Recensione a: Alessandro Barbero, All’arme! All’arme! I priori fanno carne!, Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 176, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Enrico Comes
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«All’arme! All’arme! I priori fanno carne! Armatevi, cattiva gente!» urla per le vie della città di Firenze l’orologiaio incaricato di riparare l’orologio di Palazzo Vecchio. È l’alba del 20 luglio del 1378, siamo nel bel mezzo della rivolta dei Ciompi e per tutta la notte l’orologiaio ha sentito le urla strazianti dei suoi concittadini tenuti prigionieri nello scantinato di Palazzo Vecchio e torturati per mano dei priori. Impaurito corre a dare l’allarme, letteralmente una chiamata alle armi. Quei priori incaricati di gestire il governo della città stavano «facendo carne», ovvero uccidevano e torturavano gli insorti ai quali estorcevano con la forza informazioni relative alla rivolta.
Il titolo del libro di Alessandro Barbero, edito da Laterza, ci porta al cuore di una delle vicende più note del Trecento. Ma questo testo non è un saggio sulla rivolta dei Ciompi o, meglio, non solo. È nello specifico una rilettura delle più importanti rivolte del Trecento che hanno interessato l’Italia (1358 i Ciompi e 1386 i Tuchini), la Francia (la “Jacquerie” nel 1358) e l’Inghilterra (con la così detta “The Peasants’ Revolt” del 1381). Vicende raccontate attraverso quel piglio narrativo a cui l’autore ha abituato i suoi lettori e che a giusta ragione si può definire lo “stile Barbero”: lineare, chiaro, ricco di aneddoti, a tratti quasi romanzesco, capace di restituire una tridimensionalità ai personaggi storici in grado di farli venir fuori dalla dimensione piatta della pagina scritta. Cifra stilistica che si potrebbe imputare al taglio divulgativo del testo, ma nient’affatto! Come peraltro sa bene chiunque abbia mai letto anche uno solo dei numerosi scritti accademici del professore. Già, perché Barbero di questo “stile” non ne ha fatto solo un tratto distintivo caratterizzante la sua figura mediatica, ma piuttosto un vero e proprio strumento espressivo attraverso cui comunica una ricerca magmatica e trasversale che esplora la storia lungo un percorso in cui macrostoria e microstoria si congiungono.
A voler rintracciare le origini di tale metodologia, si deve risalire a quel periodo degli studi storici meglio noto come “Scuola di Torino” inaugurato da Giovanni Tabacco, di cui Barbero fu allievo. La novità introdotta da Tabacco nello studio del Medioevo fu proprio l’apertura della medievistica ad altri campi del sapere come l’economia, l’antropologia, la storia degli insediamenti, la storia militare, consentendo così di allargare l’orizzonte di ricerca e superare alcune impostazioni storiografiche precedenti. Da questa apertura è conseguito, quindi, un nuovo modo di ricercare e leggere le fonti, restituendo voce e rilievo anche a figure della storia apparentemente marginali.
Ecco perché, ciò che Barbero restituisce con questo libro non è un mero racconto evenemenziale di alcune rivolte, ma una nuova interpretazione di quanto accaduto nel corso del Trecento e, in termini più generali, una certa forma di archeologia del Medioevo. A essere messa in discussione è la tesi “riduzionista” adottata da gran parte della storiografia moderna, che ha indotto a liquidare le rivolte del Trecento come semplici rivolte di rozzi contadini affamati, spesso mossi dalla volontà e per mano di altre “intelligenze” che si muovevano sulle loro teste in modo machiavellico. «L’idea che quei contadini fossero capaci di fare politica senza essere sobillati da qualcuno non gli veniva neanche in mente» (p. 125). In fondo, una siffatta tesi concorreva a ricalcare quella numerosa congerie di stereotipi sul Medioevo ancora oggi duri a morire. Vale a dire l’immagine di un Medioevo come epoca buia, in cui sostanzialmente servi della gleba disperati e ignoranti si rivoltano contro il feudatario malvagio che voleva esercitare lo ius primae noctis, «cioè lo stesso spunto a cui ricorrono tutti gli sceneggiatori scadenti quando devono ambientare un film nel Medioevo» (p. 124).
In realtà, come nel corso del libro Barbero si sforza di dimostrare, questi “ribelli” «avevano una chiara visione del mondo, degli obiettivi da raggiungere e soprattutto la capacità di darsi da fare per ottenerli» (p. 93). In altre parole, i protagonisti di queste vicende erano ben capaci di fare politica, del resto «vivere nel quadro della signoria medievale era una scuola di politica per tutti» (p. 127). Al punto che, secondo lo storico, sarebbe addirittura questo uno dei fattori concorrenziali alla nascita della democrazia in Europa. Ma allora, la domanda che occorre porsi è: perché ribellarsi? Cosa ha fatto sì che nel corso del Trecento ogni venti anni circa e in diversi territori scoppiassero tali rivolte?
Per comprendere le ragioni profonde di tali movimenti occorre avere ben presente il contesto storico, assunto esplicitato nelle pagine finali ma attorno cui si sviluppa l’intero libro. Il Trecento appare come uno dei secoli più profondamente segnati dall’abbattersi in Europa di una sequenza di eventi traumatici: le due ondate di peste (la prima nel 1348, l’altra meno violenta nel 1361), i fallimenti finanziari del 1346, la drammatica carestia del 1374, forse la peggiore di tutto il secolo. Per non parlare poi dell’elevato numero di morti che si registrarono a causa delle guerre. Tutto ciò ha indotto gran parte degli indirizzi storiografici a leggere tale periodo come il secolo della “crisi” che, di conseguenza, non poteva non sfociare in numerose rivolte da parte di popolani affamati e disperati. Una crisi che di fatto ci fu, ma solo se si considerano i parametri econometrici, quali la tendenza al ribasso dei prezzi dei cereali e la tendenza al rialzo dei salari: due trend evidentemente connessi al calo demografico provocato dalle crisi. Per cui, per dirla drasticamente, nell’Europa del Trecento ci furono meno bocche da sfamare, meno braccia che lavorano, meno campi coltivati e meno denaro circolante rispetto al secolo precedente.
Se però si prova a incrociare i parametri econometrici con altri dati di tipo antropologico-culturale, a delinearsi è un contesto diverso. Per esempio, il numero ridotto di braccia al lavoro fece sì che i contadini e gli operai potessero richiedere e ottenere salari più alti. Nelle campagne non più sovraffollate, i contadini potevano permettersi addirittura di abbandonare chi li pagava poco per cercare condizioni migliori; così come nelle città svuotate dalla peste, le corporazioni artigiane furono costrette ad alzare i salari per attrarre lavoratori dalle campagne. La stessa produzione tessile non conobbe una contrazione, anzi i tessuti più a buon mercato, rivolti a un consumo popolare, videro un vertiginoso incremento. Ciò non toglie, per altro verso, che il comparto tessile fiorentino, noto per la produzione di tessuti pregiati, conobbe invece una contrazione drammatica. Insomma, considerati questi aspetti, è evidente come il Trecento non possa essere banalmente etichettato come un secolo di crisi dal momento che ci sono altrettanto evidenze rispetto a un miglioramento delle condizioni di vita materiale. Per meglio comprendere tale scenario si pensi a cosa è stato il Novecento: un secolo che ha certamente conosciuto sofferenza e stragi senza precedenti, ma che al tempo stesso ha lasciato in eredità un aumento del benessere collettivo[1].
Chiarito questo, e assodato, cioè, che il Trecento fu addirittura un secolo di miglioramenti, resta ancora saldo l’interrogativo precedente, anzi sembra ora acquistare ulteriore senso: perché ribellarsi quando tutto migliora? Ecco, la chiave del libro è tutta qui. La tesi che infatti Barbero cerca di dimostrare si fonda esattamente sull’idea secondo cui sono proprio le migliorate condizioni materiali a indurre contadini e operai alla rivolta. Sempre più persone iniziano ad avere maggiore contezza del loro ruolo sociale e perciò rivendicano il diritto di poter far parte di quelle dinamiche politiche dalle quali fino a quel momento erano esclusi. Ci si batte per il riconoscimento di nuovi “diritti”, per sancire una volta per tutte l’esistenza di una parte del “popolo” sino ad allora rimasta invisibile.
Anche se la rigidità teorica della storiografia marxista la rende improponibile nella sua forma classica, è possibile riconoscerle il merito di aver compreso che quei rivoltosi «sapevano quello che stavano facendo, avevano rivendicazioni precise e si battevano consapevolmente per realizzarle». Anche in queste sommosse, di fatto tutte finite in modo fallimentare, è quindi possibile intravedere una «coscienza di classe dei rivoltosi» che ha portato a «episodi della lotta di classe tra sfruttatori e sfruttati, proprio come avviene per le rivoluzioni trionfatrici dell’epoca più vicina a noi» (p. 5).
A confermarlo sono le istanze avanzate dagli insorti. «Le richieste sono di vario genere, e comprendono fra l’altro sgravi fiscali per i poveri, schiacciati finora da un sistema fiscale troppo poco progressivo, aiuti per chi è indebitato […] ma la principale è la possibilità anche per i lavoratori di organizzarsi» (p. 68). È questo che spaventa chi fino a quel momento aveva detenuto il potere. L’idea che dei semplici lavoratori potessero organizzarsi e addirittura ambire a essere uguali ad altri era davvero qualcosa di nuovo per quel tempo. Lo stesso concetto di “popolo”, fino ad allora usato per indicare «gli imprenditori, per usare un termine del nostro tempo» (p. 44), conosce una dilatazione finendo per includere quella mole di semplici lavoratori dipendenti da un signore o da un padrone. Sono costoro l’anima delle rivolte. Del resto, come ricordato in apertura, è un semplice artigiano a chiamare alle armi il “popolo” fiorentino.
Quanto i rivoltosi si facessero portatori di istanze nuove è confermato anche dalle cronache del tempo, quelle fonti utilizzate da Barbero per catapultarci nel vivo dei giorni dei tumulti. In questi scritti «è evidente il pregiudizio dei cronisti che appartengono tutti alla classe dirigente, laica o ecclesiastica, e quindi inevitabilmente ostili» (p. 8), per i quali le rivolte sono inspiegabili e ingiustificate come lo erano appunto per quelli del loro rango. Ciononostante, dei miglioramenti ci furono, seppur minimali come dimostra Barbero nelle pagine finali di ciascun capitolo. Ma soprattutto a essere introdotto fu un cambiamento culturale, antropologico. Da sempre i nobili sapevano che per ottenere qualcosa si litiga, e se l’altro non accetta di negoziare si fa la guerra per convincerlo che negoziare gli conviene. «Adesso hanno imparato a farlo anche gli altri, anche quelli che nobili non sono» (p. 159). Si impara che la violenza può essere una continuazione della politica con altri mezzi, per cui la si esercita ma in modo controllato, governandola con lucidità, come le rivolte analizzate nel libro dimostrano.
Conclusa la lettura si ha certamente un’idea più chiara di cosa accadde in quel particolare secolo che fu il Trecento, ma quasi inevitabilmente si è spinti a porre dei parallelismi con i nostri giorni, come spesso accade quando si riflette sulla storia. Se, in quel tempo come si è per certi versi replicato anche nel Novecento, «non è quando non si arriva alla fine del mese, ma quando si comincia a stare meglio e non si ha più fame che si alimentano maggiori speranze per il futuro e si acquista consapevolezza dei propri diritti» (p. 163), cosa ne è allora del nostro presente? È forse questa la ragione di tanta disaffezione e indifferenza per la politica? Sarà forse per questo che le nostre democrazie stanno sempre più correndo il rischio di trasformandosi in autoritarismi legittimati da un “popolo” sempre più soffocato dalla morsa economica?
[1] Cfr. Alessandro Barbero e Chiara Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini, Laterza, Roma-Bari 1999 / 2015 / 2024.