Recensione a: Luigi Di Gregorio, Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2019, pp. 316, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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All’interno della vastissima letteratura sulla crisi delle democrazie occidentali, vi è un filone interpretativo particolarmente interessante e molto spesso trascurato che ha come obiettivo quello di offrire una lettura più squisitamente sociologica e antropologico-culturale del fenomeno, incentrata non tanto sulle cause esogene – globalizzazione, impatto delle tecnologie sul mercato del lavoro, migrazioni, scelte di policy – quanto su quelle endogene, relative alle contraddizioni e tensioni insite alla democrazia stessa e al demos che la abita. La lente dell’analisi si sposta in questo modo dalle problematiche concernenti l’output del sistema, tra cui ad esempio l’impotenza[1] sempre maggiore degli stati nazionali nell’attuare politiche economiche efficaci nel contesto globale, a quelle inerenti all’input, ossia al cittadino-elettore: oggetto di discussione saranno quindi la nuova sfera pubblica mediatizzata, gli elettorati volatili e sradicati e più in generale i mutamenti antropologici seguiti agli anni Sessanta che hanno portato, assieme al crollo delle meta-narrazioni, alla transizione verso la postmodernità[2].
In questo filone rientra Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico (Rubbettino 2019), l’ultimo lavoro di Luigi Di Gregorio, docente di Comunicazione Pubblica e Politica presso l’Università della Tuscia. La tesi principale del libro appare già dal titolo: la democrazia è malata perché malato è il demos, il popolo, e trattandosi quindi di una patologia lo schema migliore per affrontarla secondo Di Gregorio è quello clinico, in cui si evidenziano i sintomi, si esegue la diagnosi e si propongono delle terapie.
Se rileggiamo Tocqueville, così come ci viene presentato dal politologo Giovanni Orsina[3], ci accorgiamo che la contraddizione fondamentale della democrazia risiede nella promessa, intrinseca al concetto stesso di democrazia, di (illimitata) autodeterminazione soggettiva a cui segue la pretesa da parte di ciascun individuo che la stessa sia mantenuta. Da questa dialettica promessa-pretesa sorgono tensioni che, nei diversi contesti storici, possono portare ad un indebolimento più o meno marcato dell’involucro democratico; così, ad esempio, in una fase di stagnazione come quella attuale la discrasia tra le alte aspirazioni del (fu) ceto medio, a cui sembrava fosse promesso un benessere sempre maggiore, e l’impossibilità di realizzarle ha condotto verso la formazione di una vera e propria classe disagiata[4] (Ventura 2017) e una guerra di tutti[5] (contro tutti) per il mantenimento del proprio status sociale e la spartizione delle ormai scarse risorse.
In questa cornice concettuale possiamo inserire l’analisi di Di Gregorio. L’autore infatti si concentra sugli effetti della transizione dal moderno al postmoderno, per cui da una società più o meno compatta, guidata ancora da meta-narrazioni, partiti e coordinate fisse, si è passati ad una società individualista, narcisistica, imperniata sulla logica dei consumi e dei desideri illimitati e incapace di affidarsi a qualcosa di durevole. Le conseguenze, per quanto concerne la politica, sono evidenti e sotto i nostri occhi: volatilità alle urne, costante ricambio dei governi, impossibilità di soddisfare l’overloading di domande provenienti dall’elettorato, incapacità di mantenere un certo livello di mobilitazione emotiva a lungo, voto d’opinione, disaffezione. In altri termini, la democrazia – e quindi la politica – faticano in questa fase storica a contenere la spinta di autodeterminazione soggettiva di un individuo sempre più insofferente e imprevedibile, entrando in una spirale di crisi dalle conseguenze ancora difficili da prevedere.
Alcuni dati mostrano con chiarezza queste caratteristiche sintomatiche, tendenzialmente comuni a tutte le democrazie occidentali. «In Disaffected Democracies, Pharr e Putnam (2000) sottolineano come tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento i trend di fiducia nei confronti della classe politica, dei partiti e dei parlamenti segnino mediamente un calo in quasi tutte le democrazie prese in esame. Per l’esattezza, la fiducia nei politici diminuisce in 12 democrazie su 13, quella nei partiti in 17 su 19 e nei parlamenti in 11 su 14» (p.20). A questo trend si aggiunge quello relativo alla partecipazione elettorale, scesa – per quanto concerne le elezioni per la camera bassa di 19 democrazie europee[6] – da una partecipazione media stabile tra l’83 e l’85 per cento nei decenni che vanno dalla metà degli anni Quaranta fino alla metà degli anni Ottanta al 74 per cento dell’ultimo quinquennio; contemporaneamente, la volatilità media aggregata nei paesi presi in esame è arrivata oltre i 18 punti (non superava i 10 nel periodo tra gli anni Quaranta e Ottanta) e la somma dei due partiti maggiori, in sostanza quanto determina uno scacchiere politico bipartitico, dal 68 per cento di inizio anni Ottanta è scesa sotto il 55 per cento. In generale, si è registrato un aumento della frammentazione – non a caso è aumentato anche il numero effettivo di partiti – (non) ideologica all’interno della società. Si potrebbe pensare, scrive Di Gregorio, di essere di fronte ad un elettorato più libero, ma quanto emerge sembra piuttosto la fotografia di un coinvolgimento più instabile, con il passaggio dal voto di appartenenza al voto d’opinione. Come suggerisce Michele Mezza[7], analizzando soprattutto il legame tra Internet e politica, la tradizionale rappresentanza sta venendo sostituita dai partiti momentanei del ribellismo molecolare, costituiti dalla occasionale convergenza di stati d’animo di individui. In un clima così mutevole, un’altra conseguenza naturale è l’aumento del ricorso al referendum, sintomo di una classe politica sempre più debole e dipendente dagli umori del demos, e la proliferazione dei cosiddetti partiti populisti – in particolare, la tendenza verso quello che potremmo definire un vero e proprio stile politico[8].
Se Pharr e Putnam sostenevano che le cause delle disaffacted democracies fossero politiche, la tesi di Di Gregorio fa intendere che «la crisi delle democrazie ha prevalentemente cause socio-culturali e psico-sociali. La politica non è esente da colpe, ma probabilmente la sua responsabilità più grande è quella di non agire come classe dirigente, di inseguire anziché dirigere la società» (p.35). Questo non significa però che le policy – ovvero gli output prodotti dalla classe dirigente per rispondere alle domande dei cittadini – siano irrilevanti: nonostante il focus del volume sia sul demos, Di Gregorio è consapevole dell’interdipendenza tra i due fattori (una scarsa, qualitativamente e quantitativamente, partecipazione può creare una buona rappresentanza? E, viceversa, il calo della partecipazione non può derivare proprio dalla scarsa rappresentanza?). Non a caso evidenzia come vi sia una doppia delegittimazione democratica, sia sul lato delle politics (quanto appena visto) che su quello delle policy – tra cui una crisi di sovranità, efficacia, efficienza, trasparenza e accountability; in questo caso, molte sono comunque collegate alla crisi socio-culturale: ad esempio, l’efficacia delle politiche soffre delle sempre maggiori aspettative, mentre l’efficienza fatica a convivere con le ottiche di breve periodo con cui la politica cerca di contenere un elettorato volatile e infedele.
Dinanzi a questa crisi che, come sostiene Di Gregorio, per quanto sì acuita da circostanze esogene ed errori delle classi dirigenti passate, ha soprattutto radici antropologiche e socio-culturali, bisogna eseguire una diagnosi che vada ad analizzare i mutamenti che hanno coinvolto il demos e portato alla situazione attuale.
Potremmo suddividere la parte relativa alla diagnosi in due blocchi, uno più focalizzato sull’individuo contemporaneo preso nella sua soggettività, l’altro incentrato sulla cornice in cui questo agisce, ovvero la sfera pubblica mediatizzata, il «motore della sindrome narcisista»: in altre parole, la società della comunicazione e dell’immagine.
Alle origini della crisi Di Gregorio pone la transizione culturale verso la postmodernità individualizzata e narcisistica, facendo riferimento «alla definizione di Lyotard sulla progressiva incredulità nei confronti delle metanarrazioni […] ossia sulla crisi profonda di fiducia e di unitarietà che ha colpito la trasmissione del sapere – la scienza, il progresso, la ricerca, la cultura, le religioni, le “visioni del mondo” e le autorità cognitive – nella seconda metà del Novecento, fino a sfociare nella società della post-verità» (p.59). Vi è stato un processo di progressiva astrazione, tramite il razionalismo critico e lo sviluppo delle istituzioni, dalle comunità primordiali, basate su meta-narrazioni, credenze, costumi e consuetudini[9] condivise. Se già con l’Umanesimo è possibile rintracciare alcuni segnali che indicano in questa direzione, è solo con il pluralismo moderno – portato all’estremo – che avviene una compiuta «relativizzazione generalizzata dei sistemi di valore e degli schemi interpretativi»; come scrivono Berger e Luckman, è la struttura stessa delle società moderne che crea, accanto al benessere diffuso e ad altri vantaggi in termini di diritti, anche le condizioni per l’insorgere di crisi di senso soggettive e intersoggettive: «più libertà, più astrazione e meno certezze implicano crisi di identità, smarrimento ed egocentrismo, inteso come un ripiegamento su sé stessi» sottolinea Di Gregorio riprendendo la riflessione dei due sociologi statunitensi. In questa continua dialettica tra senso e libertà, aggravio e liberazione, vi sono ovviamente – come possiamo constatare negli ultimi anni – anche reazioni comunitarie più o meno forti spinte dal rifiuto per la modernità individualista, ma questi tentativi difficilmente trovano sfogo in appartenenze profonde e stabili perché l’individuo contemporaneo, come sostiene Cristopher Lasch, è ricettivo verso le nuove idee, ma privo di convinzioni.
Di Gregorio passa in rassegna nelle successive pagine la spirale consumistica che ha inebriato il demos, con particolare attenzione al passaggio dall’uomo massa della modernità solida all’uomo-folla della modernità liquida: per quest’ultimo l’unica comunità possibile è quella contingente del flash-mob e l’unica realtà concepibile è quella dettata dall’immaginario (narcisistico), dai non-luoghi come i centri commerciali, dalle marche, dal godimento insaziabile e dalla gratitudine immediata. Il problema maggiore dell’homo ludens poc’anzi tratteggiato è stato evidenziato da Neil Postman in un’analisi comparata delle distopie di Orwell e Huxley: in Orwell la cultura diventa una prigione, mentre in Huxley diventa una farsa; riconoscere e combattere una prigione è più o meno fattibile, ma cosa succede invece se non si odono grida d’angoscia? Chi è disposto a prendere le armi contro un mare di divertimenti? Vi sono sì delle controindicazioni nell’attuale società del godimento, come la crescente depressione e l’assuefazione, ma attraverso qualche farmaco[10] o la creazione di nuove dipendenze l’homo ludens si mantiene in vita senza uscire dal circolo vizioso dei consumi. Questo, scrive Di Gregorio, è uno dei nodi più difficili da sciogliere relativi ai mutamenti che hanno interessato la società contemporanea.
I vettori principali di queste trasformazioni, sostiene l’autore, sono i mass media. «La nota formula di McLuhan, il medium è il messaggio, costituisce il punto di partenza dell’analisi. Tutti i mezzi di comunicazione producono effetti sul nostro modo di percepire e interpretare la realtà a prescindere dai contenuti veicolati dai media stessi» (p.155). Di Gregorio individua, nell’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, tre fasi: quella orale, quella della stampa e quella elettronica. Concentrandosi soprattutto sul rapporto tra la seconda e la terza, sottolinea – richiamando le riflessioni di Neil Postman e Giovanni Sartori – come con la tv[11] sia iniziata l’informazione per immagini, che non richiede più lo sforzo di astrazione e concettualizzazione necessario per la lettura di un testo scritto; il mondo viene così riprodotto in una sequenza di fatti ed eventi spesso decontestualizzati, secondo la logica televisiva dello «schiacciamento sul presente e azzeramento del valore del passato e del futuro». L’accelerazione portata dai nuovi mezzi di comunicazione, in particolare i social network, presuppone la costante presenza sotto i riflettori – un politico non percepito non esiste – e l’utilizzo di nuove strategie comunicative diverse dalle vecchie che insistevano sul principio di identità e non contraddizione[12]. Ora, come afferma Christian Salmon, la contraddizione è quasi necessaria per rimanere al centro dell’attenzione e la versatilità è un requisito, un modo per essere sempre presenti e anticipare gli altri (secondo le logiche del fast thinker).
La realtà, scrive Di Gregorio, è sempre più mediaticamente determinata; il connubio tra la tv e i nuovi social network ha il potere di conferire uno status – una cosa non esiste se non ha una adeguata copertura mediatica –, fornire i frame per interpretare il mondo circostante e indirizzare le diverse opinioni. In questa sfera mediatizzata, diventata ancora più pervasiva con Internet, l’opinione pubblica risulta paradossalmente meno informata: in primo luogo, perché una eccessiva e continua quantità di informazioni si scontra con la razionalità limitata[13] dell’essere umano, che potrebbe non essere in grado di gestirle; in secondo luogo, con il dilagare delle immagini in tempo reale, «semplicemente, non abbiamo più tempo di riflettere né l’abitudine a farlo, essendo in balia di un’alluvione di stimoli sensoriali a flusso continuo» (p.168).
Ci troviamo di fronte ad una democrazia del pubblico, come l’ha battezzata Bernard Manin, dove le scorciatoie delle media logic (velocità, sensazionalismo, adeguamento alle richieste dei consumatori) interessano anche una politica ormai personalizzata e i partiti: da un lato abbiamo il leader costretto a trasformarsi in brand di sé stesso, dall’altro il fenomeno più generale del market oriented party, per cui i partiti cercano di riposizionare la loro offerta politica per incontrare la domanda. All’interno di queste dinamiche, sempre maggior peso hanno i sondaggi, volti a testare gli umori del demos per agire di conseguenza, tanto che Di Gregorio parla di una vera e propria sondocrazia.
Un ultimo appunto, prima di avviarci verso le conclusioni, concerne il rapporto tra questa nuova sfera pubblica mediatizzata e digitale e la tendenza, squisitamente umana, di incorrere in bias ed euristiche. Di Gregorio propone un denso elenco di bias, tra cui, a titolo esemplificativo, l’illusory truth effect (per cui tendiamo a credere a qualcosa dopo diverse ripetizioni) o il third-person effect (tendiamo a ritenere che gli effetti e le manipolazioni dei mass media funzionino solo sugli altri) passando per i più noti come il confirmation bias o il framing effect. Il concetto che l’autore vuole però sottolineare è il seguente: «la nostra mente è da sempre una brain fiction, ma l’info-sfera digitale in cui è immersa oggi – e l’ecosistema mediale da cui è stata alimentata per anni – l’ha allenata a produrre un fake world personalizzato e confortevole»; in definitiva, la società consumistica, la sfera pubblica mediatizzata, la fine delle meta-narrazioni e la sfiducia generalizzata verso il sapere e le autorità cognitive «costituiscono un habitat naturale per il […] trionfo della finzionalizzazione in cui fantastico, immaginario e reale si miscelano con dosaggi personalizzati» (pp.254-255).
La difficoltà nel trovare una possibile terapia efficace risiede nel fatto che in questa sede non stiamo parlando di policy più o meno praticabili, ma di mutamenti antropologici che hanno coinvolto il demos. Inoltre, la società del benessere è stata fortemente voluta, «[tutto questo] è nato e cresciuto sulla spinta della nostra domanda di libertà individuale, di diritti, di autonomia, di benessere e di progresso» e molto spesso rappresenta conquiste irrinunciabili. Risulta quindi quantomeno arduo provare a correggere dall’alto, con il rischio di cadere nel paternalismo pedagogico e autoritario, gli effetti collaterali della libertà o del benessere. Non a caso, le pagine conclusive di Di Gregorio sono segnate da un forte pessimismo: dopo aver analizzato le diverse prospettive-terapie che le democrazie liberali hanno di fronte – sovranismo, tecnocrazia, ritorno alle città stato, democrazia del sorteggio, epistocrazia ecc.[14] – l’autore propone di accettare la realtà del marketing politico e focalizzarsi su strategie efficaci nel contesto della democrazia dell’immaginario. Ad esempio, sfruttando le nuove conoscenze nel campo della psicologia cognitiva, delle neuroscienze e della linguistica cognitiva e lavorando su frame interpretativi, miti e simboli. Bisognerebbe, scrive, costruire delle contro-narrazioni iper-semplificando la complessità, in modo da ottenere più consenso. Dal momento che non si può chiedere ai media di uscire dalle logiche del mercato (un titolo sensazionalistico fa vendere di più), alla politica di non cavalcare i diversi umori e ai cittadini di essere qualcosa di diverso, rimane solo la possibilità di muoversi nel contesto esistente: investire sul finzionale per rendere credibile il reale; oppure, altro esempio, spettacolarizzare le issues meno attrattive.
Il realismo e la rassegnazione di Di Gregorio sono suggestivi, ma non paiono prospettive praticabili per chi volesse anche solo gradualmente migliorare l’esistente politico e socio-culturale. Se lavorare su contro-narrazioni e stili comunicativi diversi risulta sicuramente necessario, ammettendo quindi i mutamenti principali che hanno riguardato il demos nel suo complesso, non si può allo stesso tempo negare la possibilità di incidere sugli aspetti socio-culturali anche con specifiche policy in grado di dare respiro al ceto medio e ricomporre le diverse fratture sviluppatesi all’interno delle nostre società; se seguiamo l’adagio di Karl Marx per cui è la vita concreta a fare la coscienza, possiamo convenire che efficaci politiche pubbliche e private possono aiutare o quantomeno dare alcuni strumenti per muoversi meglio all’interno di una sfera così mediatizzata e pervasiva. Considerata l’interdipendenza tra input e output – come dicevamo, è la scarsa partecipazione che produce una scarsa rappresentanza o viceversa? – un’azione organica che coinvolga entrambi è fondamentale.
In ogni caso, il volume di Di Gregorio sottolinea una realtà difficilmente confutabile: non possiamo essere diversi da noi stessi; non si può cambiare il demos. Si può cercare di dirigerlo, condurlo verso determinati obiettivi, ma non cambiarlo. Ed è per questo che, ci sentiamo di dire, l’obiettivo primario per far fronte a queste trasformazioni dovrebbe essere la costruzione di una classe dirigente di qualità, lontana dalle logiche del paternalismo pedagogico ma capace invece di guidare liberamente la società attraverso le sempre più numerose sfide politiche, economiche e culturali che dovrà affrontare in futuro. Altrimenti, la dialettica politica rischierebbe di rimanere schiacciata tra l’anarchismo imprevedibile e atomizzato della società dei consumi e le diverse spinte autoritarie che ad esso cercherebbero di contrapporsi.
[1] Si veda L. Castellani, Il potere vuoto. Le democrazie liberali e il ventunesimo secolo, Guerini e Associati, Milano 2016.
[2] Vi sono diversi termini per descrivere la società e la cultura contemporanee: oltre a postmodernità, si può citare la modernità liquida di Bauman, la surmodernità di Augè o l’ipermodernità di Codeluppi.
[3] Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018.
[4] Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, minimum fax, Roma 2017.
[5] Raffaele Alberto Ventura, La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale, minimum fax, Roma 2019.
[6] Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia e Svizzera.
[7] Michele Mezza, Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto, Donzelli, Roma 2018.
[8] Come suggerisce Mauro Barberis nel suo ultimo libro Populismo digitale. Come Internet sta uccidendo la democrazia, Chiarelettere, Milano 2020.
[9] Si veda, per quanto concerne il passaggio dal sistema consuetudinario medievale all’assolutismo giuridico della norma astratta e generale tipico dello Stato nazionale P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza 2016.
[10] In merito si legga Slavoj Žižek, Come un ladro in pieno giorno. Il potere all’epoca della postumanità, Salani Editore, Milano 2019. Interessante a riguardo è anche l’ormai classico Capitalist Realism di Mark Fisher.
[11] E prima con i due suoi precursori tecnologici: il telegrafo e la fotografia.
[12] Si legga in merito Nello Barile, Politica a bassa fedeltà. Populismi, tradimenti dell’elettorato e comunicazione digitale dei leader, Mondadori Università, Milano 2019.
[13] Sul concetto di razionalità limitata si veda Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico, Mimesis, Milano 2016.
[14] Tra gli autori presi in considerazione: Parag Khanna, Cass R. Sunstein, David Van Reybrouck, Jason Brennan.