Scritto da Rosa Fioravante
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Il dibattito scaturito dalla riflessione congiunta di Provenzano e Felice, apparsa su «il Mulino» numero 6/2019, poi proseguito su questa rivista, intorno all’incontro tra la cultura liberale e quella socialista, ha una doppia valenza. Da una parte quella di proporre un côté di analisi politica poco frequentato in Italia – quello inerente culture e sistemi ideali che la informano –, dall’altra ha il grande pregio di esser stato mosso a partire dallo scritto di due uomini politici. È noto, infatti, che in Italia il dibattito pubblico e politico sia particolarmente schiacciato sulla cronaca, sulla polemica spicciola, sul commento al comportamento delle fazioni invece che su programmi, idee, visioni del mondo, anche a causa del divorzio tra il mondo dell’accademia e quello di coloro che vengono eletti in posizioni di rappresentanza o partitiche, così come a causa di un ruolo spesso deficitario di istituti culturali, fondazioni, luoghi di incontro che rimangono spesso marginali rispetto alle dinamiche che informano la conquista e la spartizione del potere politico.
Proprio a partire da quest’ultima osservazione è possibile dunque interrogarsi sul rapporto che intercorre tra culture politiche, ideologie, individui e masse che le interpretano e popolarizzano. Infatti, il tema del chi dovrebbe agire questo ricongiungimento tra culture rimane largamente inevaso dallo scritto di Provenzano e Felice per poi venir solo tangenzialmente ripreso dal dibattito successivo: da Baffigi, in riferimento a quella che potremmo definire la “questione del soggetto” e da altri in riferimento a chi condiziona le scelte di policies. Ciò che si intende dunque proporre in questa sede è un’ulteriore problematizzazione del tema dell’ “agente del cambiamento”. Infatti, come suggeriva C. Wright Mills: «It is with this problem of agency in mind that I have been studying, for several years now, the cultural apparatus, the intellectuals – as a possible, immediate, radical agency of change» (C. Wright Mills, 1960).
Se la fine delle ideologie è una “copertura” per la promozione, innanzitutto, di una cultura politica dell’apatia, per comprendere come rivitalizzare le culture politiche di liberalismo e socialismo e, eventualmente, consentirne l’incontro, si rende necessario interrogarsi su chi siano i principali destinatari di questa riflessione. Chi siano coloro che articolano quel processo che Daniel Bell, sostenendo la tesi opposta a quella di Mills, chiamava «the conversion of ideas into social levers» (D. Bell, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in the 1950s, 1962). È in questo senso che le culture politiche, a differenza di altre forme di sapere e ricerca, semplicemente non si danno come slegate dal chi le fa.
Il rapporto tra intellettuali e politica è stato croce e delizia di molti autori eccellenti (d’altro canto, non c’è cosa più complicata che discutere se stessi) e non sembra il caso di ripercorrerlo in questa sede, tuttavia, sembra particolarmente attuale la riflessione di Norberto Bobbio (raccolta ne Il dubbio e la scelta) attraverso la quale egli si interroga su come sia possibile pensare il ruolo dell’intellettuale né come “traditore” né come “asservito” all’agone politico. La felice soluzione che egli esplora è infatti quella di riposizionare il focus del dibattito sulle culture politiche intorno alla nozione di politica stessa: come mezzo e non come fine, ossia, certamente come pratica architettonica del vivere collettivo ma che richiede il piano culturale per comprendere in virtù di quale visione tale pratica viene di volta in volta utilizzata. In questo senso, è possibile tracciare un solco tra la visione del liberalismo e del socialismo da una parte e del neoliberismo dall’altra, nella misura in cui i pensieri liberali e socialisti ritengono – in modo diverso e con le rispettive accezioni di “libertà da” e “libertà di” – che la libertà dipenda in modo significativo dagli ordinamenti sociali. Queste visioni fanno infatti della libertà un fatto pienamente politico e dunque che richiede che la pratica politica sia funzionale al perseguimento nel caso del liberalismo della libertà come autodeterminazione (seppur non a scapito della sfera di libertà altrui) e nel caso del socialismo come emancipazione dal bisogno e conseguimento di forme di perequazione e distribuzione del potere in modo egualitario. Non è un caso che, proprio all’interno del presente dibattito, molti interventi abbiano richiamato come felice sintesi delle due sensibilità quella del socialismo liberale rosselliano: che intendeva il socialismo come “filosofia di libertà”. Se è vero che il neoliberismo consista in realtà in una visione fortissima del ruolo dello Stato (minimo) e del mercato (come vettore di informazioni e non solo mero strumento economico), è pur vero che questa visione “forte” viene intenzionalmente occultata, coperta dalle tesi sulla deregolamentazione; tesi, che liberali e socialisti non potrebbero mai fare proprie.
Al fondo, infatti, non considerando esplicitamente il mercato un costrutto sociale, il pensiero neoliberista insiste sulla libertà come una sfera slegata dagli ordinamenti sociali che la permettono, ma anzi in funzione della quale ogni pratica politica è forma di costrizione e privazione. A partire da questa osservazione sembra del tutto paradossale come, a partire da metà degli anni Settanta, siano stati i centri di elaborazione intellettuale di indirizzo neoliberista a porsi il problema stringente del condizionamento della politica sia sul livello di policy che di politics: mentre liberali e socialisti sono sembrati per lungo tempo “distaccati” dalle dinamiche più prettamente politiche, avviluppati in discussioni più accademiche che poste sul piano dell’organizzazione ai fini della popolarizzazione di determinate visioni del mondo, il pensiero neoliberista si è aggregato e strutturato al punto da costituire ciò che Mirowski e Plehwe hanno lucidamente definito «the neoliberal thought collective». Al punto, portando alle estreme conseguenze l’analisi della Mont Pelerin Society proposta da questi ultimi, che il fatto di essere un pensiero collettivo e organizzato contraddistingue il neoliberismo persino più di una sua eventuale coerenza e coesione interna, assai difficile da dimostrare. È un passo importante nella discussione delle dottrine politiche ed economiche quello compiuto qui: il tentativo di considerarle maggiormente in funzione dei loro gruppi intellettuali e network che non del loro status teorico.
A questo proposito, nel contributo di Provenzano e Felice viene richiamato il pensiero di Michael Freeden solo come studioso del pensiero liberale laddove, sarebbe invece più opportuno richiamare l’attenzione sulla sua produzione di autore fondamentale per l’approccio morfologico alle ideologie e alla loro modalità di sviluppo e divulgazione. Se ci si pone il problema di usare l’incontro tra socialismo e liberalismo in funzione anti-liberista, è infatti rilevante comprendere come queste culture politiche siano organizzate e agiscano a livello di immaginario sociale. In questo senso, l’approccio morfologico allo studio delle ideologie proposto da Freeden si fa prezioso, proprio perché sposta il focus della discussione dal livello della “coerenza interna” dell’ideologia a quello del suo essere una “mappa”, in competizione con altre, che viene codificata e popolarizzata, che ha un aspetto fortemente performativo sulla vita collettiva e individuale e non solo un aspetto teorico interessante per gli studiosi di filosofia o teoria politica. In questo le ideologie (ma anche, per i fini del presente dibattito, le culture politiche) sono da considerarsi:
«[…] human and social products that bind together views of the world — in the most general sense, à la Mannheim, a political Weltanschauung — and enable collective action in furthering or impeding the goals of a society. Nor are ideologies necessarily superimposed by oppressive ruling groups on unwilling societies, as the view of ideology as manipulative and dissimulative would have it. A minority of ideologies may follow that pattern, but on the whole they are outgrowths of understandings and perceptions that permeate societies and that emanate from them, albeit often in a mutually competitive mode and usually articulated and refined by intellectual and political elites» (M. Freeden, Ideology and Political Theory, 2006)
Di più, facendo riferimento a Therborn (The Ideology of Power and The Power of Ideology, 1980), le ideologie non sono solo codificate e sviluppate “dall’alto”, ma possono anche avere delle modalità di sviluppo “dal basso” (per esempio: dai movimenti sociali), e dunque la questione “dell’agente” posta in apertura si fa ancora più pressante quando si voglia discutere di come costruire “tempi nuovi” a partire da una cultura politica o dall’incontro fra più culture.
Non vi è dubbio, dunque, che, come intendono Provenzano e Felice, vi possano essere margini di collaborazione tra socialisti e liberali per progettare una sorta di discorso programmatico per l’Italia del domani; in particolare, la proposta sembra acquisire tanto più mordente quanto le disuguaglianze generate dall’epoca neoliberista sono esplose a causa dell’emergenza sanitaria che ne ha ulteriormente aggravato l’entità. Tuttavia, per rendere questo piano di discussione qualcosa di più che un mero scambio tra personalità eccellenti, è bene ancorarlo sin da subito nella concretezza del chi e con quali risorse, ossia trovare luoghi e reti che abbiano il fine esplicito di rendere l’incontro un “thought collective” organizzato per l’egemonia a sua volta, come il pensiero dominante che si prefigge di sfidare. Nel suo ultimo volume Capital and Ideology, Thomas Piketty argomenta estesamente come ogni società diseguale abbia bisogno di profonde giustificazioni di tale disuguaglianza: di élite che siano committed allo scopo di propagandarne i benefici, di centri di potere che ne perpetuino una o più narrazioni morali, di capillari sistemi di condizionamento mediatici ed educativi. Siamo oggi in grado di proporre, almeno in nuce, un progetto di questa portata? Come Mirowski (Don’t Let a Serious Crisis Go To Waste, 2013) non smette di ricordare, il successo del neoliberismo non è dovuto alla sua straordinarietà potenza teorica, ma alla sua eccezionale capacità di organizzazione per il potere politico.
Prima, dunque, di chiedersi in che misura liberalismo e socialismo siano compatibili e si possano incontrare su un terreno comune di rinnovamento della proposta politica, è bene chiedersi chi, dove e come, in Italia, oggi sia rappresentante di queste sensibilità, come le azioni di questi ultimi contribuiscano al loro sostegno, quali risorse (materiali e immateriali) sono impegnate nelle loro battaglie culturali. È possibile un incontro di network intellettuali di socialisti e liberali al fine di ripensare l’oggi, a partire dai temi del lavoro, in funzione della comune battaglia contro il neoliberismo? Certamente sì, a patto che questi network però esistano e in funzione di questi fini siano organizzati.