Recensione a: Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea, Milano 2020, pp. 320, euro 26 (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Se oramai non vi è quasi più dubbio alcuno sul fatto che il combinato disposto tra capitalismo e progresso tecnologico nella stagione delle rivoluzioni industriali abbia sia portato crescita e prosperità ai paesi occidentali che lasciato diverse ferite al pianeta stante la logica estrattiva ed espansiva insita nello sviluppo industriale, più interessante è la tesi, per certi versi paradossale, per cui potrebbe essere lo stesso combinato disposto ad invertire la rotta e guidare l’umanità verso una crescita più sostenibile. Di questo avviso è il ricercatore della MIT Sloan School of Management Andrew McAfee, che nel suo ultimo libro Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse (Egea 2020, trad. Giuseppe Maugeri. Titolo originale: More from Less. The Surprising Story of How We Learned to Prosper Using Fewer Resources) si pone l’obiettivo di dimostrare come, al netto delle fratture e contraddizioni che continuano a caratterizzare il nostro presente, la via che le società umane hanno imboccato stia conducendo ad una maggiore prosperità ottenuta con meno risorse, più cura per l’ambiente e per l’ecosistema in generale. I vettori di questo sviluppo sarebbero, oltre ai già citati capitalismo e progresso tecnologico, delle opinioni pubbliche più consapevoli su certi temi e dei governi maggiormente reattivi sugli stessi. In questo modo, ad esempio, gli USA tra il 1982 e il 2015 hanno visto il tonnellaggio totale delle colture prodotte aumentare di oltre il 35 per cento nonostante i 18 milioni di ettari restituiti alla natura e la riduzione nell’utilizzo complessivo di potassio, fosfato e azoto; spostandoci sulle lattine di alluminio, se a inizi anni Sessanta queste pesavano circa 85 grammi, ora arrivano a pesare anche meno di 10 grammi, con un notevole risparmio nelle tonnellate di alluminio utilizzato; o, per quanto concerne il fenomeno della dematerializzazione, oggi in un unico smartphone vediamo confluire tutti quegli accessori che richiedevano materiali, risorse e lavoro, quali la calcolatrice, il registratore, la radiosveglia, la fotocamera, le mappe e molto altro.
Il punto di partenza di McAfee, tale da indurlo ad approfondire questa tesi, è stato il saggio di Jesse Ausubel The Return of Nature. How Technology Liberates the Environment, pubblicato nel 2015 sul Breakthrough Journal e incentrato sul fenomeno della dematerializzazione dell’economia statunitense, per cui si stava rivelando possibile, notava Ausubel, svincolare la crescita economica dal consumo di risorse. La correlazione tra questi due elementi sembrava infatti fino a poco tempo fa un dato appurato, specie considerando la stagione delle rivoluzioni industriali, analizzata attentamente da McAfee nella prima parte del libro: se prima del motore a vapore l’umanità aveva registrato una limitata crescita della popolazione secondo oscillazioni malthusiane di relativo benessere e privazione, con l’inizio della prima rivoluzione industriale comincia un periodo di sviluppo economico e demografico, che porta sì prosperità ma che viene anche trainato da un consumo incessante di risorse, esternalità negative (inquinamento), distruzione di specie animali e vegetali e contraddizioni sociali – tra le altre, il ruolo avuto dallo sfruttamento della forza lavoro e dalla colonizzazione.
Con gli abitanti della terra passati da circa un miliardo nel 1800 ai quasi quattro miliardi di inizio anni Settanta del XX secolo e uno sfruttamento industriale del pianeta sempre più incisivo per garantire quella prosperità di cui i paesi occidentali (e successivamente anche quelle emergenti) necessitavano, nacque presto una vivace corrente di pensiero che teorizzava l’esaurimento delle risorse e la necessità di appore limiti allo sviluppo economico e demografico. A partire dal best-seller del 1968 The Population Bomb di Paul Ehrlich, per cui negli anni Settanta milioni di persone sarebbero morte di fame stante l’incapacità di nutrirle tutte, e dal rapporto del 1972 commissionato al MIT dal Club di Roma I limiti dello sviluppo, secondo cui se non si fossero apposti dei limiti alla crescita della popolazione e dell’economia le riserve globali conosciute di alluminio, rame, gas naturale e petrolio si sarebbero esaurite entro cinquantacinque anni, McAfee passa in rassegna alcune delle previsioni più pessimistiche diffuse in quegli anni sul futuro del pianeta e dell’umanità rivelatesi poi – per i più svariati motivi – erronee.
Per quanto quelle previsioni non si siano avverate, gli equilibri del pianeta sono tutt’altro che solidi e il rapporto precario tra sviluppo capitalistico, crescita della popolazione e risorse disponibili permane. Lo stesso autore, prima di argomentare con ottimismo la sua tesi, riconosce il circolo vizioso: «Possiamo star certi che gli umani vogliono per natura sempre di più, all’infinito. Solo che le risorse del nostro pianeta sono limitate, e questo significa che le esauriremo. E rendere più efficienti le tecnologie che ci aiutano a convertire le risorse in beni e servizi non ci aiuterà a conservare le prime: perché ci limiteremo a utilizzare quella maggiore efficienza per creare sempre più beni e servizi, incrementandone l’erosione. Esiste un modo per venir fuori da questo pasticcio? Oppure, con tutte le tecnologie straordinariamente potenti dell’Era Industriale, ci stiamo davvero avviando verso il più grosso schianto malthusiano di tutti i tempi?» (p. 55).
Le principali proposte formulate nel clima degli anni Settanta ruotavano attorno a quattro direttive: consumare meno (Consume less), riciclare (Recycle), imporre dei limiti (Impose limits) e ritornare alla terra (go Back to the land). Se la prima e l’ultima non hanno avuto seguito e riscontro – anzi, i consumi sono aumentati e abbiamo assistito a considerevoli fenomeni di urbanizzazione – e la seconda rappresenta una storia a sé[1], la terza ha avuto manifestazioni sia positive che negative secondo l’autore. Ad esempio, non sono da auspicare politiche del figlio unico come quella adottata in Cina nel 1979 mentre, ci dice McAfee, sono sicuramente utili i provvedimenti volti a ridurre l’inquinamento, anche attraverso cinici sistemi cap and trade di negoziabilità dei diritti ad inquinare – dal 1980 al 2015 le emissioni totali di sei dei principali inquinanti atmosferici sono diminuite del 65 per cento negli Stati Uniti a seguito del Clean Air Act 1970 e successivi aggiornamenti – o quelli finalizzati a limitare la caccia e la pesca, salvaguardando alcune specie (dalla lontra marina ai delfini) e restringendo le possibilità di commercio di prodotti di derivazione animale. Interventi che incidono sulla libertà ma che, grazie alla pressione delle opinioni pubbliche, alla reattività dei governi e alle alternative offerte dal progresso tecnologico (in grado di creare nuove opportunità, spazi e mercati), possono condurre lo sviluppo verso sentieri più sostenibili. Un esempio di successo riportato da McAfee riguarda la battaglia contro i clorofluorocarburi (CFC), sostanze chimiche responsabili della riduzione dell’ozono: con il Protocollo di Montréal del 1987 tutti i paesi delle Nazioni Unite si impegnarono a ridurre l’uso delle sostanze chimiche prima del 50, poi del 75 e infine del 100 per cento nel giro di dieci anni; il coinvolgimento emotivo dell’opinione pubblica, la relativa facilità nel rintracciare il numero ristretto di aziende che producevano dette sostanze e le possibilità che le stesse aziende avevano intravisto nel brevettarne di nuove, grazie all’evolversi delle conoscenze tecniche, ha permesso di fronteggiare al meglio il problema.
Il nucleo della questione, e del “pasticcio” di cui parla McAfee, risiede però soprattutto nel consumo di risorse. L’autore riporta una serie di grafici volti a dimostrare come l’utilizzo negli USA dei principali metalli – alluminio, nickel, rame, acciaio e oro – sia già in una fase post-picco, vale a dire che dopo aver raggiunto il consumo massimo ora è in diminuzione: nel 2015, scrive il ricercatore, l’utilizzo totale di acciaio negli USA è diminuito di oltre il 15 per cento rispetto al picco del 2000, quello di alluminio di oltre il 32 per cento rispetto al suo picco e quello di rame del 40 per cento. Dati che vogliono mostrare come la prima potenza economica al mondo sia in una fase di dematerializzazione della propria economia, in cui grazie al progresso tecnologico riesce a crescere nonostante un utilizzo inferiore di risorse. Il discorso è sicuramente convincente per quanto riguarda gli esempi virtuosi che abbiamo riportato all’inizio di questo lavoro – lattine in alluminio, smartphone, produttività delle colture – mentre sull’uso dei metalli in generale sorgono spontanei alcuni quesiti: che ruolo ha avuto in questo la terziarizzazione delle economie occidentali? I dati possono sposarsi con l’esternalizzazione dei processi produttivi pesanti nei paesi a basso costo? Di certo gli USA non hanno smesso di produrre, come sottolinea l’autore, ma possiamo dire che il minore utilizzo dei metalli non sia legato alle esternalizzazioni, delocalizzazioni e, più in generale, alla globalizzazione degli scambi? Da questo punto di vista, i dati necessiterebbero di una maggiore accuratezza, in modo da distinguere produzione, consumo, esternalizzazione, imp-exp e per poi confrontarli con quelli degli altri paesi, specie quelli emergenti, vedendo se si possono trovare correlazioni, nessi causali o altri particolari rapporti.
Vi sono ciononostante numerosi spunti convincenti nel testo di McAfee: il progresso tecnologico può portare veramente, per riprendere il quesito posto a Jesse Ausubel dal fisico Robert Herman nel 1987, gli edifici ad essere più leggeri (o le lattine di alluminio, come dall’esempio), riducendo l’uso di materiali; oppure, ad elaborare nuove tecniche estrattive, come il cosiddetto fracking (fratturazione idraulica), che ha permesso di ottenere petrolio (scongiurandone per ora il temuto esaurimento) e gas naturale (che produce meno anidride carbonica) da formazioni rocciose situate in profondità nel sottosuolo e altrimenti non raggiungibili; o, infine, a permettere la produzione – per affrontare il cambiamento climatico e la malnutrizione nei paesi del terzo mondo – dei controversi OGM, su cui vi è uno sfasamento secondo l’autore tra opinione pubblica (prevalentemente contraria) e comunità scientifica (che li approva), o dell’energia nucleare (potenzialmente tra le più pulite) con nuove centrali e sistemi di smaltimento delle scorie più avanzati.
I temi sono delicati e destinati ad essere discussi, in modo da arricchire ulteriormente il dibattito. Dopotutto, il rapporto tra capitalismo, progresso tecnologico e pianeta difficilmente si presta a letture unidirezionali – e anche McAfee si impegna a riconoscere, nonostante la sua visione ottimistica, le contraddizioni del nostro sviluppo, da quelle sociali come la dis-connessione tra i cittadini alla base delle tensioni degli ultimi anni, i fenomeni di concentrazione di ricchezza e potere accelerati dalle tecnologie e l’impoverimento delle “aree interne”, a quelle relative al clima, alla biodiversità e al suolo.
In generale, se la tecnologia può permetterci di affrontare numerose sfide in futuro, va sempre ricordato che la sua esistenza dipende da un enorme ingranaggio tecnico-industriale che richiede per perpetuarsi ingenti capitali, infrastrutture, materie, scambi di informazioni, macchinari; e, con tutta probabilità, ne richiederà sempre di più, per far fronte alla legge dei rendimenti decrescenti e alla maggiore complessità del reale. Da questo punto di vista, al momento, più che viaggiare dritti in una direzione di maggior benessere e minor impatto sul pianeta, sembra a chi scrive che ci troviamo sempre nel circolo vizioso delineato dal già citato rapporto I limiti dello sviluppo del 1972, forse con armi più avanzate, questo lo possiamo e dobbiamo riconoscere, ma anche con sfide decisamente più complicate: «Qualunque società che si sforzi di oltrepassare i limiti posti dalla natura facendo ricorso a nuove tecniche si trova a un certo punto di fronte ad una scelta fondamentale: è preferibile adattarsi a vivere all’interno di tali limiti, accettando una regolazione autoimposta del processo di sviluppo e di crescita, oppure continuare sulla via dello sviluppo, fino al manifestarsi di qualche ostacolo naturale, sperando che nel frattempo i progressi della tecnica consentiranno di rimuoverlo?» (I limiti dello sviluppo, 1972).
Se il progresso tecnologico riuscirà a eliminare la viziosa circolarità – per cui ad ogni risoluzione tecnica di un problema se ne crea un altro da risolvere, come quando il giocatore dilettante con il Cubo di Rubik nel completare una facciata sposta accidentalmente un riquadro dell’altra – ed imboccare la lineare via della prosperità, non è dato saperlo. Quello che è sicuro è che per ora abbiamo scommesso su questa strada, motivo per cui bisogna innanzitutto riconoscerne le opportunità, come il libro di McAfee ci insegna, senza però dimenticarsi di fratture, disagi e rischi insiti in questo tortuoso percorso.
[1] «Tuttavia, il riciclo è irrilevante ai fini della dematerializzazione. Perché? Perché il riciclo riguarda la fonte da cui le fabbriche che producono risorse attingono i loro input, mentre la dematerializzazione ha a che fare con ciò che è successo alla domanda totale verso i loro output» (p. 98).