Recensione a: Valerio Castronovo, L’autunno della sinistra in Europa, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 174, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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“Al volgere del Novecento molte cose stavano cambiando, in Europa, nella vita economica e sociale e nella sfera di quella pubblica. Ma non si pensava che sarebbe stata soprattutto la sinistra a non essere più capace di orientarsi adeguatamente dinanzi alle trasformazioni in corso. E invece aveva già cominciato ad arrancare, dando l’impressione di aver smarrito una bussola che le servisse da guida per agire con discernimento alla luce delle dinamiche e delle nuove sfide che s’erano delineate all’orizzonte”.
Con questa amara constatazione si apre l’ultimo libro di Valerio Castronovo, L’autunno della sinistra in Europa. L’autore, storico dell’economia e firma del Sole 24 ore, ripercorre la via crucis della sinistra europea attraverso una lucida ricostruzione politica degli ultimi vent’anni, dalla delicata transizione verso il nuovo millennio fino ai giorni nostri.
L’analisi di Castronovo non è impietosa, discostandosi in questo da una recente letteratura più eterodossa sul medesimo tema – da Marco Revelli a Slavoj Žižek, da Jean-Claude Michéa a Luca Ricolfi –, ma nemmeno generosa: se l’autore non condanna il matrimonio tra la sinistra e la globalizzazione, deludendo così chi si aspettasse di trovare nel libro una netta ostilità verso il progressismo liberal post-comunista, non per questo risparmia la sinistra dall’accusa di inettitudine di fronte alle piaghe sociali generate da un’economia sempre più incontrollata e feroce. Lo storico, sulla scia dell’economista Branko Milanovic, rivendica i benefici della globalizzazione per quanto riguarda la riduzione delle diseguaglianze tra i Paesi sviluppati e quelli del Terzo Mondo, ma ammette anche che, sul piano interno dei vari Stati, le diseguaglianze siano invece aumentate. Proprio per questo motivo l’autore lancia il suo j’accuse alla sinistra: alla fine degli anni Novanta tredici dei quindici Stati membri dell’Unione Europea esprimevano un governo proveniente dalla galassia socialista, su questa compagine politica gravava dunque la responsabilità di traghettare l’Europa verso il nuovo millennio.
Il compito della sinistra “era quello di elaborare una cultura politica e di governo che avesse per riferimento nuovi programmi e orizzonti e creare un insieme di condizioni e garanzie tali da incanalare le innovazioni di ordine strutturale in funzione dell’interesse collettivo e dell’inclusione sociale” altrimenti “le istituzioni rappresentative avrebbero corso il pericolo di venire insidiate da un’avanzata delle tecnocrazie, la speculazione finanziaria avrebbe preso il sopravvento sull’economia reale e la globalizzazione si sarebbe risolta in un processo di mercificazione anarchica anziché in un complesso di maggiori opportunità di sviluppo e di benessere per tutti” (p. 4).
Vent’anni dopo, nel 2017, la sinistra è in crisi in tutta Europa, rea di non essere stata capace di governare la globalizzazione o, ancora peggio, di non aver saputo realizzare i propri ideali programmatici, restando subalterna alla logica del mercato Da questo panorama desolante prende le mosse l’analisi di Castronovo, una acuta rassegna degli errori della sinistra di fronte alle varie sfide globali susseguitesi in questo tumultuoso ventennio.
La sinistra dinanzi alle sfide globali
Sul finire del ventesimo secolo la sinistra era tornata in auge in tutta Europa dopo l’umiliazione degli anni Ottanta, segnati da un liberismo prepotente e da un sentimento anti-statalista che trafiggeva il cuore stesso della socialdemocrazia. Da oltreoceano il democratico Bill Clinton non poteva che osservare compiaciuto i successi della nuova cultura progressista, depurata dalle incrostazioni ideologiche di un comunismo ormai dissolto nelle macerie del Muro di Berlino. Il primo errore di questa nuova sinistra, secondo l’autore, fu il mancato perseguimento di una linea univoca d’azione: nonostante gli incontri fra i diversi leader della famiglia socialista a Firenze (1999) e al castello di Charlottenburg (2000), una <<Internazionale socialista>> in grado di dare risposte condivise dinanzi alle sfide del futuro non venne mai ad esistenza. Sulla scena si erano affacciati infatti vari modelli differenti, dal New Labour inglese, indirizzato verso una profonda revisione dello Stato sociale, al socialismo di marca francese, poco incline ad abbandonare il suo tradizionale <<étatisme>>, passando infine per il modello renano tedesco; inoltre, scrive Castronovo, di fronte a questioni fondamentali di carattere generale – l’intervento in Iraq ad esempio – i leader socialisti, lungi dall’agire all’unanimità, finirono spesso per scontrarsi, con il risultato di relegare all’utopia una auspicabile linea d’azione condivisa.
L’ottimismo di quegli anni, alimentato dalle buone performance di Clinton e dalla convinzione che le nuove tecnologie avrebbero contribuito ad uno sviluppo globale in chiave progressista ed inclusiva, calò sulla sinistra un velo di Maya che le impedì di vedere ed interpretare in maniera profonda i cambiamenti in corso: il successo della moneta unica e l’andamento positivo dell’economia internazionale furono sufficienti a far sì che la sinistra si adagiasse su una morbida accettazione dell’esistente, nonostante i vari nodi strutturali che stavano venendo a crearsi. Il problema principale, secondo l’autore, riguardava un welfare divenuto troppo generalizzato ed oneroso, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione. La sinistra doveva attrezzarsi di una politica sociale svecchiata, in modo che “la soddisfazione delle esigenze collettive, da un lato, non dipendesse da vetuste forme di statalismo e, dall’altro, potesse venir perseguita in sintonia con le tendenze e le proiezioni di un mercato sempre più aperto” (p.34). Questa opera di revisione fu invece, per mancanza di coraggio, rinviata di anno in anno, complici le tenaci – ma miopi, a detta dell’autore – resistenze dei sindacati e di parte dell’elettorato garantito dal sistema messo in discussione. Nel frattempo, l’attentato alle Twin Towers pose al centro del dibattito pubblico il tema della sicurezza, un tabù per la sinistra, mentre l’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) portò con sé forti ripercussioni di ordine economico, a causa delle scorrette pratiche commerciali di quest’ultima. La globalizzazione era giunta alla sua acme.
Dal 2002 cominciarono a trapelare i primi rigurgiti nazionalisti dell’ultradestra, con i buoni risultati della <<Lista Pim Fortuyn>> in Olanda ma soprattutto con l’approdo del leader del Front National Jean-Marie Le Pen al ballottaggio nelle elezioni presidenziali francesi. La fiducia a Le Pen “rispecchiava gli umori di un paese afflitto dalla recessione manifestatasi dopo il 2001 e dalla crescita della disoccupazione e impaurito da un afflusso incessante di immigrati dall’Est […] Che non si trattasse soltanto della reviviscenza di una destra nostalgica e sciovinista […] lo dimostrava la gran messe di voti che il Front National aveva raccolto anche nelle periferie di alcune grandi aree urbane e in quelle che una volta erano le roccaforti del movimento operaio, ormai in procinto di ridursi, in alcuni dipartimenti, a squallide retrovie della deindustrializzazione”(p. 44). Questo fenomeno si presentò un po’ dappertutto in Europa: l’abbraccio soffocante di un mondo senza frontiere e le conseguenze economiche della globalizzazione avevano alimentato rabbia e frustrazione nei ceti popolari.
Inoltre, il deflagrare degli atti terroristici contribuì al cristallizzarsi, soprattutto tra le fasce deboli della società, di un sentimento di insicurezza sempre più profondo; con l’emergere dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente, questa insicurezza si tramutò in una paranoica ostilità nei confronti del diverso, soprattutto se questo di religione musulmana. La sinistra, scrive Castronovo, non si adoperò per disinnescare con misure efficaci questa ondata xenofoba – che tra l’altro riguardava gran parte del suo bacino elettorale –, arroccandosi invece, in virtù di astratti principi morali, su posizioni spesso irrealistiche, sicuramente poco lungimiranti (si pensi all’accoglienza in-condizionata, non coadiuvata da valide politiche di integrazione volte ad evitare fenomeni di ghettizzazione e marginalizzazione, di fronte ad un esodo in-governato).
Per quanto riguarda il versante economico, la crisi finanziaria del 2008 si era abbattuta su un sistema già fragile e aveva aggravato i nodi strutturali che molti Paesi in Europa non avevano negli anni precedenti risolto, a partire dalla questione dei debiti sovrani. “Erano ormai evidenti gli sconvolgimenti economici e le estreme diseguaglianze sociali che la Grande crisi […] aveva generato o esacerbato. E che si erano aggiunti alle conseguenze cumulative della rivoluzione tecnologica non solo negli scalini più bassi del mercato del lavoro, ma pure in quelli intermedi. Una profonda inversione di tendenza nella distribuzione del reddito, una crescente disoccupazione e precarietà, un groviglio di assilli e di frustrazioni sociali, avevano così ingrossato in Europa le file di quel terzo della popolazione che, già alle soglie dell’emarginazione, adesso risultava in alcuni Paesi ridotto in povertà assoluta o relativa” (p.119). La sinistra, sottolinea l’autore, non poteva però avvalersi delle tradizionali terapie keynesiane per far fronte al dilagare delle piaghe sociali – anche a causa di un’Europa divenuta una gabbia di austerità con il tacito consenso dei partiti socialisti – e direttive di marcia alternative non erano mai state elaborate. “D’altronde, se la situazione economica in Europa non era precipitata, ciò era avvenuto […] grazie soprattutto all’efficace politica monetaria in funzione anticiclica messa in atto dalla Bce” (pp. 119-120).
Conclusione: criticità e spunti di riflessione
In questi ultimi tempi la sinistra ha registrato risultati disastrosi, i peggiori dalla fine del secondo dopo guerra. Vi è stato, in primo luogo, un divorzio tra la cultura progressista e il tradizionale bacino elettorale socialista: giovani, operai, precari, fasce deboli della società. Questi sono confluiti in massa tra la braccia accoglienti dei partiti cosiddetti nazional-populisti, abili nel cavalcare le legittime paure del popolo (terrorismo islamista, insostenibile immigrazione) e nel farsi custodi dei temi economici da questo maggiormente sentiti, come la concorrenza della manodopera a basso costo e le delocalizzazioni. Temi raramente presenti nei discorsi della sinistra riformista: “È vero che i partiti riformisti s’erano intanto impegnati a favore di una democrazia liberale più avanzata in materia sia di parità di genere che della tutela di diritti civili, contro l’omofobia e l’intolleranza, e quindi in battaglie sacrosante a difesa dell’autonomia e della dignità delle persone. Tuttavia in molti, nel loro elettorato, avevano tratto l’impressione che, così facendo, si fosse finito col perdere di vista la preminenza delle grandi questioni collettive: dai problemi sociali e del lavoro, ai valori e all’etica della solidarietà nei riguardi degli <<emarginati>> e degli <<invisibili>>” (pp. 145-146). Ad accogliere questo elettorato deluso, oltre ai partiti nazional-populisti qui sopra citati, si è aggiunta negli ultimi anni una sinistra radicale critica verso la globalizzazione e i diktat di Bruxelles (Die Linke, Podemos, Syriza), un parto di quella che l’autore definisce “una sorta di malattia endemica del frazionismo e dello scissionismo” (p.146) di cui la sinistra è storicamente affetta e che, sempre a detta dell’autore, finisce col favorire le già galvanizzate destre.
Le recenti tornate elettorali parlano chiaro: l’esito delle elezioni svoltesi il 15 marzo in Olanda ha visto precipitare il Partito laburista da trentotto a nove seggi, i socialisti francesi, guidati da Benoit Hamon alle ultime presidenziali, hanno superato di poco il 6% dei suffragi e i socialdemocratici tedeschi il 24 settembre scorso sono crollati al minimo storico; mentre il risultato tutto sommato positivo dei laburisti inglesi guidati dalla vivacità riformista di Jeremy Corbyn alle ultime elezioni dell’8 giugno 2017, è da attribuire, secondo l’autore, più agli errori della sfidante Theresa May che alla validità del programma di Corbyn, liquidato da Castronovo – in modo un po’ ingeneroso e approssimativo, si pensi invece ai successi del riformismo di Costa, al quale Corbyn si ispira, in Portogallo. A parere di chi scrive, questi fenomeni meriterebbero più attenzione – come “vetero-massimalista”, un versare “del vino socialista in otri altrettanto vetusti”.
“Ma se la sinistra versa in serie difficoltà, ciò si deve al fatto che essa ha finito per arroccarsi su posizioni tradizionali o non è giunta a elaborare direttrici di marcia stimolanti ed efficaci, proprio quando si avrebbe invece estremo bisogno di provvedimenti validi e realistici, non già di panacee rassicuranti o della riverniciatura di vecchi schemi” (p.154).
Castronovo, in queste pagine, mette in luce alcune delle sfide che la sinistra non ha saputo affrontare in questi anni: dalla revisione del welfare alla regolazione del mercato, dall’immigrazione all’Europa. Il compito principale della sinistra, secondo l’autore, consisteva nella riformulazione dei propri paradigmi al fine di elaborare una nuova cultura politica adatta ai tempi: doveva definire quali elementi del proprio patrimonio ereditario “fossero ormai caduchi e si dovessero pertanto modificare” (p.7), doveva “sfrondare molti rami dello Stato proprietario, ormai secchi” (p.8), doveva “chiarire quali spazi sarebbero rimasti di competenza dello Stato” (p.33). Tutto questo, scrive lo storico, non è stato fatto poiché, il più delle volte, la sinistra “ha finito per arroccarsi su posizioni tradizionali”. La critica appare singolare: la cultura progressista emersa dalla svolta degli anni Novanta è accusata semmai di aver tradito le tradizionali politiche socialdemocratiche e di aver sposato invece quelle liberiste. L’Agenda 2010 di Schröder, ad esempio, è stata una coraggiosa opera di revisione strutturale dell’intero sistema sociale tedesco e ha trasformato la Germania da “malato d’Europa” a nazione leader del Vecchio continente; però, come ammette Castronovo stesso nel libro, questo pacchetto di riforme non ha giovato alla Spd e non sarebbe ingenuo riconoscere, a parere di chi scrive, l’esistenza di un nesso tra l’Agenda 2010 e l’autunno dei socialdemocratici tedeschi.
Viene quindi da domandarsi se Castronovo, parlando della necessità di riforme strutturali, intenda qualcosa di simile all’Agenda 2010, ovvero una profonda revisione del sistema sociale tale da renderlo “in sintonia con le tendenze e le proiezioni di un mercato sempre più aperto”. In tal caso, l’analisi di Castronovo sulle radici della crisi attuale della sinistra rischierebbe di poggiare su una tesi fuorviante: se la sinistra, come afferma, è sofferente perché “ha finito per arroccarsi su posizioni tradizionali”, non si capisce come mai la stessa sofferenza colpisca anche una sinistra, quella tedesca, che di certo con l’Agenda 2010 non può essere accusata di “riverniciatura di vecchi schemi”. Forse, a differenza di quanto sostiene l’autore, queste “posizioni tradizionali” non sono state poi così tanto frequenti nelle politiche della sinistra negli ultimi anni; e, forse, la sinistra ha riformato se stessa – verso una linea neoliberista più confacente alle esigenze della globalizzazione – più di quanto Castronovo creda.
Certo, la sinistra era costretta a prendere atto del fatto che ormai vi erano economie non più programmabili dal centro e che un passo verso la liberalizzazione era necessario, pena l’insostenibilità nel medio termine del sistema-Stato; ma, per dirla con Salvatore Biasco, questo non significava accettare incondizionatamente “l’idea che il mercato fosse il solo artefice del dinamismo produttivo e sociale e che la governance che esso genera fosse realisticamente l’adattamento più consono dell’economia interna ai nuovi caratteri del capitalismo mondiale”[1]. Che questo disarmo ideologico abbia contribuito all’autunno della sinistra in Europa?
Nonostante le criticità qui sopra accennate – la cui complessità meriterebbe un’analisi di più ampio respiro in un’altra sede –, queste pagine sono comunque preziose per chiunque voglia orientarsi tra i fatti, le vicende e i protagonisti degli ultimi vent’anni di storia politica.
[1] S. Biasco, Regole, Stato, Uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, Luiss University Press, Roma 2016, p. 119.