Crisi istituzionale e riforme. Intervista a Francesco Clementi
- 23 Giugno 2024

Crisi istituzionale e riforme. Intervista a Francesco Clementi

Scritto da Valerio Galletta, Giulio Pignatti

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I sistemi democratici a livello globale sembrano talvolta mostrare una difficoltà e un affaticamento che si riflettono sia nell’atteggiamento dei cittadini e nella volontà di partecipazione di questi ultimi, che nel funzionamento delle istituzioni. In questo quadro la situazione italiana assume tratti specifici, oggetto di un dibattito che si protrae da lungo tempo. Sui fattori della crisi delle istituzioni italiane e sulle ipotesi di riforma di queste ultime abbiamo intervistato Francesco Clementi, Professore ordinario di Diritto pubblico comparato e direttore del Master in scienze elettorali e del governo alla “Sapienza” Università di Roma. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo, di recente uscita: Il Presidente del Consiglio dei Ministri. Mediatore o decisore? (il Mulino 2023).


Dopo un periodo di espansione della globalizzazione, in cui sembrava che la democrazia fosse destinata ad allargarsi progressivamente a tutto il globo, quella che a posteriori si è rivelata un’illusione si è infranta sugli scogli del riaccendersi di conflitti, concorrenza economica e crisi globali. Oggi la democrazia è messa in causa non solo fuori dall’Occidente, ma anche al suo interno: come spiegare la presenza di casi di democrazia illiberale anche in un contesto come quello europeo?

Francesco Clementi: Partirei da un assunto: la democrazia ha come prima forma di sua protezione la partecipazione dei cittadini. Se questi decidono di non partecipare più alla vita politica, è difficile che le regole democratiche suppliscano a tale assenza. Quindi, il primo dato oggettivo che marca la differenza tra il passato e il presente è la diminuzione del numero di individui che vogliono contribuire alla vita democratica dei propri Paesi: ciò, in qualche modo, permette che le forze meno democratiche e le aspirazioni sociali di minor qualità occupino uno spazio consistente – cosa normalmente impedita da una partecipazione larga e intensa alla vita politica. Naturalmente, occorre registrare che le regole costituzionali dei Paesi dell’Unione Europea e della stessa Unione come ente a sé si pongono a garanzia e a tutela dell’ordinamento democratico e dello Stato di diritto. In particolare, in due casi – la Polonia e l’Ungheria – questi elementi sono stati già fatti valere. Tuttavia, non è certamente dentro un simile tipo di modello sanzionatorio che si riscoprono la forza e la funzione della democrazia: queste si possono ritrovare solo se i cittadini italiani – e dunque anche europei – e degli altri Paesi del mondo cominciano nuovamente a partecipare attivamente, rinnegando il proprio disinteresse per la sfera pubblica, spesso conseguenza anche di furbe operazioni populiste. Quest’anno, in tal senso, sarà dirimente, perché il 2024 vede andare al voto quattro miliardi di persone, in settantasei ordinamenti diversi.

 

Per quanto riguarda il contesto italiano, stiamo vivendo un periodo, che ormai si protrae da molti anni, di mutazione del sistema parlamentare e democratico nazionale. Tale mutazione non è causata da riforme profonde che pur vengono invocate regolarmente, bensì si gioca a livello della percezione sociale e pubblica dell’attività politica. In quale direzione sta spingendo questa trasformazione? Che indizi ci fornisce?

Francesco Clementi: Dopo quaranta o cinquant’anni di disfunzionalità e di degenerazioni del parlamentarismo, gli elementi che si evidenziano sono ormai chiari: abbiamo una forte crisi del bicameralismo, e dunque dello stesso parlamentarismo; abbiamo una crisi della decisionalità, non intesa come metodo decisorio ma come forma di governo debole; infine, abbiamo una crisi derivante dal rapporto fra Stato e Regioni, soprattutto alla luce della riforma del Titolo V, che non ha dato buona prova di sé. Questi tre elementi di crisi strutturale richiedono necessariamente delle soluzioni che passino attraverso riforme costituzionali di ampiezza rilevante, il che presuppone una consapevolezza molto più forte di quanto apparso negli ultimi decenni da parte del Parlamento, dei parlamentari e, dunque, delle forze politiche. Le riforme, a mio avviso, devono trovare innanzitutto un fondamento: non si può immaginare di costruire una nuova istituzione o rinnovare quelle che abbiamo – che si tratti del Parlamento, del Governo o del rapporto fra Stato e autonomie – con strumenti ruvidi come quello referendario. Puntare fin dal principio sulla consultazione diretta degli elettori e non investire sul dibattito parlamentare significa aver scelto, infatti, che le riforme non siano condivise, quindi approvate con una maggioranza di due terzi degli eletti, bensì che, al contrario, l’unica strada sia quella di imporre l’esito di una decisione così importante tramite una consultazione popolare. Ritengo che sia sempre più decisivo, anche alla luce dell’assenza – o meglio della forte riduzione – della partecipazione di tanti alla vita pubblica del Paese, ricercare in Parlamento le ragioni di un accordo più largo possibile. È necessario che una riforma di tale portata rispetti il senso di fondo del testo costituzionale, cioè il consenso sociale: solo le riforme costituzionali che hanno la forza del consenso sociale, e dunque non sono fatte sotto la spada affilata di una maggioranza parlamentare, possono coagulare e spiegare meglio la funzione di un testo costituzionale che non può non essere largamente condiviso. Se invece si sceglie un modello di riforma a maggioranza imposta, si decide in partenza di non dare basi solide al nuovo testo, perché pochi italiani saranno d’accordo con una proposta non condivisa dalle parti ma da accettare o respingere semplicemente barrando una casella.

 

La riduzione della partecipazione e la disillusione nei confronti della politica possono essere causate anche da un abuso della decretazione d’urgenza, che di fatto scavalca il Parlamento?

Francesco Clementi: La decretazione d’urgenza, fin dalla sentenza della Corte 360 del 1996 che già ne stigmatizzava l’abuso, dimostra come in realtà il sistema stesso delle fonti del diritto ha subito tali e tante trasformazioni da rendere opportuno affrontare la sua stessa riforma dentro a quella del bicameralismo. Il grande malato è sempre il bicameralismo: da lì discendono una certa disfunzionalità del potere legislativo e un cattivo rapporto fra Governo e Parlamento nell’esercizio dello stesso. Non a caso, l’abuso della decretazione d’urgenza nasce, da un lato, dall’impossibilità per il Governo di aver certezza su alcuni provvedimenti chiave; dall’altro, dall’incapacità del Parlamento di consentire in tempi certi l’approvazione degli elementi strategici per l’indirizzo politico del Governo. Molte democrazie hanno utilizzato soluzioni diverse cancellando atti normativi di questo tipo, però, naturalmente, tutto dipende dalla volontà di affrontare, con consapevolezza, il nodo strategico dell’uso delle fonti del diritto, che è sempre più stravolto. Se noi immaginiamo che una fonte del diritto di rango secondario come il DPCM, durante la pandemia, ha gestito in prima battuta l’articolazione del modello delle libertà nel nostro ordinamento, ciò ci dimostra come non possa non essere una delle maggiori urgenze che abbiamo di fronte la ristrutturazione del bicameralismo, e dunque con esso anche una rilettura in chiave diversa, più moderna ed europea, dell’assetto del sistema delle fonti e del rapporto tra Governo e Parlamento.

 

Nel suo ultimo libro mostra come il Presidente del Consiglio possa svolgere la sua funzione in due modi: come decisore o mediatore. Da un punto di vista della storia repubblicana, in quali fase ha prevalso la funzione esecutiva e decisionale del Presidente del Consiglio e quando quella più “debole” di mediazione? A quali trasformazioni economico-sociali si associa il cambiamento negli usi istituzionali?

Francesco Clementi: Nella storia repubblicana la scelta di adottare o meno un modello e non un altro è stata funzionale anzitutto alla maggiore o minore forza del sistema dei partiti: abbiamo avuto Presidenti del Consiglio mediatori o decisori in ragione della natura della suddetta forza. Oggi, a una debolezza ormai sistemica dei partiti della seconda fase repubblicana, si aggiunge anche l’esigenza di offrire risposte ordinate e forti sul piano europeo, che siano coerenti rispetto a quelle degli altri partner comunitari. D’altra parte, la stessa situazione si ripropone nel rapporto con le autonomie e con le Regioni: è chiaro che questo convitato di pietra che è sempre stato il Presidente del Consiglio non può non avere una definizione e uno statuto che ne evidenzino almeno alcuni elementi chiave non più superabili. Si pensi ad esempio al potere di revoca dei ministri, a una fiducia a camere congiunte, ad alcuni sistemi di stabilizzazione. Tuttavia, non credo che l’elezione diretta del Presidente del Consiglio sia una buona soluzione, perché si tratta di una forma che irrigidisce il percorso del rapporto fra eletto ed elettore, rendendo peraltro decisamente sterile e difficile da gestire il confronto con il Capo dello Stato, il quale si verrebbe a trovare accanto una figura istituzionale eletta direttamente e con una legittimazione popolare veramente forte. Una simile condizione sarebbe particolarmente disagevole nel momento in cui dovessero essere messi in disequilibrio gli elementi di garanzia costituzionale e di unità nazionale, quelli che invece il Presidente della Repubblica per Costituzione è chiamato a tutelare.

 

La nostra Carta costituzionale ha le sue radici nell’antifascismo e nella transizione democratica seguita al 1943: in che modo queste radici influenzano il nostro assetto istituzionale? Lei nel suo libro parla di una “paura del Tiranno” che ha animato le discussioni sul ruolo costituzionale del Governo. Quali insegnamenti se ne possono trarre per il presente?

Francesco Clementi: Gli insegnamenti rimangono sempre validi: solo dentro un bilanciamento e un equilibrio dei poteri ci può essere una giusta declinazione del modello democratico. Dentro questo bilanciamento alcune analisi di buon senso debbono portare a un rafforzamento dell’esecutivo che trovi nel Presidente del Consiglio la figura esponenziale di una scelta di maggioranza. Ritengo che sia possibile definire, tramite un voto dei cittadini, una designazione del Presidente del Consiglio come personalità che emerge dalla scelta di una maggioranza: in sostanza, come in una matrioska, l’individuazione di una maggioranza produce essa stessa la definizione del leader di questa, che potrà poi essere il punto di riferimento per il Capo dello Stato per la sua nomina come Presidente del Consiglio dei Ministri. Laddove ciò non accadesse, non mi sconvolge una proposta che fece l’attuale Presidente della Corte Costituzionale, allora professore universitario, Augusto Barbera: qualora la designazione di una maggioranza e dunque di una premiership non riuscisse a emergere dalle urne – tenendo conto del nostro bicameralismo che produce due fiducie – si potrebbe pervenire a un’elezione a ballottaggio tra i primi due esponenti delle due maggiori coalizioni che si sono confrontate. Una simile forma di elezione diretta del Presidente del Consiglio avrebbe un impatto decisamente minore tanto sul rapporto col Capo dello Stato quanto, naturalmente, rispetto al Parlamento, che si troverebbe di fronte a una soluzione che arriva proprio perché il voto degli elettori non è stato decisivo. Laddove invece gli elettori siano stati abili e capaci di produrre una maggioranza, dentro a essa – riprendendo l’esempio della matrioska – avremo anche la premiership. Questo schema mi sembra presentare un equilibrio adeguato tra tradizione e innovazione: potrebbe essere utile adottarlo e a maggior ragione socializzarlo dal momento in cui ciò di cui abbiamo bisogno è riportare il cittadino a essere arbitro delle decisioni della politica, senza però per questo irrigidire il sistema al punto tale da rendere sterile la figura del Capo dello Stato. Tra l’altro, annichilire i poteri, le funzioni e le garanzie costituzionali vorrebbe dire, alla fine, lasciare debole anche il Presidente del Consiglio, perché questi non avrebbe comunque poteri pari a quelli dei suoi omologhi degli altri Paesi europei. La soluzione dell’elezione diretta può insomma apparire una panacea di tutti i mali, ma il fatto che nessun Paese democratico al mondo abbia adottato tale istituzione – esclusa la breve e fallimentare esperienza israeliana – dovrebbe farci riflettere. Qualora si giungesse effettivamente all’elezione diretta del Presidente del Consiglio, dovrebbero essere alzate le paratie delle garanzie costituzionali e dilatati gli spazi per un confronto democratico più forte e più largo possibile.

 

Da un punto di vista della storia repubblicana, in quali fasi ha prevalso la funzione esecutiva e decisionale del Presidente del Consiglio e quando quella più “debole” di mediazione? A quali trasformazioni economico-sociali si associa il cambiamento negli usi istituzionali?

Francesco Clementi: Nel contesto della cosiddetta Prima Repubblica, i partiti facevano evidentemente i conti con alcuni elementi oggettivi, il principale dei quali è che essi operavano nel periodo della Guerra fredda. All’interno di essa, il Patto di Yalta aveva sancito la spartizione delle aree di influenza politica, in ragione del quale, nei Paesi filoatlantici, cioè le liberaldemocrazie, i partiti di ispirazione comunista non potevano governare. Ciò rendeva i partiti comunisti dei gruppi interni all’area della rappresentanza politica ma esterni all’area potenziale del Governo, a differenza di tutti gli altri schieramenti politici. È chiaro che la scelta, voluta dagli elettori ma anche dal sistema della Guerra fredda, della Democrazia Cristiana come partito pivotale comportava inevitabilmente, anche nella definizione delle scelte costituzionali, una forma di governo debole, che vedeva centrale l’assetto dei partiti, con un sistema bicamerale costruito sull’identità tra le due Camere in relazione a poteri e funzioni e soprattutto con un Presidente del Consiglio che fosse innanzitutto un mediatore fra le forze politiche – certamente non un decisore. La crisi del sistema dei partiti della prima fase repubblicana e l’emergere delle nuove istanze, come quelle europee o quelle relative al rapporto con le autonomie, hanno reso sempre più difficile evitare quella che è la domanda di fondo di un ordinamento che, al pari degli altri Stati europei, non può non starsi già trasformando nella direzione di un rafforzamento dell’esecutivo. Fatta salva, come dicevamo prima, la necessaria e piena tutela delle garanzie costituzionali.

 

Quindi, a suo giudizio, è necessaria una riforma. Nel suo libro, lei espone due possibili strade di riforma costituzionale: o – come abbiamo visto prima – un rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio, senza tuttavia renderla elettiva, o un passaggio vero e proprio al presidenzialismo, prediligendo la prima opzione. Come mai? Da quali elementi culturali e sociali trae origine l’esigenza di un Presidente più forte?

Francesco Clementi: Trae origine dai modelli a elezione diretta – modelli democratici adottati dalla maggioranza dei Paesi europei. Tuttavia, nella soluzione proposta dal Governo Meloni si trova una serie di difetti: il principale è che questo premier eletto direttamente in realtà avrebbe meno poteri di quanto si creda e che, date la forza e la legittimazione che il voto popolare personale garantirebbero, tenderebbe – come già anticipato – a estendere il suo ruolo e a prevaricare il Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato, pur non essendo toccato direttamente dalle modifiche del testo costituzionale proposte, di fatto ne verrebbe fortemente ridimensionato nella sua funzione, nel suo ruolo e nelle soluzioni scelte. Dunque, il problema di fondo rimane che la scelta di un modello di elezione diretta di questo tipo si incastona dentro un dibattito pubblico che da anni vede in simili forme soluzioni ordinate ma che – a livello nazionale – può solo avere una strada: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Sarebbe l’unico modo, se si vuole contemplare l’elezione diretta, per evitare imbarazzi nella gestione del doppio ruolo tra Capo dello Stato e Capo del Governo. Diversamente, l’evoluzione del modello che sembra emergere ancora non è conclusa: siamo di fronte a un testo che non è ancora quello definitivo, con un dibattito in Parlamento che manifesta solo un relativo interesse a trovare forme di dialogo tra maggioranza e opposizione. Tuttavia, va sottolineato che l’opposizione, per la prima volta nella storia repubblicana, non ha presentato in Parlamento un testo alternativo al progetto del Governo. Questo la dice lunga sul tentativo di reciproca delegittimazione e sul perpetuo conflitto tra maggioranza e opposizione che si è stabilito e che non fa bene all’ordinamento, ai problemi e alle soluzioni che noi auspichiamo. Più che di una politica costruita sulla polarizzazione, noi abbiamo bisogno di una politica fondata sulla partecipazione che trovi delle soluzioni a un Paese che ne necessita.

 

Per certi versi, sembra un contesto che rispecchia più gli interessi di singoli gruppi politici e dei relativi leader che quelli della cittadinanza. È così?

Francesco Clementi: Sarei ancora più esplicito: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, così come è stata costruita, sembra una bandiera elettorale per assicurare un confronto pubblico che sia più possibile polarizzato e dunque potenzialmente capace di catturare meglio la pancia degli elettori. Il nostro obiettivo, al contrario, dovrebbe essere quello di individuare i problemi, fornire risposte e trovare soluzioni: in questo vedo miopia e soprattutto un interesse di breve termine. È in contrasto con tale interesse che invece dovremmo auspicare che ci sia un ritorno a una politica seria, capace di guardare a un interesse generale e dunque anche di affrontare con fatica quel dialogo in Parlamento che ancora mi pare non essere presente.

 

Come ripensare, quindi, il rapporto tra l’istituzione della Presidenza del Consiglio e quella della Repubblica, evitando che occupino l’una lo spazio dell’altra?

Francesco Clementi: Come ho accennato, secondo me la soluzione più semplice è la designazione del Presidente del Consiglio come leader di una maggioranza. A fronte di questa soluzione, laddove non si arrivi con l’esito elettorale a una risposta coerente e chiaramente visibile con un vincitore e uno sconfitto, i primi due arrivati dovrebbero sfidarsi al ballottaggio. Quindi, è un modello che prevede una designazione iniziale che poi eventualmente può trovare un ballottaggio come coronamento, con l’elezione diretta tra i due più forti. I candidati emergerebbero come leader di coalizioni e non come figure unitarie elette direttamente. Però, a oggi, siamo in una situazione nella quale, in assenza di una chiara legge elettorale nella proposta del Governo, è tutto gassoso e confuso: dentro questa confusione è anche difficile capire quali siano davvero, in questo momento, gli interessi dei partiti e quali siano, potenzialmente, le prospettive di una proposta di revisione costituzionale.

 

Nonostante l’invocazione da parte degli organi di Governo del legame con l’elettorato e la retorica del “mandato”, il nostro sistema parlamentare si basa sulla negazione del vincolo di mandato. Come pensare allora una rappresentanza efficace delle istanze sociali in seno all’organo legislativo? Come pensare, in altri termini, una soluzione alla disintermediazione e alla crisi della partecipazione?

Francesco Clementi: Non ci sono bacchette magiche, ma c’è solo una risposta a tale esigenza: il ritorno dei partiti come soggetti capaci di essere veri interpreti delle istanze sociali, altrimenti niente potrà impedire che questi vengano scavalcati. Delle due l’una: o si pensa che sia possibile rimettere il dentifricio nel tubetto e mantenere questi partiti politici che sono stati incapaci di svolgere la propria missione, oppure – proprio perché ciò non è possibile – bisogna avere il coraggio di guardare allo strumento “partito politico” con occhi nuovi, capaci di declinare meglio le istanze di una democrazia in trasformazione e di un tempo nel quale, in fondo, partecipare vuol dire innanzitutto essere coinvolti nelle decisioni e non, invece, essere chiamati a votare una e una sola volta.

Scritto da
Valerio Galletta

Studente della magistrale in Scienze storiche presso l’Università “Sapienza” di Roma, dove è rappresentante degli studenti. Ha diretto per due anni un magazine online con una redazione under18 edito da alcune case editrici romane. Tra i suoi interessi ci sono la storia dei partiti, dell’economia e dell’industria, in particolare per gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Ha partecipato al corso 2023 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

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