Cosa ne sarà della globalizzazione? Intervista a Gianmarco Ottaviano
- 19 Gennaio 2023

Cosa ne sarà della globalizzazione? Intervista a Gianmarco Ottaviano

Scritto da Eleonora Desiata

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Un nuovo ordine mondiale si prospetta all’orizzonte? La globalizzazione cambierà volto? Andremo verso una deglobalizzazione o siamo all’inizio di un processo di “riglobalizzazione selettiva”? E questa nuova fase riuscirà a portare più benefici per la popolazione mondiale rispetto ai meccanismi della globalizzazione multilaterale sviluppatasi a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale?

Gianmarco Ottaviano – Professore ordinario di Economia politica all’Università Bocconi dopo esserlo stato alla London School of Economics e all’Università di Bologna e autore di numerosi studi in tema di commercio internazionale e geografia economica – riflette su queste domande a partire dal suo ultimo libro: Riglobalizzazione. Dall’interdipendenza tra Paesi a nuove coalizioni economiche edito da Egea nel 2022.


In tempi recenti si è assistito a un crescente sforzo – da parte soprattutto di attori statuali – di formulare delle alternative all’economia globale integrata, sviluppatasi a partire dalla Seconda guerra mondiale. Partendo dalla definizione di questo quadro in progressiva trasformazione, in che cosa è consistito il fenomeno della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli scorsi decenni, e per quali elementi si è caratterizzato?

Gianmarco Ottaviano: A partire dalla Seconda guerra mondiale, proprio per contrastare alcune delle cause del conflitto – oltre che naturalmente alcune delle sue conseguenze – vi è stato un movimento internazionale, diplomatico e politico, volto a raggiungere un’integrazione dei mercati dei diversi Paesi che fosse globale e multilaterale, vale a dire che non lasciasse fuori nessuno. Questo per due ragioni: da un lato una ragione di stabilità, nel senso del tentativo di evitare che si creassero blocchi contrapposti; in secondo luogo, questa multilateralità fu introdotta a sostegno dei Paesi in via di sviluppo per evitare che i grandi Paesi si mettessero d’accordo fra loro in modo mirato, secondo i propri interessi, escludendo dagli accordi i Paesi in via di sviluppo. Questi ultimi – va ricordato – dopo la Seconda guerra mondiale erano Paesi giovani: si trattava in molti casi di ex colonie o di Stati nati fra il primo e il secondo conflitto mondiale dalla dissoluzione dei blocchi imperiali. Operativamente, questo sforzo ha richiesto la creazione di organizzazioni internazionali che comprendono fra le più importanti la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e, successivamente, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, già prima della nascita dell’OMC ebbero luogo molteplici round negoziali, che, mettendo tutti i Paesi attorno a un tavolo, miravano a integrare le diverse economie in una maniera che fosse soddisfacente per tutti. Un approccio multilaterale ispirato dall’intento sia di evitare quanto era accaduto con la Seconda guerra mondiale, sia di includere i nuovi Paesi che nascevano dalla dissoluzione degli imperi coloniali. Dato questo quadro, c’erano anche Paesi che non partecipavano: in particolare il blocco sovietico – anche perché esisteva un’incompatibilità di fondo tra il funzionamento dei mercati e l’economia pianificata – e la Cina, un gigante dormiente che all’epoca interessava poco agli altri attori globali e rimaneva piuttosto focalizzato sul proprio sviluppo interno. Questa dunque la globalizzazione nata dopo la Seconda guerra mondiale. Essa, nel tempo, si è sviluppata proseguendo in questa medesima direzione: quando il blocco sovietico si è dissolto e le economie sovietiche sono diventate economie di mercato, queste ultime sono entrate man mano nell’OMC e più in generale a far parte del mercato globale. Al contempo, il gigante dormiente cinese, svegliandosi, ha assunto – soprattutto con il Presidente Deng Xiaoping – una direzione che abbiamo visto fino ai giorni nostri, ossia lo sviluppo di un’economia capitalistica di fatto controllata però dal Partito Comunista, e di una partecipazione alle organizzazioni economiche internazionali. Risale all’inizio del secolo, più precisamente al 2001, il momento simbolico in cui la Cina entra a far parte dell’OMC. Riassumendo quanto ripercorso sin qui sullo sviluppo della globalizzazione, si può parlare di una direzione multilaterale che all’inizio doveva affrontare la questione della contrapposizione fra blocchi (occidentale e sovietico), ma che nel tempo, con i cambiamenti nell’Unione Sovietica e nei suoi alleati, è diventata sempre più inclusiva, raggiungendo il massimo della partecipazione globale con l’ingresso della Cina.

 

Le sfide contemporanee dell’economia globale insistono per molti versi anche sul possibile ruolo dello Stato e delle istituzioni sovranazionali rispetto al mercato. Esigenze come produrre bene pubblico, attuare investimenti in capacità produttiva, coordinare le politiche a livello internazionale – si pensi alle politiche fiscali, ma anche alla transizione ecologica, con tutti i necessari cambiamenti che comporta in termini di organizzazione del lavoro e approvvigionamento delle materie prime – stanno configurando una nuova centralità del decisore pubblico rispetto al passato?

Gianmarco Ottaviano: Penso di sì. Si può dire – semplificando – che il disegno dei mercati globali è stato perseguito basandosi su una forte fiducia nella capacità dei mercati di autoregolarsi. L’idea era che questa globalizzazione multilaterale, al di là degli effetti di stabilità politica, potesse portare anche un beneficio di sviluppo economico e di benessere a tutti i Paesi del mondo. Cosa che nei fatti è avvenuta, nel senso che una serie di indici di povertà e di esclusione, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, sono migliorati, e questo è il risultato anche dell’inclusione di quei Paesi nell’economia globale. Non ultima la Cina, la cui popolazione pesa molto nelle misure degli indici di sviluppo mondiali, che ha portato gran parte dei suoi cittadini al di sopra della soglia di povertà. Nel frattempo sono però mutate diverse dinamiche. Innanzitutto sono cambiati gli equilibri mondiali. Da un lato, per come erano nate, le organizzazioni internazionali riflettevano il peso economico e politico di vari Paesi e quindi il dominio dell’Occidente, da questo punto di vista. Nel tempo, però, soprattutto rispetto alle “tigri asiatiche”, ossia i Paesi dell’Estremo Oriente che hanno avuto un forte sviluppo economico, e ai grandi Paesi emergenti come Cina, India e Brasile (più in generale i cosiddetti BRICS), la divisione del potere all’interno delle organizzazioni internazionali non rifletteva più lo stato di fatto dell’economia mondiale, il che ha portato anche a un certo distacco di quei Paesi dalle organizzazioni internazionali. Si è cercato di risolvere questo quadro modificando la rappresentanza all’interno delle organizzazioni internazionali; ma resta la difficoltà di base, per questi Paesi, di partecipare in assetti che non riflettono il peso delle proprie economie e in questo senso non riflettono il peso dei diversi interessi. Un tale panorama di frizioni non è facile da ricomporre. Per citare esempi concreti, un caso – che credo sia molto rappresentativo di un certo stato d’animo – cui si è assistito di recente ha riguardato le inondazioni in Pakistan. A fronte di queste ultime, rappresentanti della leadership pakistana hanno dichiarato che quanto stava accadendo nel Paese era il risultato del disastro climatico provocato dai Paesi occidentali, che dovevano quindi assumersi la responsabilità, anche economica, dei danni causati. Comporre questo quadro, in un mercato di imprese, non è semplice: rispetto ai problemi globali il ruolo dello Stato diventa quindi centrale. I problemi di esternalità tra Paesi richiedono un ruolo più attivo dello Stato e delle organizzazioni internazionali. Dal punto di vista economico, ci sono sviluppi che suggeriscono a molti Paesi la possibilità di considerare un intervento statale più deciso: ciò deriva dal fatto che in molti settori si ha una crescita della concentrazione delle quote di mercato nelle mani di poche grandi imprese – basti pensare al settore energetico, a quello che accade in Europa e ai dibattiti sulla necessità di tassare i profitti dell’energia –. Quando ci sono imprese così grandi da controllare mercati nazionali e internazionali è difficile pensare che il mercato funzioni: si è di fronte a fallimenti di mercato, in una dinamica che giova più agli azionisti di quelle imprese che non ai consumatori e ai cittadini. Si vede dunque una tensione crescente, fra un mercato globale che ha permesso in questi anni di generare sviluppo e un’incapacità del sistema di autoregolarsi, cioè di mitigare gli effetti del potere di mercato. Un’ultima considerazione riguarda la questione tecnologica: l’esperienza più evidente è quella della Cina, che attraverso un’attenta politica industriale ha ottenuto nello spazio di decenni quello che molti altri Paesi non hanno raggiunto in secoli, un salto tecnologico che era inimmaginabile all’inizio della transizione cinese. Fra tutti, questo viene considerato un modello di successo in cui lo Stato interviene e accelera quello che il mercato potrebbe magari ottenere da solo, ma in molto più tempo, e in alcuni casi non potrebbe ottenere mai. Tirando le fila del ragionamento, emergono quindi tre aspetti: un aspetto tecnologico, un aspetto di ascesa del potere di mercato delle grandi multinazionali, e un aspetto di ribilanciamento politico-economico di peso tra economie industrializzate occidentali ed economie emergenti.

 

I tassi di cambio e i dazi sono stati fra gli strumenti maggiormente utilizzati negli scorsi decenni nei conflitti economici globali. Come si sono evolute queste dinamiche negli ultimi anni – si pensi in particolare all’avvicendamento, negli Stati Uniti, fra le presidenze Obama, Trump e ora Biden, e alle ripercussioni internazionali delle scelte commerciali americane – e quali scenari emergono oggi in questo senso?

Gianmarco Ottaviano: Uno dei principi dell’equilibrio multilaterale di cui si è accennato è quello per cui i Paesi non possono agire in modo isolato, non possono cioè prendere iniziative di aumento dei propri dazi, né possono decidere di ridurre i dazi solo ad alcuni Paesi amici. Vige un principio di non discriminazione per cui, se si decide un’iniziativa nei confronti di un Paese partner membro dell’OMC, la stessa deve applicarsi a tutti gli altri Paesi membri. Questo è il principio generale, anche se vi sono eccezioni notevoli, si pensi all’Unione Europea con il mercato unico. Nella dialettica fra Stati Uniti e Cina, da un lato si ha un libero mercato in cui gli attori sono abituati a decidere e muoversi in maniera indipendente, dall’altro un mercato regolamentato da un coordinamento centralizzato e un governo che riesce a essere molto più interventista. Anche da qui nasce il contrasto fra i due Paesi. Da parte statunitense, c’è poi l’idea che la Cina operi una concorrenza sleale sui mercati, avendo potuto fare proprie – grazie agli scambi commerciali internazionali – le tecnologie sviluppate in occidente. La reazione che si è costruita nel tempo è quella di un protezionismo, dapprima latente e poi più evidente: il protezionismo americano si è infatti sviluppato sotto traccia per alcuni anni fino a Trump, che ha invece poi dichiarato una vera e propria guerra commerciale, imponendo dei dazi. L’altro strumento, ossia la manipolazione dei tassi di cambio, può ottenere risultati simili. La strategia, di cui la Cina è stata accusata, è stata quella di mantenere artificialmente basso il valore della moneta in modo che le proprie merci fossero più a buon mercato per gli acquirenti esteri, riuscendo così a penetrare i mercati internazionali e, in un certo senso, ad eliminare la concorrenza. Occorre sottolineare a questo proposito che quando un’industria chiude, anche temporaneamente, l’effetto può essere permanente, perché si perdono le competenze, le reti di fornitura, si creano delle esternalità che il mercato non riesce a gestire. Durante il suo mandato, Trump ha accusato la Cina di usare gli strumenti di manipolazione del tasso di cambio e di appropriarsi delle tecnologie in modo scorretto, e ha annunciato una risposta di tipo punitivo, volta a impedire le esportazioni fino a quando la Cina non avrebbe modificato il proprio regime di trasferimento tecnologico e iniziato a propria volta ad acquistare le merci statunitensi. Con Trump, questo atteggiamento ha finito per interessare anche partner tradizionali come l’Unione Europea o il Canada, che si sono trovati a propria volta coinvolti dalle rappresaglie commerciali dell’amministrazione americana. Nel caso dell’Unione Europea, una delle principali accuse rivolte da Trump alla Banca Centrale Europea è stata quella di mantenere artificialmente basso il tasso di cambio dell’euro; sarebbe interessante vedere come Trump e i suoi consiglieri economici valuterebbero la situazione odierna, in cui l’euro ha perso significativamente valore rispetto al dollaro, raggiungendo quasi la parità. Biden si è trovato in eredità una situazione di protezionismo aggressivo lasciata dall’amministrazione Trump, e finora non si è adoperato molto per modificarla. Nel suo manifesto economico si parla di dazi, non ci si assume alcun impegno a rimuovere gli interventi messi in atto da Trump; insomma, non vi è particolare discontinuità nella sostanza economica dei rapporti commerciali – basti pensare all’impronta apertamente protezionista dell’Inflation Reduction Act –, mentre ci sono chiaramente una discontinuità in termini di retorica e una discontinuità politica. In riferimento a quest’ultima, emerge l’intento di ricompattare e riattivare le alleanze, in un quadro in cui gli Stati Uniti sentono forte il bisogno dei propri alleati nel confronto con la Cina; al tempo stesso, a fronte di eventi come l’invasione dell’Ucraina, le dinamiche economico-commerciali passano in secondo piano e diventano strumentali rispetto al piano politico.

 

In Riglobalizzazione, lei riprende la metafora dell’angelo di Paul Samuelson per descrivere la divaricazione fra i fautori della globalizzazione fondata sul libero scambio e i fautori degli interessi nazionali, di un sistema imperniato sull’autonomia delle economie locali. Entrambi gli schieramenti, se pur da prospettive opposte, tendono a trascurare alcuni aspetti essenziali relativi a come il coordinamento fra Paesi possa, da un lato, produrre efficacemente benessere e, dall’altro, distribuirlo equamente. Esiste un terreno d’incontro possibile fra queste prospettive?

Gianmarco Ottaviano: Esiste una tensione che è stata messa in luce da vari studiosi, in particolare da Dani Rodrik, tra ciò che è internazionale e ciò che è nazionale. Da un lato, vi sono una serie di problemi di natura globale, come il cambiamento climatico, non risolvibili se non nella dimensione internazionale. Accanto a questo, la metafora di Samuelson spiega poi efficacemente come, liberalizzando gli scambi, è come se integrassimo tutte le economie, entrando a far parte di un’unica grande area economica. Questa area economica rimane però frammentata dal punto di vista politico; da cui la necessità di un coordinamento internazionale. Al tempo stesso, ciò che rimane puramente nazionale, e qui la tensione, è la redistribuzione dei costi e benefici della globalizzazione, o comunque di ogni intervento adottato a livello internazionale. Se, poniamo, la liberalizzazione degli scambi con la Cina ha portato a un aumento della disuguaglianza economica all’interno dei Paesi occidentali – con parti della popolazione che ne hanno beneficiato molto e altre che ne sono state danneggiate –, chi deve intervenire per riequilibrare e redistribuire rimane lo Stato nazionale. Quello che si vede oggi in molti Paesi occidentali è proprio la difficoltà a gestire questa tensione. C’è ormai una consapevolezza diffusa della dimensione internazionale e della sua ineludibilità; d’altro canto vi è una necessità sempre più sentita di redistribuzione dei costi e dei benefici. Si pensi agli strumenti che i governi nazionali in questi anni hanno pensato, dal reddito di cittadinanza alle riforme fiscali. E, tuttavia, anche questi tentativi riportano alla dimensione internazionale: ad esempio, a chi spetta il compito di tassare i profitti delle grandi multinazionali del settore energetico? Ci troviamo in una fase di transizione, in cui mentre lo Stato riprende un ruolo maggiore nel funzionamento dei mercati, dall’altro lato si sta cercando anche un nuovo ruolo redistributivo, ma le posizioni in proposito naturalmente sono diverse e contrastanti all’interno dei Paesi.

 

Diversi commentatori hanno sostenuto che l’apice della globalizzazione sia ormai alle nostre spalle e che il mondo si stia avviando verso un processo di deglobalizzazione – ossia di disgregazione di un’economia globale precedentemente integrata e un conseguente isolamento nelle relazioni fra Paesi –, in larga misura in nome della sicurezza nazionale. Nel libro lei sostiene piuttosto che si stia configurando un processo di riglobalizzazione selettiva: come si delinea e quali sono le possibili implicazioni di questo fenomeno?

Gianmarco Ottaviano: In questa ripresa del ruolo dello Stato nazionale si pone una questione di sovranità economica e politica. Nel momento in cui un Paese dipende molto dalle forniture di altri Paesi, si può sostenere che la sua sovranità venga limitata e che sia meglio sacrificare in una certa misura l’aspetto economico per riacquisire un certo grado di controllo. È la retorica della Brexit, ad esempio: assumersi i costi economici per ottenere maggiore indipendenza, sia economica che politica. Il ragionamento che citavo si sente spesso, ma, come per la Brexit, è difficile mettere a fuoco il costo di questo tipo di operazione. La Brexit si sta dimostrando proprio l’esempio di una situazione in cui si è sottostimato il costo, anche per i cittadini, della scelta volta a “riprendere il controllo”. Immaginiamo, ad esempio, che si voglia tornare a produrre nel proprio Paese un dato prodotto, assumendosi la conseguenza di un costo maggiore; ci si scontrerà con la questione delle materie prime e la necessità di acquistarle da altri – in altre parole, proprio con il ragionamento di Samuelson –. Si sperava che l’approccio storicamente adottato verso questo problema, ossia la pratica di invadere i Paesi in possesso di determinate risorse o di controllarli attraverso governi fantoccio, fosse ormai relegato al passato. Non è così, anche se le modalità sono in parte cambiate e alle guerre si preferisce generalmente una politica di investimento e di debito, come nel caso della Cina. L’idea nazionalista di “riprendere il controllo”, considerato tutto questo, è una chimera, fa parte di una retorica vuota, a fronte dei problemi globali. La transizione ecologica, per esempio, – che si menzionava in riferimento al libro – richiede ad oggi materie prime che sono concentrate in pochi Paesi. Assecondare spinte nazionalistiche è poco fruttuoso, su questi temi torna centrale la dimensione internazionale: occorre trovare un accordo di scambio, pacifico e che benefici entrambe le parti, con i Paesi che detengono quelle risorse.

 

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la prospettiva di una crisi degli approvvigionamenti energetici hanno sollevato un interrogativo cruciale rispetto alla globalizzazione e alle declinazioni globali del capitalismo: quali relazioni economiche possono o devono intercorrere fra i regimi democratici e i regimi autocratici? Se infatti è vero che la globalizzazione ha migliorato nel complesso il tenore di vita di diversi Paesi del mondo, soprattutto in riferimento alla povertà estrema, non è stata in grado di portare un avanzamento altrettanto rilevante sotto il profilo politico, almeno per come lo si intende dal punto di vista delle democrazie liberali. Come porsi oggi di fronte al rischio di arricchire e rafforzare i regimi non democratici, ad esempio in settori come i combustibili fossili?

Gianmarco Ottaviano: Questo punto mi permette di riprendere anche la domanda precedente, per quanto concerne in particolare il tema della riglobalizzazione selettiva. Ci si trova di fronte alla necessità di ricercare risorse altrove, fuori dal proprio Paese – sperabilmente attraverso accordi commerciali, e non guerre –. Tuttavia anche gli accordi commerciali, come tutti gli accordi, possono essere in qualunque momento rinegoziati da una delle parti, o comunque temporaneamente sospesi, ed è un po’ quello che sta accadendo con la Russia. L’idea della riglobalizzazione selettiva prende le mosse dalla consapevolezza che occorre interagire con il resto del mondo, ma che vi sono partner più affidabili e partner meno affidabili – e a fronte di partner meno affidabili che propongono condizioni contrattuali più vantaggiose, si preferiranno comunque i partner più affidabili. Un ruolo importante nella scelta dei partner commerciali è cioè la fiducia reciproca, spesso fra Paesi che hanno un’affinità culturale e politica, e non soltanto economica. Questo è il caso, ad esempio, fra le democrazie occidentali, economie di mercato che possono anticipare più linearmente le reciproche scelte future e gli scenari che esse comporteranno. Diverso il discorso che riguarda i regimi autocratici, più imprevedibili e che generano maggiore apprensione anche rispetto a possibili e repentini stravolgimenti, mentre i processi di cambiamento nei regimi democratici tendono ad essere più lenti e inclusivi. Se questa è l’idea della riglobalizzazione selettiva, il passo successivo è quello che si definisce friendshoring, ossia lo scambio fra Paesi amici. Permangono sempre, però, situazioni in cui non si può fare a meno di interagire con Paesi che amici non sono: di nuovo, si pensi alla concentrazione di alcuni minerali essenziali per la transizione ecologica, alle terre rare e altre risorse di questa natura. Come rapportarsi è quindi un interrogativo essenziale, in questa evoluzione: è possibile cioè per un Paese democratico avere rapporti normali con Paesi che dal suo punto di vista “normali” non sono, e che magari sfruttano i benefici dei reciproci scambi commerciali per rafforzarsi e accrescere il proprio peso specifico nel quadro politico mondiale? Questa è la grande sfida dei prossimi anni, che potremmo riassumere con l’interrogativo “come gestire la Cina?”, e forse l’India. La risposta non è ovvia, perché mentre rispetto alle democrazie occidentali si può concordare che l’operare dello Stato abbia come obiettivo di generare benessere per tutti i cittadini – anche se naturalmente non è detto che si riesca nell’intento –, per le economie dei Paesi autocratici non è scontato che l’obiettivo sia lo stesso. A questo proposito, per esempio, è interessante confrontare nel caso della guerra commerciale di Trump la reazione cinese con quella europea. Di fronte ai dazi decisi dall’amministrazione Trump, tanto la Cina quanto l’Unione Europea hanno scelto di reagire colpendo con politiche protezionistiche i settori chiave dell’economia americana. Tuttavia, mentre la Cina “ha tirato dritto”, chiedendosi soltanto dove potesse colpire con maggiore efficacia l’economia statunitense, in Europa ci si è posti al tempo stesso l’obiettivo di non nuocere, con le iniziative protezionistiche, ai cittadini europei, e si è cercato quindi un compromesso che consentisse di colpire merci e settori importanti per gli Stati Uniti, ma non altrettanto essenziali per le economie europee. La Cina è invece rimasta ferma sul proprio obiettivo di costruire “la grande Cina”, sfruttando tutti i mezzi necessari per perseguirlo. Anche questa sarà la sfida dei prossimi anni.

 

A valle di questa riflessione, quale futuro si può prospettare per il multilateralismo?

Gianmarco Ottaviano: In questo momento penso sia molto interessante vedere cosa sta facendo la Cina. All’inizio dell’invasione dell’Ucraina, stando alle informazioni che abbiamo, l’unico ad avere contezza di quanto stesse accadendo era proprio il presidente cinese. La Cina aveva ribadito proprio pochi giorni prima, e poi ancora successivamente, la propria amicizia con la Russia. Sembrava quindi che vi fosse una chiara divisione per blocchi: da una parte le democrazie occidentali, dall’altra Russia, Cina e i loro alleati. A distanza di mesi, per quello che ci è dato di vedere, ma anche stando ai rapporti delle agenzie di intelligence occidentali, non sembra che la Cina abbia contribuito granché in termini di impegno o di sostegno alla campagna russa, se non comprando volumi massicci di idrocarburi dalla Russia stessa. Questa divisione per blocchi non sembra dunque più così immediata. In particolare, la Cina sembra non avere abbandonato l’idea multilaterale, di economia globale – che poi aspiri a ottenere un’economia globale a dominio cinese è un altro discorso –. Sarà molto interessante capire cosa farà la Cina, perché, se continua su questa via, la multilateralità potrebbe avere una vita più lunga, almeno in linea di principio, di quanto non ci si sarebbe aspettati fino a qualche tempo fa. Se c’è una suddivisione per blocchi, sembra che ci sia ancora un forte interesse a che i blocchi non siano completamente isolati tra loro, come era stato durante la Guerra fredda.

Scritto da
Eleonora Desiata

Assegnista di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Alumna dell’Università di Bologna e dell’Università Bocconi, ha conseguito il dottorato in Scienza politica e Sociologia alla Scuola Normale Superiore. Si occupa prevalentemente di attivismo e forme della partecipazione politica, città, welfare e azione sociale diretta.

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