ciò che si muoveva dietro e mentre quei fatti accadevano».
Una nazione nel pieno di una profonda crisi istituzionale e d’identità
Quella che si presenta agli occhi dell’autore è una nazione confusa, nel pieno di una profonda crisi d’identità, culturale e istituzionale, una nazione che ha vissuto solo in parte la liberazione emancipatrice del Sessantotto, frenata da istituzioni e costumi monolitici e che, esitante, prova a muovere i primi passi nella libertà promessa da nuovi modelli. L’Italia del ’78 appare come un mosaico di contrasti e le chiavi di accesso di cui l’autore si serve per riuscire a decifrarlo spaziano dai grandi successi della top ten alle vite vissute sul filo del rasoio di giovani promesse del calcio, piloti e pugili.
La narrazione di Massini, quindi, si avvale delle storie personali di decine di individui protagonisti di numerose rivoluzioni, indipendentemente dal fatto che queste fossero combattute con i versi, con lo sport o con i mitra. Già nel primo capitolo vediamo contrapposti due tentativi molto diversi di scardinare l’uniformità della società italiana: mentre a Trieste Franco Basaglia assume la direzione del manicomio, dove elabora e mette in pratica la sua nuova via alla psichiatria fondata sulla comprensione, sull’inclusione e sull’assunto della specificità di ogni paziente, a Chiavari Renato Curcio e Mara Cagol fondano le Brigate Rosse. Ma la rivoluzione riesce solo a Basaglia e al suo riformismo democratico. La figura di Basaglia viene contrapposta anche a quella del Dott. Giorgio Coda, noto come “l’elettricista”, che attraverso il suo brutale accanimento sui pazienti, colpevoli di essere semplicemente “diversi”, rappresenta gli istinti punitivi, fobici e repressivi che animavano parte dell’opinione pubblica italiana.
Importante e imprescindibile per comprendere il clima in cui queste persone agivano è la colonna sonora che li accompagnava; successi pop come Gianna, Triangolo e Pensiero Stupendo sono manifestazioni dei desideri troppo a lungo repressi di un’Italia che aspira a una nuova Liberazione, che non sia gradassa e caricaturale come quella animata da avvenenti vigilesse e maestre delle sexy commedie all’italiana, e che si scopre immatura, «sedicenne e sedicente adulta, illusa d’essere avanti». L’Italia attendeva l’alba del nuovo giorno senza che la notte potesse dirsi ancora conclusa. L’analisi della hit parade procede meticolosa verso per verso analizzando temi come la clandestinità e il dilemma del passaggio tra pensiero e azione, che oltre Anna Oxa in Un’emozione da poco ha riguardato anche i giovani brigatisti, alle prese con una scelta totalizzante, un’etica assoluta che non ammetteva deroghe o esitazioni, il cui fine ultimo legittimava ogni azione. Il clima dell’ambiente musicale italiano, quindi, rispecchiava abbastanza gli umori del paese: Fabrizio De Andrè era sorvegliato dai servizi segreti, la RAI censurava le labbra di Mina e Giorgio Gaber si rifugiava in Svizzera temendo per l’incolumità della propria figlia.
Come la musica, anche la pubblicità era una «spinosa questione politica», come la definisce l’autore. La maggior parte degli slogan pubblicitari nel 1978, si parlasse di tonno in scatola o di automobili, aveva la pretesa di squarciare il Velo di Maya che avvolgeva i consumatori e di far emergere la verità che era stata fino ad allora colpevolmente tenuta nascosta. Analoga operazione verità viene portata avanti su un altro fronte, quello delle Brigate Rosse: «Moro è concepito […] come garante di un sistema illusorio, falso, da cui l’opinione pubblica deve essere opportunamente svegliata. Ebbene, in realtà l’obiettivo del processo popolare a Moro sembra essere rilanciato in tutta la pubblicità del momento». Si assiste contemporaneamente all’istituzione di due tribunali, ritenuti i soli legittimi: il Popolo e i consumatori.
Un libro senza Moro
Nel 2014, intervistata dal sito noteverticali.it, Barbara Balzerani affermerà che, nonostante la radicalità delle scelte cui la vita da brigatista l’aveva costretta, mai si sarebbe piegata alla normalità come valore, evidentemente perché espressione della «narcosi del popolo», assuefatto allo sfruttamento dalla dottrina imperialista dominante. Il ’78 era, insomma, un anno «in cui un malcelato malessere covava contro tutte le possibili forme di autorità, comprese quelle televisive e cinematografiche», in cui anche gli storici conduttori, i numi tutelari della televisione pubblica, rivestivano una carica informale di garanti dell’unità e del costume nazionale; e come tali erano trattati.
Costante è la dimensione del conflitto latente, pubblico e privato, che nessun Vangelo, misura di sicurezza o affetto personale può neutralizzare. Le frustrazioni represse sono ovunque, dentro e fuori le mura della famiglia patriarcale, ogni ambito della vita quotidiana diventa campo di battaglia. Si va da cantanti costretti a subire i giudizi di estemporanei Tribunali del Popolo a madri austere costrette a narcotizzare la prole troppo incline all’insurrezione, attraverso la somministrazione tattica di merendine portentose, ovviamente fornite dal grande Capitale. È un’Italia divisa, animata dalla volontà di essere “altro” rispetto al modello unico imposto ora dal senso comune, ora dalla televisione di Stato. Era così nella moda come in politica, tanto che persino gli eroi della Resistenza, figure storiche del granitico Pci, vennero delegittimati, accusati dalla galassia dei movimenti autonomi di essere solamente l’altra faccia della Reazione. D’altronde è destino che il figlio uccida il padre.
L’Italia senza Moro è anche un libro senza Moro: sull’evocativo palcoscenico preparato da Massini la tragedia e il ruolo del Moro statista non vengono rappresentati, restano dietro le quinte mentre orde di comparse si impossessano della scena. A questo proposito Massini è molto chiaro e precisa: «Raccontare il sequestro di Aldo Moro non mi compete, non è argomento da Stefano Massini, che non è un analista politico né uno storico».
Per lasciarci con un’immagine fedele del nostro Paese durante questi 55 giorni, l’autore si serve di una pietra miliare del cinema italiano, L’ingorgo, diretto da Luigi Comencini, girato proprio nel 1978. «Su quel tratto di strada è di fatto fotografata l’Italia, in un mosaico di continue contraddizioni e prevaricazioni, conflitti irrisolti, fratture sociali, menzogne incrociate, imprenditori, operai, giovani sbandati e borghesi abbienti; tutti ugualmente bloccati, un Paese costretto a guardarsi negli occhi e a riconoscersi».