Scritto da Giulio Andrea Del Boccio
6 minuti di lettura
La questione del finanziamento pubblico ai partiti politici anima da lungo tempo il dibattito pubblico nel nostro Paese, costituendo oggetto di battaglie elettorali ben note. Tuttavia, mettendo da parte la querelle politico-ideologica, il finanziamento pubblico della politica, preso in considerazione all’interno del complesso degli istituti che disciplinano il funzionamento della macchina statale, è stato giudiziosamente valutato come «uno degli strumenti principali che le democrazie moderne si sono date per allargare e dispiegare tutte le potenzialità e le tecnicalità per favorire la partecipazione e il concorso di tutti i cittadini, tanto uti singuli quanto collettivamente attraverso i partiti, alla determinazione delle scelte e degli indirizzi politici collettivi». In un recente articolo pubblicato su Pandora sono stati analizzati i profili normativi più rilevanti relativi alle modalità con cui i principali ordinamenti europei si sono dotati una disciplina giuridica del fenomeno dei partiti politici. Il presente contributo approfondisce ulteriormente l’argomento e intende illustrare al lettore la situazione normativa italiana.
Come è risaputo, i partiti necessitano di una rilevante quantità di denaro, per poter finanziare le strutture locali e nazionali, organizzare le campagne elettorali e per poter svolgere tutte quelle attività funzionali al loro scopo politico. Tuttavia il tema del finanziamento della politica ha sempre suscitato accese discussioni nel nostro Paese spesso non motivate solamente dalla volontà di trovare una soluzione equilibrata alla questione ma volte ad esprimere un sentimento antipolitico che a più riprese ha attraversato la società italiana.
Le varie soluzioni giuridiche elaborate nel tempo dal legislatore italiano alla questione del finanziamento dei costi della politica evidenziano la continua necessità per lo Stato di fornire delle risposte istituzionali capaci di arginare il fenomeno dell’influenza finanziaria dei privati sulle élite politiche.
Il finanziamento pubblico ai partiti politici tra Prima e Seconda Repubblica
Sin dai primi anni di vita della Repubblica, si è evidenziato un profondo collegamento tra partiti, lobby e gruppi di potere. Un legame fondato sul bisogno di fondi per finanziare le numerose ed elevate spese che gravano sulle diverse compagini politiche e sulla possibilità, da parte dei finanziatori, di esercitare un’influenza diretta sulle decisioni del partito sostenuto.
Durante la Prima Repubblica, i due maggiori partiti, com’è noto, trovavano sostentamento da diversi soggetti, privati e pubblici, legati ideologicamente ai rispettivi soggetti finanziati, come Confindustria, Vaticano e i governi di Stati Uniti e URSS. La poca trasparenza ed il rischio di attività finanziarie illecite, sottesi a questo traffico di denaro e di influenze, sono stati già segnalati da don Luigi Sturzo durante la III Legislatura, il quale ha tentato di dare una prima risposta normativa al problema attraverso un’organica proposta di legge.
Una prima soluzione volta a fornire una normativa sul finanziamento dei partiti politici fu l. n. 195/1974, c.d. Legge Piccoli, anche in risposta agli scandali legati ai rapporti patrimoniali tra i partiti di governo e diverse compagnie petrolifere. La legge, per la prima volta, si occupò della disciplina del finanziamento pubblico dei partiti, similmente a quanto fatto dalla Parteiengesetz tedesca del 1967, introducendo un finanziamento pubblico per le funzioni svolte dai gruppi parlamentari, da versare poi, nella misura del 95%, ai partiti, ed un finanziamento diretto agli stessi partiti erogato dalla Presidenza della Camera per l’attività elettorale, a cui si accompagnava la disciplina dei contributi erogati da privati, comunque da rendere pubblici. La stessa legge introdusse il reato di finanziamento illecito, ancora in vigore.
Il finanziamento dello Stato ai partiti politici, previsto dalla l. n. 195/1974, fu abrogato con un referendum nel 1993[1], promosso sempre dai Radicali cavalcando il clima di contestazione che seguì la vicenda Tangentopoli, che però non toccò le norme sul c.d. “rimborso elettorale”. Le disposizioni riguardanti il finanziamento pubblico dell’attività “ordinaria” del partito vennero meno, mentre rimase la contribuzione per il rimborso delle spese elettorali.
Dopo la breve parentesi della disciplina del 4 per mille, emanata con la l. n. 2/1997, che prevedeva la detraibilità fiscale di una quota delle erogazioni liberali fatte dai privati ai partiti, in modo tale da incentivarne la contribuzione volontaria, la normativa sul finanziamento pubblico fu rinnovata con la legge n. 157/1999. La nuova normativa attribuiva a partiti e movimenti politici un rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni di Camera e Senato, Parlamento europeo e Consigli regionali, riconfermando l’impianto normativo già vigente in materia di riparto dei fondi.
Con la l. n. 96/2012 si è rinnovata nuovamente la materia, cercando di riorganizzare l’enorme patrimonio normativo emanato dal 1974. Difatti, la legislazione sul finanziamento, fino al 2012, si presentava lacunosa e poco chiara, con la presenza di numerose disposizioni, sparse tra fonti primarie e secondarie, che concedevano agevolazioni fiscali e sovvenzioni varie.[2]
Degno di nota è il riferimento introdotto dalla normativa in questione alla democraticità interna ai partiti politici, come requisito per accedere al rimborso. In particolare, l’art. 5.1 ha fissato il dovere per partiti e movimenti politici, incluse le liste di candidati che non siano diretta espressione degli stessi, di dotarsi di un atto costitutivo e di uno statuto, il quale ultimo “deve essere conformato a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti”.
La normativa attuale: la contribuzione volontaria e il finanziamento indiretto
La più recente riforma della materia è stata promossa dal Governo Letta nel 2013 (D. L. n. 149/2013, convertito con modifiche dalla l. n. 13/2014) ed è entrata in vigore da quest’anno.
Il decreto ha provveduto ad eliminare il finanziamento pubblico dei partiti, nella forma del rimborso elettorale, come previsto dalla l. n. 157/1999 e sopravvissuto nella l. n. 96/2012, sostituendolo con forme di contribuzione volontaria fiscalmente agevolata e di contribuzione indiretta da parte dei cittadini.
Dunque, secondo tale impianto normativo, attualmente il sostentamento economico dei partiti si fonda su:
La più importante critica che tale disciplina solleva riguarda la possibilità di detrarre dal calcolo dell’IRPEF una percentuale delle donazioni fatte da soggetti privati. È ben evidente che tale espediente di natura fiscale altro non è che una forma indiretta di finanziamento pubblico, il quale tuttora permane nonostante i propositi abrogativi del decreto.
Finanziamento pubblico ai partiti e principio democratico
La novità della disciplina si riscontra nella attenzione rivolta al tema della democrazia interna. Il Capo II del decreto 149 è dedicato interamente a disciplinare i requisiti democratici a cui i partiti debbono sottostare per poter usufruire dei contributi previsti dal decreto. Un riferimento alla democraticità interna ai partiti era, come visto, già presente nella l. n. 96/2012, seppur molto blando. La normativa del 2014, invece, intende rafforzare la centralità dell’elemento democratico nella disciplina del finanziamento.
Mentre nel 2012 veniva semplicemente richiesto che gli statuti dei partiti si conformassero “ai principi democratici della vita interna”, assicurando la democraticità della scelta dei candidati, la tutela delle minoranze e i diritti degli iscritti, nella nuova normativa, invece, l’accesso alle nuove forme di finanziamento è concesso solo a quei partiti che registrino il proprio statuto, redatto con atto pubblico, e assicurino un contenuto democratico minimo nello stesso.
Il decreto n. 149 prevede, invero, un doppio binario basato sulla distinzione tra partiti non registrati e partiti registrati, questi ultimi, dotati dei requisiti previsti per accedere alle forme di contribuzione volontaria. La possibilità di beneficiare delle nuove forme di contribuzione per le formazioni politiche previste dall’art. 18 è quindi subordinata al rispetto di specifici dettami di legge.
Innanzitutto, il partito, deve osservare degli obblighi relativi alle norme statutarie, in particolare, la fissazione degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, con le relative modalità di elezione, i diritti e i doveri degli iscritti, i criteri con cui è assicurata la tutela delle minoranze negli organi collegiali, le modalità con cui garantire la parità di genere, la selezione delle candidature ed i criteri secondo cui fornire risorse agli organi territoriali. Tale statuto, poi, deve essere sottoposto al controllo della Commissione di garanzia sugli statuti e per la trasparenza ed il controllo dei rendiconti dei partiti politici (introdotta dalla legge n. 96/2012 e, poi, vista l’inefficienza nel suo funzionamento, riformata nel 2015), la quale si occupa di verificare la presenza degli elementi previsti e di iscrivere il partito al Registro nazionale, da essa tenuto. L’iscrizione al Registro è condizione per poter richiedere di accedere alle due forme di contribuzione previste dal decreto, nei limiti fissati dagli artt. 10 e seguenti.
Numerose critiche sono state riservate alla normativa sostanziale introdotta dal decreto. Essa, in realtà, come già anticipato sembrerebbe non aver eliminato del tutto il finanziamento pubblico (obiettivo principale del decreto), attesa la permanenza di forme di benefici, costitute da agevolazioni fiscali previste per la contribuzione volontaria.
Le norme che prevedono, per l’accesso al nuovo sistema di contribuzione ai partiti, i requisiti di democraticità e trasparenza dovrebbero essere intese, nella logica del decreto, come funzionali ad attuare l’art. 49 della Costituzione.[3] Questa impostazione del legislatore rivela, però, diverse problematiche. La dottrina ha, infatti, evidenziato che il decreto, con lo scopo di dare attuazione alla norma costituzionale, ha introdotto un sistema di norme alla stregua del quale l’assetto democratico interno dei partiti si configura come requisito necessario allo scopo di accedere ai finanziamenti. I requisiti della democraticità interna, però, riguarderebbero esclusivamente i partiti che intendono beneficiare dei finanziamenti previsti dal decreto, mentre non sarebbe necessario dotarsi della struttura democratica per quei partiti che, al contrario, non intendono godere del finanziamento.[4] Non sembra, perciò, la nuova normativa idonea ad una attuazione piena della norma costituzionale, contrariamente alle aspettative del legislatore dato che il metodo democratico sarebbe applicabile, come visto, solo ad alcuni partiti.
[1] La legge fu sottoposta ad un primo referendum abrogativo nel 1978, promosso dai Radicali, ma i favorevoli all’abrogazione furono solo il 43,6 % dell’elettorato. Un precedente tentativo di referendum abrogativo fu fatto dal PLI, senza, però, raggiungere le firme necessarie.
[2] F.Biondi, Il finanziamento pubblico dei partiti politici. Profili costituzionali, Milano, Giuffrè, 2012, p. 102.
[3] Cfr. FINANZIAMENTO DEI PARTITI: Note sul disegno di legge approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati (A.S. n. 1118). Servizio studi del Senato, dossier n. 83/2013, p. 22-23.
[4] Per approfondire tale problematica v. R. Dickmann, La contribuzione volontaria ai partiti politici prevista dal decreto legge n. 149 del 2013. Molte novità ed alcuni dubbi di costituzionalità, in Federalismi.it, n. 5/2014.