Scritto da Alberto Prina Cerai
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Una figura controversa, dibattuta, elogiata, forse non troppo compresa. Gene Sharp è scomparso circa un anno fa, alla veneranda età di 90 anni. «Il nostro fondatore, mentore e amico» recita il comunicato stampa rilasciato sul sito dell’Albert Einstein Institution, da lui fondato nel 1983 per «avanzare lo studio e l’uso strategico dell’azione non violenta come alternativa pragmatica alla violenza»[1]. Durante i suoi studi giovanili Sharp fu fin da subito catturato da un dato di fatto: il gap esistente tra l’estesa letteratura riguardante i conflitti violenti e la strategia militare e la marginalità di studi concernenti l’impatto delle lotte non-violente nel corso della storia. Colmare questa lacuna, nella futura ottica teorica «sharpiana», sarebbe diventato il leitmotiv di tutta la sua vita.
Prima di addentrarci nel percorso e nell’opera di Sharp è doveroso qualche cenno al terreno socio-culturale in cui sarebbe fiorito il suo pensiero. La storia degli Stati Uniti vanta un’importante tradizione nonviolenta. Tra i precursori a noi più noti H. D. Thoreau (1817-1862), autore de La disobbedienza civile, fu il primo obiettore fiscale della storia moderna. Un quacchero, William Penn (1644-1718), fondò nel 1682 lo stato pacifista della Pennsylvania rimasto autonomo fino al 1756, in cui si praticavano la nonviolenza, la libertà religiosa, la tolleranza verso tutti i perseguitati – specialmente gli indiani nativi. La stessa rivoluzione americana si espresse, nelle fasi iniziali, nella forma nonviolenta del boicottaggio dei prodotti inglesi, più nello specifico del tè da cui prese il nome il celebre atto di protesta (Boston Tea Party) del 1773. Tuttavia, fu Rosa Parks poco meno di duecento anni dopo, nel 1955, a stabilire il vero precedente, rifiutandosi di cedere il posto ad un bianco sull’autobus come stabilivano le leggi segregazioniste dell’Alabama. Il celebre «boicottaggio di Montgomery», durato 382 giorni, diede il via alla lunga marcia degli afroamericani verso i diritti civili, impersonificata nella figura di Martin Luther King (1929-1968). La sua azione politica, promuovendo marce, boicottaggi, sit-in fu la dimostrazione che la nonviolenza attiva potesse vincere grandi battaglie morali e politiche, prima che la sua azione venisse travolta dall’odio razziale. La fine degli anni Sessanta vide anche il momentaneo successo dell’azione nonviolenta di César Chavez, il quale fondò un’organizzazione sindacale, la United Farm Workers, per proteggere i diritti di una minoranza sfruttata e oppressa, quella dei lavoratori agricoli della California di origine messicana (i chicanos).
Al di là delle esperienze di King e Chavez la storia americana è stata segnata dal fiorire di numerosi movimenti lungo lo spettro che va dal pacifismo alla controcultura passando per quello antinucleare e femminista. La nonviolenza, tuttavia, ha attraversato trasversalmente queste realtà senza darsi una propria identità autonoma o prendere coscienza di una collocazione specifica. Vi furono organizzazioni come l’American Fellowship of Reconciliation (fondata nel 1915), la War Resisters League (1923), la Women’s International League for Peace and Freedom (1915), il Peace Movement (1965-1975). Soltanto dopo la fine della guerra in Vietnam il movimento nonviolento ha cercato di strutturarsi, in un generale declino della militanza e della mobilitazione politica. In questo periodo si inserisce l’esperienza decisiva del Movement for a New Society, il cui nucleo venne fondato a Philadelphia nel 1971 con il Life Center. Questo movimento, nato per sviluppare un’analisi alternativa del sistema americano, ha cercato di diffondere la propria mission abbracciando come mantra nonviolenza personale e politica, attiva militanza, vita comunitaria volta al cambiamento sociale. George Lakey, uno dei leader e autore di un libro collettivo che espone il programma del movimento, scriveva: «Noi siamo creature del vecchio sistema che tuttavia vogliono aiutare a costruire il nuovo. Uno dei nostri programmi deve essere noi stessi»[2].
Quali sono, dunque, i tratti caratteristici dell’american way of non violence? Innanzitutto, è doveroso sottolineare il concetto di resistance. Il nonviolento americano – siano gli obiettori di coscienza, i renitenti, i disertori della guerra del Vietnam, i pacifisti come i Resisters che assediarono il Pentagono nell’ottobre del 1967 o le 13.500 persone arrestate durante il May-Day del maggio 1971 a Washington – vuole trasformare il sistema o agire contro di esso semplicemente resistendogli. Altri aspetti fondamentali, e ben radicati nell’universo valoriale americano, sono l’individualismo e il volontarismo. Segni di un’apparente scarsa politicizzazione, ma anche di una concezione della politica che vuole il cambiamento personale (espresso come liberation) come presupposto fondante di una rivoluzione sociale. Infine, peculiare della militanza non violenta americana è la costante ricerca del training, inteso come preparazione e addestramento all’atto non violento. Vere e proprie tecniche di formazione sono utilizzate per affinare la cooperazione, il coordinamento delle tattiche di gruppo. Dal punto di vista ideologico prevale una certa distanza con la teoria marxista del cambiamento sociale. Un dato certamente significativo, ascrivibile nella volontà di eludere il confronto con concetti politici scomodi come «Stato» e «capitalismo». Accanto ai movimenti dal basso è consistente la presenza e l’impatto di figure più istituzionalizzate, quelle dei ricercatori (o peace researchers) delle università, dei centri studi sulle strategie e dei conflitti, degli istituti di affari internazionali. Veri e propri think tank, perfettamente integrati nel sistema americano, il cui obiettivo, grazie all’immensa disponibilità di risorse e capitale umano, è quello di elaborare una tecnica «neutra» che possa applicarsi a seconda dei contesti e delle esigenze, spogliandosi di qualsiasi finalità politica. Articoli, manuali e dissertazioni prodotti allo scopo di fornire una soluzione al problema del conflitto, una ricetta per la pace sociale e internazionale. Alla luce degli avvenimenti più recenti – dal crollo relativamente pacifico dell’Unione Sovietica con le dinamiche di smembramento e democratizzazione delle ex repubbliche popolari sino alle primavere arabe – è chiaramente innegabile come la lotta nonviolenta direttamente o indirettamente abbia scritto un importante capitolo dopo il 1989. Nuove dinamiche e logiche che, come sentenzia Sharp, è bene tenere a mente poiché «la storia più recente […] non può neanche essere descritta, e a maggior ragione compresa, senza considerare il ruolo della lotta nonviolenta»[3].
Gene Sharp nacque il 21 gennaio 1928 a North Baltimore (Ohio, U.S.A), figlio di un pastore protestante e di una casalinga. Dopo essersi laureato in Social Sciences (BA, 1949) e in Sociology (MA, 1951), conseguì un PhD in Political Theory presso la prestigiosa Università di Oxford nel 1968. Sin dalla gioventù Gene Sharp si distinse per un’attiva partecipazione studentesca ad organizzazioni religiose, socialiste, pacifiste e antidiscriminatorie. Dopo aver discusso la tesi per il Master of Arts dal titolo Non-violence: A Sociological Study, Sharp si trasferì a New York dove, mantenendosi con lavori saltuari, iniziò a coltivare la sua passione per la figura di Gandhi e la resistenza non violenta. Il prodotto intellettuale di quella ricerca sfociò nel suo primo libro, completato all’età di soli 25 anni nel febbraio del 1953 ed intitolato Gandhi Wields the Weapon of Moral Power. A testimonianza della ricezione e della portata dell’opera – rivoluzionaria nella sua efficace e duplice valenza, storica e teorica – vi fu l’introduzione curata da Albert Einstein, una personalità non poco sensibile agli effetti del controllo coercitivo, agli infausti esiti del dominio totalitario dello Stato e alle recenti scoperte scientifiche a pochi anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale:
«[…] Al processo di Norimberga il seguente principio fu accolto: che la responsabilità morale del singolo non potrà più essere sostituita dalle leggi dello Stato. Possa venire presto il giorno in cui questo principio non sarà meramente applicato a cittadini di una nazione sconfitta! Gene Sharp può aver trovato la forza di completare questo lavoro dalla battaglia interiore che questi quesiti hanno generato»[4]
Si trattò di una vera e propria investitura, intellettuale e morale. È tuttavia difficile capire quanto e se influirono moralità o ideologia nel plasmare il suo lavoro, così come le contingenze storiche in cui Sharp era pienamente immerso – l’inizio della guerra fredda, l’imminente Conferenza di Bandung, il contesto socio-culturale americano. Ciò nonostante, Sharp, tra gli studiosi americani nella disciplina dei conflict studies, è quello che ha avuto più contatti con leader e movimenti non violenti. Pochi mesi dopo la pubblicazione del libro, nell’aprile del 1953, Sharp diede prova della sua militanza e ferma adesione ai principi non-violenti. Pur di non prender parte alla guerra di Corea, il giovane filosofo fu condannato a due anni di carcere per aver rifiutato la coscrizione militare. Una decisione che aveva preso coscientemente, contando sulla stima e l’appoggio di Einstein come testimoniato da una serie di corrispondenze private. Uscì di prigione nove mesi più tardi. Tornato in libertà lavorò come segretario personale di A. J. Muste (1885-1967), uno dei padri fondatori del movimento pacifista e non violento americano. In seguito, la sua formazione proseguì in Europa. Prima a Londra, dove svolse attività redazionale per il più importante periodico non violento britannico, Peace News, dal 1955 al 1958 per poi trasferirsi in Norvegia. Presso l’Università di Oslo fu per alcuni mesi research fellow su invito dell’Institute for Philosophy and the History of Ideas, tenendo lezioni e svolgendo ricerche sulla non violenza. Nel successivo biennio divenne ricercatore e borsista presso l’Institute of Social Research, dove intraprese un percorso di approfondimento cercando di estrapolare dalle vicende storiche leggi generali e metodi di resistenza non violenta. Si appoggiò, naturalmente, sull’esperienza del Mahatma Gandhi durante la lotta per l’indipendenza dall’Impero Britannico, oltre a sviscerare gli archivi norvegesi per documentarsi sulla strenua resistenza della popolazione nordica durante l’occupazione nazista. Più la sua ricerca si affinava, più venivano confermate le sue convinzioni e aspirazioni sulla bontà e originalità del suo lavoro, evidenziando come per troppo tempo i metodi della lotta non violenta fossero stati negletti e persino sottovalutati in un’ottica storica globale.
Da quel periodo «europeo» la sua presenza e postura nel mondo accademico anglosassone è stata sempre più consistente ed intensa. Ricoprì ruoli di spicco in numerose istituzioni accademiche americane, come la University of Massachusetts, la Boston University e il Center for International Affairs di Harvard. Rientrato ad Oxford, completò il dottorato presso la Faculty of Social Studies. La sua tesi, in teoria politica, era composta da ben 1500 pagine e sarebbe diventata il lascito principale del suo pensiero: The Politics of Nonviolent Action. A Study in the Control of Political Power. L’immensa opera venne pubblicata nel 1973. Nella sua introduzione al libro, il Professore – e suo mentore ad Harvard – Thomas C. Schelling scrisse che la violenza ottiene notevole attenzione, ma la violenza intenzionale, la violenza politica, raramente riceve «la precisione data all’azione non violenta come in quel libro». L’azione violenta e non violenta andrebbero confrontate in termini di «raggiungimento di obiettivi politici e di costi per perseguirli». Schelling, infatti, riconobbe la capacità di Gene Sharp di comprendere la vera differenza tra violenza politica e azione non violenta: entrambe «puntano ad influenzare un comportamento», ma mentre la prima si affida a metodi coercitivi, cercando di «intimidire le persone – ampi gruppi di seguaci o leaders, cittadini comuni o funzionari» senza preoccuparsi delle conseguenze di tale metodo, la seconda utilizza «differenti tecniche» per perseguire lo stesso scopo: cercare di persuadere le persone ad agire o prevenire certe azioni. «Entrambe possono essere fraintese o applicate scorrettamente. O utilizzate per scopi malvagi», aggiunse il professore. Tuttavia, «disciplina, command and control; intelligence circa l’avversario; scelta accurata delle armi, obiettivi, terreno e tempo dello scontro; e, specialmente, evitare di ricorrere all’impeto, a provocazioni violente senza motivo, sono essenziali per il suo successo»[5].
La ricezione internazionale dell’imponente saggio fu notevole, testimoniata dalla traduzione in moltissime lingue. Estratti dell’opera furono addirittura pubblicati sulla rivista polacca Annex, di proprietà del movimento Solidarnosc, all’epoca stampata a Londra e diffusa solo clandestinamente in Polonia per via della repressione della nomenklatura comunista del Generale Wojciech Jaruzelski. Divenne in breve tempo un ‘classico’ del pensiero non violento. Seguirono altre importanti pubblicazioni. Making Europe Unconquerable (1985), un libro illuminante sulle potenzialità di una ‘difesa nazionale civile’ per l’Europa Occidentale con un importante commento di George F. Kennan. Civilian-Based Defense: A Post-Military Weapons System (1990), un manuale per mostrare come tecniche di non cooperazione non violenta e resistenza civile possano essere utili deterrenti e strategie per abbattere golpe o invasioni esterne[6]. Il volume fu addirittura adottato tra il 1991 e il 1992 dai governi neo-indipendenti di Estonia, Lituania e Lettonia per prepararsi ad eventuali colpi di coda sovietici[7]. «Preferirei avere questo libro piuttosto che la bomba atomica», commentò il direttore generale della Difesa lituana, Audrius Butkevicious[8]. Su richiesta degli attivisti per la democrazia in Birmania, Sharp si introdusse illegalmente nel Paese dove tenne seminari e lezioni sulla lotta non violenta a studenti e ai combattenti ribelli Karen. Nonostante alcune perplessità iniziali, l’esperienza in Estremo Oriente lo indusse a pubblicare un pamphlet maneggevole e riassuntivo delle tecniche di lotta non violenta. From Dictatorship to Democracy (1993) avrebbe fatto il giro del mondo, tradotto in 34 lingue, alimentando così le speculazioni più fantasiose intorno alla sua figura ormai globalmente riconosciuta.
[1] ‘Statement from the Albert Einstein Institution on the death of our founder Dr. Gene Sharp’, https://www.aeinstein.org/
[2] S. Gowan, G. Lakey, W. Moyer, R. Taylor, Moving toward a New Society, New Society Press, Philadelphia, 1976; George Lakey, Strategy for Non-violent Revolution, London, Housmans Bookshop, 1970.
[3] G. Sharp, ‘Beyond Just War and Pacifism: Nonviolent Struggle towards Justice, Freedom, and Peace’, «The Ecumenical Review», Vol. 48, No. 2 (aprile 1996), pp. 233-250.
[4] Albert Einstein, citato da., Gene Sharp, Gandhi Wields the Weapon of Moral Power. Three Case Histories, Ahmedabad, Navajivan Publishing House, 1960, pp. v-vi.
[5] Thomas C. Schelling citato in., Gene Sharp, The Politics of Non Violent Action, Boston, Porter Sargent, 1973; l’edizione italiana è stata suddivisa in tre volumi editi in annate differenti, Id., Potere e lotta, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1985; Le tecniche, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1986; La dinamica, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1997.
[6] Nel 1990 Gene Sharp fece da consigliere al ministro della Difesa svedese, vedi ‘Non Violent Sanctions’, «News From the Albert Einstein Institution», Vol. II, No. 3 (Winter 1990/91), pp. 1-2.
[7] M. Spencer, The Russian Quest for Peace and Democracy, Lanham, Lexington Books, 2010, p. 217.
[8] https://www.rightlivelihoodaward.org/laureates/gene-sharp/