“Borbonia felix” di Renata De Lorenzo
- 28 Agosto 2017

“Borbonia felix” di Renata De Lorenzo

Recensione a: Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editrice, Roma 2013, pp. 232, 13 euro (scheda libro)

Scritto da Fabio Milazzo

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«Nell’ultimo quarto di secolo la memoria del Risorgimento è diametralmente cambiata per gran parte del pubblico italiano; a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che quello che chiamiamo memoria ha poco a che fare con gli eventi accaduti, molto invece con le manipolazioni del momento» (p.7). Con queste parole ha inizio l’introduzione scritta da Alessandro Barbero al volume di Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, pubblicato nella collana «Aculei» diretta da Barbero stesso per Salerno Editrice.

Testo quanto mai attuale se consideriamo quanto il Risorgimento sia oggi al centro di polemiche che strumentalizzano la storia per finalità diverse. È il caso della discussione, in seno ai Consigli Regionali di Puglia e Basilicata, sulla “Istituzione regionale della memoria atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione d’Italia”[1]. Giornata che vuole elevare «a dignità di commemorazione pubblica la ricorrenza della resa di Gaeta del 13 febbraio 1861, quale fine dell’indipendenza meridionale»[2] e «ristabilire una verità assente nei manuali scolastici».

L’operazione di presunto revisionismo, nei confronti di una storiografia ritenuta asservita a una narrazione pubblica reificata per favorire un certo assetto sociale, non è nuova e per molti versi costituisce oggi l’ossatura dei diversi populismi che dalla loro versione della storia pretendono giustizia, risarcimento e non verità. Come spesso avviene in questi casi, si fa leva sulla mancanza assoluta di certezze dimostrabili (quelle della storia ufficiale) per dedurne la messa in discussione della narrazione prevalente. Un tipico esempio di fallacia che mostra, più che la verità della conclusione, la problematicità del ragionamento che la sostiene. In ogni caso la proposta commemorativa non è nuova e rientra in una più ampia strategia di affermazione identitaria basata sulla reificazione della categoria di Meridione in un’ottica anti-italiana.

 

Borbonia felix e l’equivoco del primato

La tesi di fondo è che prima dell’Unità il Sud Italia borbonico fosse una realtà ricca, con infrastrutture e un assetto economico e tecnologico all’avanguardia. Da questa premessa deriva una tesi: «al momento dell’Unità non vi sarebbero state grandi differenze tra Nord e Sud […] Il divario sarebbe derivato da scelte industrialiste di sviluppo che favorirono una parte del paese a danno dall’altra» (p. 16). Il sostegno storiografico più forte a queste affermazioni lo hanno offerto Paolo Malanima e Vittorio Daniele[3] che, sulla base dei loro studi, hanno affermato:

«[…] non esisteva, all’Unità d’Italia, una reale differenza Nord-Sud in termini di prodotto pro capite. […] Il divario economico fra le due grandi aree del paese in termini di prodotto sembra invece essere un fenomeno successivo […] i divari regionali, assai modesti nell’immediato periodo post-unitario, aumentano nettamente per quasi un secolo riducendosi solo nei due decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale»[4].

I due storici ritengono che prima dell’Unità le differenze all’interno delle singole macro-aree (Nord e Sud) fossero più marcate di quelle tra le due realtà. Solo intorno agli anni Novanta dell’Ottocento, in coincidenza con lo sviluppo del triangolo industriale a Nord (Genova-Torino-Milano), quest’ultimo avrebbe conosciuto un progressivo arricchimento che avrebbe sanzionato il distacco dal Sud Italia. Emanuele Felice, in Perché il Sud è rimasto indietro[5], ha contestato le stime di Daniele e Malanima sostenendo che i calcoli non sono il risultato di «una stima puntuale, basata su dati reali di quel tempo»[6]. Ciò determinerebbe una sopravvalutazione del reddito pro capite al Sud che inquinerebbe tutto il discorso, di fatto falsandolo. Sempre secondo Felice il divario sarebbe invece del 20-25% a favore del Nord ma, come rilevato anche da Daniele e Malanima, con sostanziali differenze all’interno di ciascuna area. Il punto sollevato però da Felice, ripreso anche da De Lorenzo (pp.15-18), è che il presunto reddito non è l’indicatore più adatto per cogliere il livello di ricchezza di un’area, piuttosto bisogna considerare l’insieme dei settori primario, secondario e terziario, il livello delle infrastrutture, la modernizzazione della legislazione, la capacità di chi detiene il potere politico di stringere accordi e di inserirsi nelle più ampie dinamiche geopolitiche internazionali.

Se durante il XIX secolo il Piemonte elabora la propria personale via verso la Monarchia Costituzionale, anche attraverso gli accordi successivi alla partecipazione alla campagna di Crimea (pp.102-103), il Regno dei Borboni si chiude, evitando ogni riforma in campo amministrativo e finanziario e isolandosi sempre più dal contesto europeo, soprattutto nei confronti di Francia e Inghilterra. Mentre il Piemonte modernizza il commercio, l’agricoltura e le infrastrutture, con queste ultime pensate in funzione delle prime due, nel Regno delle Due Sicilie, alcuni timidi tentativi innovativi, come la celebre Napoli-Portici, aperta il 3 Ottobre 1839, non sono inseriti in un’ottica progettuale, volta a favorire lo sviluppo economico, e risultano sterili esperimenti riflesso di una moda internazionale fine a se stessa. Si spiegano così non soltanto i ritardi con cui vennero condotti i successivi lavori di ampliamento della linea ferroviaria – ancora nel 1860 si lavorava sulla Nocera-Salerno – ma anche la scelta di «coprire una zona, quella della ricca provincia di Salerno, già ben fornita di infrastrutture e mezzi di trasporto tradizionali, rispetto alle altre parti del regno» (p.17).

Diversamente, l’esistenza di un orizzonte politico economico chiaro avrebbe preteso l’iniziale potenziamento delle zone più penalizzate dal punto di vista delle infrastrutture. Primati, dunque, da sbandierare – ieri come oggi – ma slegati da qualunque visione politica di medio-termine, come del resto mostra la totale assenza di ferrovie in Sicilia, ancora nel 1861. Come afferma De Lorenzo, «di qui l’equivoco del primato, che è tale solo se diventa volano per instaurare una normalità continua e produttiva, aliena da eccessi in alto e in basso: è quest’ultima la vera cartina di tornasole di un progresso diffuso e costante» (p. 17).

 

Borbonia felix o monarchia impossibile?

Per tutti questi elementi, quella dei Borboni, nel corso dell’Ottocento, fu una monarchia impossibile (pp.35-49), sempre più soffocata dalle chiusure di un sovrano, Ferdinando II, che «ha cercato di identificarsi col primo ministro in un regime personale» (p.35) sempre più angusto, accentrato e conflittuale. Ma anche incapace di elaborare nuove forme di «legittimità di tipo nazionale-rappresentativo» (p.39) in una congiuntura che vede il sempre più rapido tramonto della «legittimazione dinastica tradizionale di diritto divino» (p.39). Anche il rapporto con la Chiesa, nonostante il riavvicinamento successivo al Concordato del 1818, si svolge all’insegna di un precario equilibrio tra «regime assoluto e giurisdizionalista e cordialità di rapporti col papato» (p.44), ciò determina un ulteriore fattore di instabilità alle frontiere del Regno.

Se però questi confini sono solo in una certa misura sicuri, è a Sud che la situazione è particolarmente tesa. I rapporti con la Sicilia sono sempre peggiori e le istanze indipendentiste dell’Isola sempre più marcate. Il conflitto, acuitosi nel decennio 1806-1815, si accentuò durante i moti del 1820-1821 quando «a Napoli venne adottata la carta di Cadice del 1821, a Palermo quella data nello stesso anno da Ferdinando I durante la dimora siciliana, con aspirazioni separatiste […]» (p.45). Tutto ciò contribuì alla radicalizzazione della frattura e alla rapida emergenza del corredo simbolico della Nazione Siciliana da opporre a quella Napoletana. Come riconosciuto ormai dalla storiografia, in questa scissione sempre più marcata va individuato uno dei fattori del rapido successo garibaldino nell’Isola.

Tutto questo mette seriamente in discussione l’idea di un Sud da contrapporre al Nord dei Savoia. Più corretto è cercare di individuare le molteplici linee di tensione, ognuna espressione di certi interessi e di determinati rapporti di potere che, caso per caso, sostennero: I) il progetto di un’Italia unita che ebbe nell’azione di Garibaldi il fattore di accelerazione; II) una Sicilia indipendente; III) un Regno delle Due Sicilie a guida Borbonica. Le ipostatizzazioni dialettiche Nord-Sud, soprattutto quando sono declinate in chiave politica, obliano proprio questa molteplicità di posizioni in campo, di interessi divergenti che rimandano al multiforme fronte di una società lacerata trasversalmente e non innanzitutto, come vuole la finzione ideologica, sul piano geografico. Di ciò è significativo esempio il ritratto dei tre fratelli Ulloa, Pietro, Antonio e Girolamo, il cui destino politico ci proietta «su emblematici livelli di partecipazione, consenso e di sofferenza nella percezione della patria prima e dopo il 1860» (p.74). Pietro, in particolare, dopo l’appoggio al regime costituzionale nel 1821, diventa uno «zelante esecutore della reazione borbonica» (p. 75) nel 1848 e da allora appoggia «pienamente la politica antiliberale del re» (p.75). Nel 1860 è tra i più attivi difensori dell’autorità del re, contro il regime costituzionale e a vantaggio dell’assolutismo. La sua figura è paradigmatica, in tal senso, proprio di quella molteplicità di punti di vista che si sviluppano e si alternano nel tempo, anche come espressione delle medesime individualità.

Renata De Lorenzo, docente di Storia Contemporanea e Storia dell’Ottocento presso l’Università Federico II di Napoli, punta su queste contraddizioni per evidenziare quanto a un certo punto abbiano interagito disponendo le condizioni per il collasso del Sud Italia borbonico. Fattori diversi quali la debolezza e la chiusura della dinastia borbonica, lo scollamento sempre più marcato rispetto alle potenze maggiormente coinvolte nell’area mediterranea, la situazione geopolitica internazionale, la congiuntura economica, la molteplicità di interessi che convergono verso la realtà che appare offrire maggiore stabilità, tutto questo ha determinato il sovrapporsi di un «insieme di circostanze che con rapidità inconsueta modificano i punti di riferimento dei protagonisti e degli stati coinvolti» (p.102). Da qui il precipitare degli eventi che «non contano solo in sé, ma per il loro rapportarsi a dimensioni e processi di medio e lungo periodo» (p.102).

Del processo unitario, in una certa misura, se ne avvantaggiarono attori diversi, speculatori e soggettività politiche inedite, innanzitutto. Il risultato di questa situazione è però un parziale fallimento dovuto al fatto che «i gruppi dirigenti non riescono a declinare liberalismo e nazione insieme e il futuro viene costruito su paradigmi compromissori» (p.175). Da qui il ritardo sempre maggiore verso un Nord che conosce la propria via verso lo sviluppo industriale e, parallelamente, l’emergere di una Questione Meridionale che attraversa tutta la storia nazionale. È il risultato di ciò che l’Autrice ha il coraggio di chiamare con il proprio nome, guerra, che come tale ha dei vincitori e dei vinti ma soprattutto un «cambiamento» e «una nuova percezione del mondo» (p.177). In tal senso «la nazione napoletana – cui De Lorenzo espressamente si rivolge in conclusione – può riproporsi mantenendo le sue specificità, ma deve prendere atto del cambiamento che caratterizza il tramonto degli Stati dopo una guerra» (p. 177), solo così può «recuperare appartenenza, storia, radici culturali, valori, ma sentendosi italiani» (p.177).


[1] Cfr. il dossier in aggiornamento della Sissco dal titolo Una giornata per le vittime del Risorgimento?, http://www.sissco.it/articoli/dossier-una-giornata-per-le-vittime-del-risorgimento/

[2] Sulla “giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia”, Sissco, http://www.sissco.it/articoli/sulla-giornata-della-memoria-per-le-vittime-meridionali-dellunita-ditalia/

[3] Cfr. V. Daniele – P. Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia, in “Rivista di politica economica”, 97, 2007, pp. 267-340 e V. Daniele – P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.

[4] Cfr. V. Daniele – P. Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia… cit., p.274-278.

[5] Cfr. E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, il Mulino, Bologna 2013, pp.33-34.

[6] Ivi, p.33.

Scritto da
Fabio Milazzo

Siciliano, nato nel 1979. Ricercatore e docente di storia e filosofia nei licei. È Phd candidate in Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell'Università di Messina. È membro della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (Sissco), dell'Istituto di Studi Storici Salvemini di Messina, dell'Istituto di Studi avanzati in psicoanalisi (ISAP), dell'Associazione amici di "Passato e presente" (APEP). Scrive per riviste cartacee e giornali online e oltre a diversi articoli di storia, filosofia e psicoanalisi è autore di: "Senso e godimento. La follisofia di Jacques Lacan" [Galaad ed.]. Collabora con l'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo e svolge attività di ricerca presso il Centro Studi in Psichiatra e Scienze umane della Provincia di Cuneo.

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