Europa e Stati Uniti di fronte alle sfide della crisi
- 28 Novembre 2017

Europa e Stati Uniti di fronte alle sfide della crisi

Scritto da Gianluca Piovani

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Questo articolo si propone di analizzare una serie di recenti dinamiche economiche e di delineare alcune prospettive future, per mettere in evidenza alcuni aspetti di un’analisi comparata della risposta americana e europea alla crisi.

L’economia USA attualmente è più forte di quella europea ma, da un punto di vista di ciclo economico, si è forse aperto uno spiraglio relativamente più favorevole all’Europa che non agli Stati Uniti.

Dopo lo scoppio della crisi che avvenne con dinamiche che abbiamo descritto in un precedente articolo, già nell’ottobre 2008 gli Stati Uniti vararono rapidamente un programma di aiuti federale, il cosiddetto TARP[1] del valore di quasi 500 miliardi di dollari, per aiutare le banche a smaltire i derivati tossici che le avevano messe in crisi. Contemporaneamente la Banca Centrale statunitense supportò l’economia con un’enorme immissione di liquidità tramite operazioni non convenzionali di QE che l’hanno portata ad aumentare le dimensioni del proprio bilancio dai circa 900 miliardi pre crisi ai quasi 4.500 miliardi attuali[2].

La risposta degli Stati Uniti alla crisi è stata su tutti i fronti (sia monetario che fiscale) decisa e federale, senza lasciare spazio ad indecisioni e divisioni e questo ha prodotto risultati significativi.

In Europa invece, dove la crisi economica si è legata alle criticità del processo d’integrazione generando la situazione analizzata in questo articolo, i problemi dovuti alla mancanza di risposta politica sono stati parzialmente tamponati solo dall’intervento della BCE con l’OMT prima (2012) ed il QE poi (2014); seppur benefici, tali interventi sono stati molto più tardivi di quelli americani e non si sono accompagnati da misure fiscali.

La risposta europea alla crisi rispetto a quella americana è stata tardiva e così lo è stata anche la ripresa economica. Rispetto ai massimi del 2007 il PIL degli Stati Uniti è cresciuto del 28,64% (12,39% in termini reali)[3] mentre il PIL dell’Unione Europea a 28 del 12,60% (5,34% in termini reali)[4]. La fiducia che gli Stati Uniti hanno ottenuto li ha favoriti da un punto di vista di flussi di capitali, i quali hanno causato un forte rialzo degli indici di borsa, il cui valore non solo ha superato i massimi precrisi ma è quasi raddoppiato rispetto a questi (S&P 500).

L’Unione Europea invece ha superato i massimi precrisi solamente di circa il 20% (MSCI EMU). L’inflazione è stata bassa in entrambe le aree geografiche ma considerato che il tasso ritenuto ottimale è pari al 2%, anche per quanto riguarda l’inflazione gli Stati Uniti hanno fatto meglio dell’Unione Europea (media dal 2007 ad oggi del 1,45% per gli USA[5] e di 0,80% per l’Unione Europea[6]).

Il tasso di disoccupazione è tornato circa ai minimi del 2007 per entrambe le aree: a settembre 2017 negli USA era pari a 4.2%[7] mentre nell’Europa a 28 a 7.5%[8]. Un confronto storico dell’evoluzione della disoccupazione mostra come il mercato del lavoro statunitense abbia recuperato più rapidamente lo shock della crisi. Mentre in entrambe le aree statunitense ed europea la disoccupazione è rapidamente balzata a circa il 10% già nel 2009, questa è poi rapidamente decresciuta negli USA mentre in Europa ha continuato ad aumentare fino al 2013 raggiungendo l’11%. La diminuzione in Europa è stata quindi rapida ma sempre in ritardo rispetto agli Stati Uniti.

Rileviamo inoltre come tutto ciò sia accaduto in un periodo storico in cui l’euro si è deprezzato nei confronti del dollaro, favorendo quindi, da questo punto di vista, l’economia europea rispetto a quella USA: il tasso di cambio è infatti sceso dai massimi del 2008 superiori a 1.5 fino a toccare 1.05 nel corso del 2017.

Tutto ciò vuol dire che gli Stati Uniti hanno fatto dell’Europa? Senz’altro è così, ma questo non significa, d’altra parte, che ciò avverrà anche in futuro.

La corsa dell’economia a stelle e strisce l’ha ormai spinta in una situazione che gli economisti definiscono ciclo maturo o fine ciclo. Notoriamente i cicli economici non sono eterni e ad espansioni seguono periodi di stasi o contrazione.

La grande immissione di liquidità da parte della FED ha fatto ripartire l’economia ma ora rischia di surriscaldarla e causare un’inflazione eccessiva. Per questo motivo è necessario ritirare la liquidità messa in circolo, anche se il più gradualmente possibile per evitare contraccolpi sull’economia reale e sui mercati finanziari (l’indice S&P 500 è ora più che al doppio dei massimi del 2008 che ai tempi erano giustamente considerati una bolla).

Nella riunione del FOMC di settembre 2017 la presidente della FED Janet Yellen ha annunciato che da ottobre inizierà il graduale riassorbimento della liquidità proveniente dai QE. Tale riassorbimento (inizialmente molto contenuto e pari a 10 miliardi al mese ma progressivamente crescente) agirà come una riduzione di liquidità, cioè una condizione economica restrittiva al pari dell’aumento delle tasse o della riduzione della spesa pubblica.

Parimenti restrittivo sarà il progressivo aumento dei tassi di interesse: le attese del mercato sono per un altro rialzo di 25 bps in dicembre più altri tre rialzi di pari ammontare nel corso del 2018. Per compensare la restrizione sul lato monetario, il governo Trump intende adottare una politica fiscale espansiva in termini di riduzione di tasse. L’esito della riforma è tuttavia incerto e graverà sul futuro USA in termini di maggior debito pubblico.

Il fatto che l’Unione Europea sia in ritardo sugli USA almeno dal punto di vista del ciclo economico ora la avvantaggia. L’economia europea inizia ora la fase di ripresa e le stime dell’aumento del PIL dell’Unione sono state più volte riviste a rialzo nel corso dell’anno. Il bilancio della BCE è aumentato dai 1.500 miliardi precrisi agli attuali 3.700[9] e sta ancora espandendosi grazie alla continuazione del QE al notevole ritmo di 60 miliardi al mese.

I tassi di interesse sono estremamente bassi (il corridoio dei tassi ufficiali è tra -0,40% e 0%) ed il governatore Draghi ha più volte dichiarato di non essere prossimo a rialzarli. Le stime di crescita per il 2017 sono pari a +2,2% per il PIL dell’Unione Europea a 28[10]; negli USA la crescita attesa per il 2017 è pari a +2,4%[11].

La crescita dell’Unione Europea non è ancora al livello americano né si possono cancellare anni di performance economiche americane superiori. L’avvicinamento europeo ai ritmi d’oltreoceano è tuttavia un buon segnale e, chissà, potrebbe anticipare un’inversione di ruoli nel futuro.

In Europa, da un punto di vista finanziario, è ripreso il dialogo per il rafforzamento dell’unione bancaria (assicurazione comune sui depositi) e una maggiore integrazione dei mercati finanziari (in particolare con riferimento al potenziamento dell’ESMA e di riaccentramento dei servizi all’interno dell’Unione post-Brexit).

Per quanto riguarda la vigilanza bancaria si assiste ad alcune operazioni anticicliche di lungo respiro, che è opportuno realizzare nei periodi buoni per acquisire margine di manovra da utilizzare in quelli difficili e non il contrario: si procede allo smaltimento degli stock di crediti deteriorati bancari per rafforzare i bilanci di queste istituzioni[12] e si adottano regole più stringenti come il nuovo principio IFRS 9 (in sostituzione dello IAS 39) o ancora il progetto europeo sulla cancellazione dai bilanci dei crediti deteriorati (dopo due anni se non garantiti e dopo sette per i garantiti[13]). Emergono inoltre alcuni casi noti a cui finalmente si riesce a mettere rimedio come ad esempio Banca Veneto e Banca Vicenza oppure Banco Popular in Spagna.

Fare previsioni sul futuro risulta complesso, ma se le tendenze delineate dovessero confermarsi, esiste un certo margine affinché le prestazioni dell’economia europea possano essere, per un certo periodo, migliori di quelle dell’economia americana. Questo ovviamente non cancella gli errori fatti e il giudizio critico sull’incertezza e sull’inefficacia della risposta europea alla crisi, che è in buona parte derivata dalle differenti visioni che i diversi attori nazionali e istituzionali avevano sulla crisi stessa e sulle prospettive dell’integrazione comunitaria. Questa divergenza è stata una delle cause principali che hanno impedito una reazione coesa, tempestiva ed efficace.


[1]https://en.wikipedia.org/wiki/Troubled_Asset_Relief_Program

[2]https://www.federalreserve.gov/monetarypolicy/bst_recenttrends.htm

[3]https://www.bea.gov/national/index.htm#gdp

[4]http://ec.europa.eu/eurostat/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tec00115&plugin=1

[5]https://fred.stlouisfed.org/tags/series?t=hicp%3Busa

[6]http://ec.europa.eu/eurostat/web/hicp/data/database

[7]https://data.bls.gov/timeseries/LNS14000000

[8]http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Unemployment_statistics

[9]https://www.ecb.europa.eu/pub/annual/balance/html/index.en.html

[10]https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/ecb.ecbstaffprojections201709.en.pdf?54903a0e77418d98625a1657335bc3bd

[11]https://www.federalreserve.gov/monetarypolicy/fomcprojtabl20170920.htm

[12]https://www.pandorarivista.it/articoli/crediti-deteriorati/

[13]http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-10-05/se-vigilanza-bce-ignora-l-economia-225651.shtml?uuid=AE634xfC

Scritto da
Gianluca Piovani

Nato nel 1991 a Bologna, ha conseguito la laurea magistrale in Finanza Intermediari e Mercati presso l’Università di Bologna. Durante il periodo universitario ha fatto parte del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Ha collaborato con la rivista elettronica «Il Chiasmo». La sua esperienza lavorativa inizia con ricerca economica in Prometeia e prosegue in Banca di Bologna con la gestione patrimoniale. Attualmente lavora per la multinazionale Crif e si occupa di servizi informatici per banche.

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