Recensione a: Tiziano Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano, il Mulino, Bologna 2016, pp. 312, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Prina Cerai
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Quando il grande pubblico si imbatte nella figura di Abraham Lincoln spesso e a ragione, per la mancanza di strumenti adeguati, ne vede ritratta la potenza simbolica, in qualità di salvatore della nazione e di redentore della condizione degli afroamericani. Un’immagine semplificata, ai più veritiera, che la mastodontica statua del Lincoln Memorial di Washington e il volto scolpito nel granito del Monte Rushmore contribuiscono a trasmettere nella cultura di massa, recentemente deliziata dalla trasposizione cinematografica offerta da Daniel D. Lewis e Steven Spielberg in Lincoln (2012), forse una delle più magistrali interpretazioni nella storia del cinema statunitense. Ma come la storia ci insegna, dietro alla facciata delle imprese e delle conquiste della civiltà perseguite dai grandi personaggi si celano complessità che solo professionisti e specialisti possono farci cogliere. Tiziano Bonazzi, nella sua biografia di Lincoln nell’omonimo libro, ha il merito di coniugare la rigorosità della ricostruzione storica ed una narrativa piacevole e coinvolgente, offrendoci la straordinaria possibilità di conoscere e comprendere in tutta la sua grandezza e conflittualità una delle quattro figure più importanti nel pantheon degli statisti americani, inserendola in un contesto storico estremamente dinamico e decisivo per la formazione degli Stati Uniti.
Il lettore troverà il ritratto di una vita esemplare, di un self-made man che pare evolversi in contemporanea con le contraddizioni di un paese in via di costruzione, come se la quotidianità del futuro Presidente, della sua ascesa professionale, dei suoi travagli interiori, psicologici e morali, siano in realtà una sorta di premonizione della prova che attende gli Stati Uniti: la tenuta, o meno, dell’esperimento democratico americano, in bilico tra la negazione della sua ragion d’essere e la rinuncia alla sua vocazione morale, primordiale ed ultima, sogno dei padri fondatori: la realizzazione della patria della libertà e dell’uguaglianza e faro di speranza per la gens du monde. Contrastando la spesso abusata narrazione «eccezionalista» statunitense, Bonazzi ci delizia con un tessuto narrativo che si fa racconto locale e globale, cifra attraverso cui leggere l’enjambement tra la travagliata formazione etico-religiosa di Lincoln e la macro-storia di un paese pienamente inserito – un punto su cui l’autore insiste con decisione – nel contesto della modernità atlantica, delle vicende europee e di un mondo in piena evoluzione. Cogliere, secondo l’interpretazione dell’autore, il connubio tra la formazione personale di Lincoln e la (tras)formazione del paese significa anche riflettere sui concetti chiave che scuotono le fondamenta della Repubblica americana e che plasmano, in un incessante lavoro introspettivo, il pensiero etico-politico di Lincoln.
Gli Stati Uniti e la modernità euro-atlantica
Il richiamo di Tiziano Bonazzi alla storia transatlantica, alla stretta interdipendenza tra la modernità europea e alla sua riconfigurazione nella wilderness americana, è sicuramente un prisma interpretativo illuminante nell’economia del testo. I riferimenti presenti in quasi in tutti i capitoli ci fanno soffermare su una riflessione che sembra abbattere la tradizionale mitografia; la prima parte del libro infatti, oltre a raccontare nel dettaglio gli inizi del giovane lavoratore dell’Illinois e gli sviluppi socio-economici dell’Unione, analizza criticamente le condizioni materiali e le ragioni costituzionali che vorrebbero fare dell’esperimento democratico americano un’eccezione rispetto alla «Grande Europa» e, seguendo la stella polare dei Padri Fondatori, il custode dell’eredità inestimabile lasciata al «popolo eletto della Bibbia» – la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione di Philadelphia – fino al suo compimento ultimo. Il distacco e il ribrezzo verso il dispotico e sanguinario processo di state-building europeo, segnato dalla irrisolvibile tensione e conflittualità insite nella sovranità statuale dello jus publicum europeum – il limes quale principio d’ordine della politica, gli stati come soggetti superiorem non recognoscentes – si evince dalla volontà dei costituenti di adottare il federalismo come soluzione per sfuggire al tragico destino del Vecchio Continente e salvaguardare le condizioni essenziali per la neonata democrazia: libertà ed uguaglianza. Ma come osserva giustamente l’autore, gli Stati Uniti «erano troppo differenziati al loro interno e al tempo stesso troppo immersi nel vortice della politica atlantica perché i pur brillanti, colti e moderni padri costituenti potessero giungere a un risultato privo di ambiguità» (p. 28). Infatti, nella fase storica che parte dalla Rivoluzione del 1776 e giunge alla guerra civile, passando per l’età jacksoniana, gli Stati Uniti sono tutt’altro che un sistema nazionale consolidato, attraversati in realtà da una pluralità composita, già presente nell’insieme delle tredici colonie.
Da un punto di vista della filosofia politica, il progetto che emerse quando i coloni ribelli si unirono al motto give me liberty or death era tutt’altro che un esperimento innovativo e depurato dalle incrostazioni della sovranità europea, poiché con la Dichiarazione d’Indipendenza i delegati delle ex colonie avevano automaticamente e quasi inconsciamente riconosciuto di rappresentare degli «Stati», finzione politica elaborata dalla teoria hobbesiana per scacciare lo spettro dello stato di natura e dare vita alla società civile. Un’eterogeneità che rischiava di essere soffocata dall’imperialismo mercantile europeo, che avrebbe potuto attentare alla vita dell’ancor fragile democrazia americana. La Costituzione repubblicana approvata alla Convention di Filadelfia nel 1787 dunque fu prima di tutto una strategia per rispondere all’emergenza e, nonostante sarebbe stata riconosciuta come uno dei fondamenti della modernità, fu partorita da una élite la cui expertise era figlia del liberalismo europeo, nonostante tracce innegabilmente autoctone – il federalismo quale negazione del principio dell’indivisibilità del potere sovrano. Le ambiguità della cultura politica americana dunque riflettevano la realtà di un esperimento che era inestricabilmente connesso alle radici della modernità europea, costruitasi sulla logica spaziale duale di Stato e Colonia come strumento per rispondere allo shock causato dalla scoperta dell’Atlantico, prima crisi dell’eurocentrismo. Ciò è particolarmente vero nell’analisi del pensiero di Thomas Paine, dove si evince che il repubblicanesimo americano si sia nutrito di tali aspetti per costruire il «polo post-coloniale della sovranità moderna». Il popolo americano, sollevatosi per liberarsi dal giogo imperiale britannico, desideroso di autogovernarsi e di darsi una propria forma politica, avrebbe dovuto accettare che il «male» del governo fosse necessario per governare una società civile in piena espansione. Il mancato ricorso alla logica statuale operata dal Leviatano era però figlio della condizione originaria della società americana, libera, autonoma, intraprendente, fondata sul primato della proprietà. L’adozione di una forma di «sovranità duale», che non soffocasse le istanze civili per plasmare un tutto omogeneo, neutralizzato e che desse respiro agli Stati all’interno dell’Unione, può definirsi «popolare, non solo perché è repubblicana (cioè opposta a quella monarchica europea), ma anche, e primariamente, perché nella sua essenza resta plurale»[1]. Negando così la contrattualistica europea come forma di organizzazione del potere nello spazio, gli interessi plurimi presenti nel territorio statunitense –pubblici e privati – erano garantiti da una duplice forma di cittadinanza che rifletteva una divisione cooperativa del lavoro, per l’interesse del governo e dei corpi commerciali, ma comunque destinata ad essere molto competitiva al suo interno. Nonostante il sistema partitico assicurasse una democrazia nazionale vivace e partecipativa, «anche se gli Stati Uniti erano guardati come un esempio di libertà e progresso e sebbene la loro economia fosse fra le più vivaci al mondo, il paese non aveva una forma nazionale» (p. 84).
Lincoln e il nation-building americano: guerra, razza, religione e legge
I primi decenni dell’Ottocento mostrano infatti una mappatura geografica, economica e sociale estremamente variegata, la quale rifletteva una visione del futuro e dei propositi ideologici rivoluzionari tutt’altro che condivisa dai singoli stati. Il tutto in un costante «movimento», verso Ovest ma anche verticalmente. Una società fortemente localizzata, legata alle risorse del territorio di appartenenza e che, contrariamente alla visione simbolica della «frontiera» coma massima espressione dell’eccezionalità americana nel suo cammino verso il Pacifico, vede nell’esperienza di Lincoln paradossalmente la sua parziale negazione. L’Illinois, dove il futuro presidente matura attraverso sudore e umili occupazioni, è un segmento di quest’ultima che si è trasformato in quegli anni in una realtà agricolo-commerciale, nella quale Lincoln costruirà il proprio spazio e poi, fuggendo dalla condizione rurale della famiglia, il punto di partenza della sua ascesa sociale: prima avvocato autodidatta e poi politico confinato alla cittadina di Springfield. Dunque anche nella stessa biografia del futuro presidente il mito del West oscilla, perché la frontiera cede il passo ad una civilisation urbana e industriale di indubbia matrice europea. E proprio in questa fase, a cavallo degli anni 40’, un ambizioso «notabile di provincia» e politicante affronta il distacco da un passato religioso che, a parte la nuova veste d’alto borgo, non lo aveva del tutto allontanato dalle radici famigliari mentre il paese stava affrontando il manifestarsi di una delle sue prime contraddizioni: con l’acquisizione della Louisiana (1803) e la progressiva proiezione continentale, gli Stati Uniti si destreggiavano con una politica d’espansione desueta, appropriandosi di una retorica provvidenzialista – la teoria del Manifest Destiny – che li avrebbe legittimati quali dominatori dell’intero sub-continente. Un dominio che non rifletteva la frammentazione interna che assumeva sempre di più caratteri bipolari, tra un Nord in fase di industrializzazione e un Sud ancorato al sistema di piantagione, in una situazione di crescente tensione e che culminò con il Compromesso del 1850, quando emerse un intreccio pericoloso tra due ideologie incompatibili e le questioni costituzionali lasciate irrisolte a Filadelfia. Un dualismo, quello tra il free labor system e la schiavitù – un’incompatibilità che già Alexis de Tocqueville aveva acutamente profetizzato nel progressivo dispiegamento della democrazia americana – che avrebbe messo il paese di fronte alla nefasta prospettiva dello smembramento dell’Unione e, di conseguenza, del naufragio del sogno americano.
Proprio in quegli anni Lincoln aveva incominciato a riflettere sulla a-moralità dello schiavismo, considerato anti-americano proprio perché potenzialmente divisivo, una possibilità che alimentò la sua lunga e tormentata riflessione. Distaccatosi dall’afflato religioso paterno e sempre più devoto al razionalismo giuridico, Lincoln maturò la convinzione che l’unico modo per rispondere alla crisi del paese fosse abbracciare la «religione politica», basata sull’idea che legge e morale fossero le armi che la Costituzione avrebbe offerto per difendere l’integrità dell’Unione: questo non è che «[…] il seme di tutto il pensiero di Lincoln, il suo modo per fare della Costituzione e del diritto un oggetto di devozione sacra. Nelle sue parole il tempo e gli impeti distruttori sono elementi da governare strettamente con la ragione del diritto» (p. 78). Ai suoi occhi gli Stati Uniti erano tali poiché usciti insieme dalla Rivoluzione e il testo costituzionale rappresentava proprio il portato storico di quell’esperienza e dell’irrinunciabilità del patto federativo. La difesa incondizionata dell’integrità degli Stati Uniti e della loro legacy costituzionale divenne così la contingenza per farne una Nazione, nel senso ottocentesco ed europeo del termine. In questa cornice la presa di posizione sulla schiavitù diventò l’oggetto centrale dell’ascesa elettorale e del passaggio dall’ormai decadente partito whig – dalla cui ideologia ereditò la fiducia nel progresso e del self-improvement – al neonato partito repubblicano. I suoi discorsi e le orazioni pubbliche lo proiettarono verso la politica nazionale, in una situazione ormai infuocatasi dopo che la sentenza della Corte Suprema Dred Scot (1857) aveva accelerato la discesa del paese verso l’oblio. Favorito in un contesto di «balcanizzazione» del partito democratico e di frammentazione del Grand Old Party, la sua figura mediatrice poté infine imporsi con l’elezione presidenziale. Sprofondata in una sanguinosissima guerra civile, la nazione americana, prosegue Bonazzi, parve nuovamente riconnessa al destino della Grande Europa; la frattura territoriale, l’emergere di due nazionalismi contrapposti – entrambi convinti di rappresentare il destino della democrazia americana e l’incarnazione del mito – e la cruda realtà della guerra industriale sembrarono compromettere per sempre l’eccezionalità americana. Da quel momento in poi Lincoln, in qualità di Commander in Chief, si vedrà costretto a condurre una duplice battaglia: la hard war, nell’intento di sconfiggere l’esercito confederato di Robert E. Lee e, inevitabilmente connessa, quella politica, morale nei feroci dibattiti a Capital Hill, per ottenere l’approvazione del XIII Emendamento: «[…] Lincoln dava un’interpretazione della guerra come grande evento storico non perché destinata a salvare l’unità degli Stati Uniti, ma perché si poneva il compito di portata universale di abbattere la schiavitù riportando il paese a essere la stella polare dell’umanità» (p. 235).
La tragica e trionfale eredità di Abraham Lincoln
L’autore con grande perspicacia vede nella guerra civile l’esperienza in cui Lincoln manifestò tutta la sua maturazione etico-politica, un processo tortuoso, magistralmente ricostruito, che mette in luce il tentativo di Lincoln di sottomettere al lume della ragione un dilemma lacerante, che lo ha accompagnato per tutta la sua vita: sondare il rapporto tra l’uomo, la Storia e la provvidenza divina, nella misura in cui lui stesso potesse plasmare la realtà o quanto fosse impotente di fronte al tracciato ineluttabile dell’Onnipotente. Il sangue versato dai soldati americani nelle cruente battaglie campali lo convince che la guerra sia un passaggio obbligato per preparare la Nazione alla definitiva consacrazione. In questa visione profonda di una realtà sconvolta dagli orrori della guerra, Lincoln non demonizzò i suoi avversari, non credeva che i confederati fossero il male assoluto – erano sì carnefici ma anche vittime di uno sviluppo dettato da contingenze economiche e geografiche – ma era convinto che la «cospirazione schiavista» per opera dei sudisti avrebbe potuto mettere a repentaglio l’Unione e le istituzioni americane. Non per questo il suo rapporto con la schiavitù era limpido e netto come la corrente abolizionista radicale; come molti suoi concittadini provava repulsione verso un’istituzione che da un lato deprimeva il valore del lavoro – un punto determinante nella sua concezione che fa dell’operosità uno strumento di improvement ma anche di auto-controllo per governare, come nel suo caso, il turbinio di passioni, emotività e crisi depressive che rischiano di condannarlo all’impotenza e al fatalismo – e dall’altro impediva agli afroamericani di sviluppare la propria umanità. Tuttavia, nel riconoscere il loro diritto alla libertà, Lincoln non hai mai elevato la loro «razza» al pari dei bianchi, non fu il loro «redentore» né si lasciò trascinare da un progressismo radicale. Ed è questo l’ultimo passaggio di una riflessione realista, dominata dalla «theory of necessity» che lo allontana da qualsiasi velleità utopistica, che assegna alla guerra un significato più profondo, una lotta per garantire la libertà a generazioni a venire e così facendo salvare i propositi universalistici, umanitari della Rivoluzione del 1776. Compattata buona parte dell’Unione e guadagnatosi l’appoggio internazionale, il Sud dovette capitolare dopo quattro anni di conflitto, scontando nel lungo periodo il divario economico con gli yankee e l’isolamento diplomatico.
Nella parte conclusiva, continuando a sottrarre il lettore dalla trappola del mito americano, Bonazzi indaga alcune peculiarità del mito politico che sorregge il personaggio, discutendo della «inconoscibilità della storia» con cui Lincoln, oscillando tra «impotenza disperata» e «impotenza pacificata» (p. 289), continuamente si confronta. La biografia finale del Presidente, arcinota per il trionfo e l’assassinio per mano di John Wilkes Booth, ha raggiunto lo zenit della popolarità incoronando Lincoln quale icona indiscussa degli Stati Uniti. Ma è un finale agrodolce, in quanto come descrive l’autore il paese si ritroverà molto diverso rispetto alla nazione orfana del suo salvatore quella notte del 14 Aprile 1865. Nel giro di qualche decennio, convinti di essere il deus ex machina della modernità pur non essendolo, restii ad accettarne le radici pur possedendone la genetica, gli Stati Uniti ristabiliranno una certa sintonia con la Grande Europa, recuperando mitologie nazionalistiche e istanza centralizzatrici. Ma il vero e mancato retaggio lincolniano resterà ancora a lungo quella «linea del colore» che terrà separati i bianchi e gli afroamericani. Formalmente liberi, ma sostanzialmente non eguali. Una delle tante aporie originarie della democrazia americana, foriera di una crisi morale e costituzionale, che nemmeno una figura epica e una tragica guerra avrebbero cancellato. Grazie all’abile ed esperta penna di Tiziano Bonazzi queste verità della storia americana, la diade libertà/schiavitù e la vicenda personale di Abraham Lincoln rivivono perfettamente in armonia e in tutta la loro potenza.
«Se considero gli Stati Uniti del nostro tempo vedo bene che in una parte del paese la barriera legale che separa le due razze tende ad abbassarsi, ma non quella dei costumi: vedo dunque indietreggiare la schiavitù, ma non il pregiudizio che l’ha fatta nascere»[2].
[1] Raffaele Laudani, Mare e Terra. Sui fondamenti spaziali della sovranità moderna, in «Filosofia politica», 3, 2005, pp. 524-528, cit. p. 527.
[2] Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America, a cura di Nicola Matteucci, «Collana Classici del pensiero», Torino, Utet, 2007, cit. p. 338.