Scritto da Luca Picotti
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Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e le contese tra le aziende impegnate in questi processi avvengono in un mondo sempre più diviso dalla guerra economica e tecnologica tra Stati Uniti e Cina, che segna la corsa alle risorse, economiche e materiali, necessarie alla sua continua espansione. In Geopolitica dell’intelligenza artificiale (Feltrinelli) Alessandro Aresu ricostruisce l’intreccio di relazioni tra decisori politici, filosofi, scienziati, imprenditori e manager che stanno plasmando il mondo dell’intelligenza artificiale per provare a comprendere il presente – e i possibili scenari futuri – della rivoluzione dell’intelligenza artificiale, delle lotte tra le aziende impegnate nel suo sviluppo e delle ripercussioni geopolitiche di questa sfida.
Aresu si è laureato in filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università San Raffaele di Milano, è consigliere scientifico di «Limes» e collabora con varie riviste. È stato consulente e dirigente di diverse Istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Economia e delle Finanze. In questa intervista l’autore ripercorre e sviluppa alcuni momenti del suo percorso intellettuale e i temi principali affrontati nel libro.
Il libro Geopolitica dell’intelligenza artificiale conclude il percorso intellettuale iniziato con la pubblicazione nel 2020 de Le potenze del capitalismo politico e proseguito nel 2022 con Il dominio del XXI secolo. Qual è il filo conduttore che porta dalla fortunata rivisitazione della categoria weberiana di capitalismo politico ai semiconduttori, sino a NVIDIA e all’intelligenza artificiale?
Alessandro Aresu: Sul piano umano, un passaggio per me importante è stata nell’estate 2017 la morte di uno dei miei maestri, Guido Rossi. In quel contesto, ho pensato molto alle cose che mi avrebbe consigliato di leggere e di cui avremmo discusso, sulla base dei suoi stimoli di tanto tempo fa, delle discussioni che facevamo con lui e gli altri colleghi sull’impatto della crisi finanziaria e sull’ascesa cinese. Mi sono quindi sforzato a dare più profondità alle questioni che seguivo per Limes, cioè l’impatto politico dell’economia, dell’industria e della tecnologia, e alle ricerche che avevo avviato sul CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States), sulla geopolitica della protezione. Già in quel contesto ho cominciato a seguire l’industria dei semiconduttori, a seguito del caso Broadcom-Qualcomm nel 2018, perché nel mentre Massimo Cacciari mi ha chiesto di partecipare con un libro alla collana “Krisis” da lui diretta con Natalino Irti. Ho così ripreso i grandi autori che ho amato, da Smith a Weber a Sombart, da Keynes a Schumpeter, per ragionare sul conflitto tra Stati Uniti e Cina e sulla politicizzazione dell’economia e della tecnologia in termini sia teorici che pratici, attraverso lo studio di alcune aziende, che poi sono state illustrate nei miei libri e che ho contribuito a introdurre nel dibattito italiano e, grazie a Le Grand Continent, europeo: ASML, BYD, CATL, DeepMind, Huawei, NVIDIA, OpenAI, SpaceX, Tesla, TSMC. In misura minore, Foxconn e SoftBank. Per questo i miei tre libri sono collegati in modo esplicito e spero che possano essere letti tutti e tre insieme.
Colgo l’occasione anche per precisare che, nonostante abbia spesso collaborato con le istituzioni e che nelle istituzioni mi sia trovato sempre bene e abbia avuto occasione di lavorare con persone eccezionali anche sul piano umano (uno tra tutti, Francesco Giavazzi), tutta la mia ricerca è frutto di un approfondimento personale. Mai ho utilizzato mezza informazione o questione su cui mi sono soffermato negli anni precedenti nel lavoro istituzionale, nel contesto dei miei libri. Mai mezzo spunto. Zero. Al massimo è il contrario, perché il mio metodo si basa sullo studio delle aziende e delle altre questioni sulla base di informazioni liberamente disponibili per tutti, visto che ritengo che nel nostro tempo il concetto di informazione privilegiata o riservata sia sostanzialmente inutile, anzi controproducente, per comprendere le vere questioni e le tendenze: le informazioni sono fin troppo abbondanti, il tema è organizzarle in una visione coerente, conta molto di più rileggere Keynes o Schumpeter che pensare di sapere qualcosa che non sanno gli altri.
Ora, dopo aver chiesto un po’ di sforzo ai lettori, scriverò qualche libro più breve su vari temi che mi interessano: l’introduzione a una raccolta di scritti di Gordon Moore, per completare il lavoro sui semiconduttori; un libro più italiano e politico, sul mito di Enrico Mattei, di cui ho scritto anche spesso su Pandora Rivista; un libro sul Deep State e su chi comanda il mondo; un libro di viaggio sulla bottarga.
Tra i protagonisti della corsa all’intelligenza artificiale ci sono, innanzitutto, gli Stati Uniti. Più nello specifico, imprenditori, scienziati, ingegneri, spesso immigrati, che hanno trovato nell’America il luogo ove sviluppare le proprie idee. Il primo tema che emerge dal libro è proprio la capacità dell’ecosistema statunitense di attirare talenti. Quali sono le ragioni, economiche, giuridiche, culturali, istituzionali alla base di questa capacità attrattiva che, ad esempio, non è rinvenibile in nessun’altra parte del mondo, sicuramente non in Europa?
Alessandro Aresu: Come dice David Noble in alcuni bei libri che mi ha fatto studiare il mio amico Juan Carlos De Martin, l’America è stata “progettata” in questo senso. C’è stata un’opportunità storica di sviluppo economico, infrastrutturale, energetico, militare che ha costruito il primato statunitense, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dove si collocano anche i grandi investimenti sul sistema universitario, sui corpi degli ingegneri. Nei libri di William Kirby, si parla della transizione dal modello humboldtiano, dal primato tedesco, verso le capacità degli Stati Uniti: è una storia sia di ricerca che di capacità di impresa, oltre che di fase di sviluppo economico. Nel mio libro ricordo i viaggi di Ludwig Boltzmann e Joseph Schumpeter, che si rendono conto della grandezza di quel sistema. Sistema che continua ad attrarre persone, in cui si inseriscono sempre più capitali, e che poi diviene un ecosistema molto forte, intrecciato anche con interessi militari, soprattutto a cavallo della Seconda guerra mondiale. Anche per ragioni di geografia politica, questo sistema si diffonde, ed è tenuto in piedi da vari fattori. Da elementi umani, per esempio gli insegnanti ESL, English as a Second Language. I vari Robert Sabella (l’insegnante di matematica di Fei-Fei Li) che prendono per mano i giovani immigrati. Tutti loro sono eroi anonimi della potenza degli Stati Uniti, mentre poi ci sono elementi molto più visibili al vertice. Poi, direi che la capacità di mobilitazione dei capitali stabilisce un divario enorme col resto del mondo.
La formazione scientifica è un altro filone importante nella storia americana dell’innovazione e, di recente, anche in quella asiatica. L’importanza della scienza, in particolare quella applicata, è evidente in ogni biografia raccontata nel libro. Quale ruolo ricopre la formazione umanistica in questa epoca di innovazioni e intelligenze artificiali?
Alessandro Aresu: Siccome il mio libro è dedicato a Massimo Cacciari, il suo tema è anche senz’altro quello del rapporto tra scienza e umanesimo. In primo luogo, perché io ho appreso questo tema proprio da Cacciari. Studiando a vent’anni Icone della legge, uno dei suoi libri che preferisco, e capendone ben poco, ho poi scoperto Gödel, Heisenberg, gli altri logici e scienziati su cui Cacciari torna spesso nei suoi libri, e in particolare in Metafisica concreta. Ho letto Gödel, Escher, Bach perché era citato in Icone della legge. E come si può capire la Grande Vienna che Cacciari, con altri, ha portato nella cultura italiana, senza tenere insieme queste dimensioni? Come si può leggere Musil, un altro autore che ovviamente è molto presente nel mio libro, visto che io ho letto più volte L’uomo senza qualità, perché altrimenti, se lo leggi una sola volta, non puoi strutturalmente essere un allievo di Cacciari? Basta ascoltare il videopodcast di Cacciari su “Crisi e catastrofe” per Pandora Rivista per capire questo nesso. Solo una persona ignorante, che non ha ascoltato né letto niente di tutto questo, potrebbe sostenere che il pensiero di Cacciari è astratto, fumoso e distaccato dai temi scientifici. Basta fare un po’ di sforzo per decifrare la sua lingua e si capisce benissimo che non è così. Comunque, se qualcuno vuole sfidarmi a un duello, ovviamente un duello sia intellettuale che sportivo, sul tema “Cacciari e la scienza”, per dirimere la questione, lo faccio volentieri.
Ora, non dobbiamo fare confusione, una volta che diciamo che non ci sono questi confini disciplinari, e dire “ah ma allora studiamo solo Aristotele e ci disinteressiamo dell’ingegneria, della fisica, del funzionamento delle imprese perché tanto c’è già tutto in Aristotele”. No, non va bene, chiaramente è un’idiozia. Non sapere chi è Carver Mead e cosa ha fatto (e io non lo sapevo di certo, prima di studiare a lungo queste cose) vuol dire essere ignoranti; quindi, lo stretto rapporto tra umanesimo e scienza non deve diventare una scusa stupida per sottovalutare e mettere ai margini la cultura scientifica, che è sicuramente quello che abbiamo fatto in Italia molto a lungo, soprattutto attraverso una cattiva interpretazione della cultura crociana. Ora anche Pandora Rivista, come mostra senz’altro il “Festival del Presente” nell’ultima edizione, sta dando un contributo importante per avere un dibattito pubblico e culturale privo di queste tare, e quindi più interessante.
Tra i protagonisti di Geopolitica dell’intelligenza artificiale vi è NVIDIA, fondata nel 1993, oggi volto della corsa all’intelligenza artificiale. È una storia solo privata? Quali sono stati i rapporti, in questi suoi trent’anni di vita, con il settore pubblico, anche alla luce, specie di recente, delle sempre maggiori ingerenze governative in nome della sicurezza nazionale e, più generale, della competizione con la Cina?
Alessandro Aresu: NVIDIA nasce nel 1993 per sfruttare, a modo suo, una fondamentale evoluzione dell’elettronica di consumo: la diffusione del personal computer. La tesi di investimento di NVIDIA, e di altre aziende, sarà che con questo processo (“un computer in ogni scrivania”, per dirla col sogno di Bill Gates che si è realizzato), le persone vorranno anche giocare ai videogiochi, e vorranno avere una grafica migliore e più accurata. NVIDIA può applicare la sua tesi di investimento, che viene confermata, perché progetta le schede grafiche che vengono prodotte da altri: inizialmente, STMicroelectronics, fino a quando dopo poco riesce ad agganciare TSMC. All’inizio di questo secolo, quindi vent’anni fa, NVIDIA poi cerca altri mercati di riferimento per i suoi prodotti, anche per la ricerca universitaria e nell’impresa che viene fatta sulla versatilità delle GPU, dalle figure che racconto nel libro (Ian Buck, Bryan Catanzaro, Bill Dally). In questo modo NVIDIA in un certo senso poi riscrive la sua storia, perché in questi successi ci sono anche elementi di marketing, e retrospettivamente dice di aver voluto realizzare da sempre, fin dall’inizio (cioè da trentuno anni), un nuovo modello di informatica, che vuole divenire dominante. Questo significa che coi soldi privati, poiché è una società quotata, NVIDIA investe nel luogo termine, avvia la famosa piattaforma CUDA, inizia ad avere i primi clienti nel supercalcolo, coglie fin dall’inizio la rivoluzione del deep learning nel 2012, e molto altro. Scommette, sempre coi soldi privati, su diversi mercati, e alcune cose si materializzano poco rispetto alle aspettative (la guida autonoma), mentre i data center divengono il boom. Pertanto, siamo davanti a una storia articolata e importantissima di innovazione privata.
Poi si inserisce il capitalismo politico. NVIDIA, in questo senso, risponde alla tesi dei miei libri del capitalismo politico, che ricordo essere il rovesciamento della frase di Alan Greenspan che dice “la politica non conta nulla perché il mondo ormai è comandato dai mercati, eccetto che per la sicurezza nazionale”. Il capitalismo politico dice “certo, anche NVIDIA ci mostra l’importanza del mercato ma poi la sicurezza nazionale arriva comunque”. La sicurezza nazionale, quindi il pubblico nel sistema statunitense, non porta a NVIDIA né particolari competenze, che sono interne, né particolari ricavi, perché apparati militari e difesa sono poca cosa nel fatturato dell’industria dei semiconduttori. Porta invece dei vincoli a operare in quello che per NVIDIA in varie fasi della sua crescita, che racconto nel libro, è un mercato importante: quello cinese. Ho quindi dimostrato come il successo di NVIDIA non venga dal pubblico ma come il pubblico vincoli NVIDIA, nel momento in cui si accende la competizione tra Washington e Pechino, sulla base della sicurezza nazionale. Per tutti i dettagli, rimando al libro.
Un paradigma su cui molti hanno insistito nel secondo dopoguerra, in particolare con riferimento agli Stati Uniti, è la centralità dell’investimento tecnologico in ambito militare e le relative ricadute poi nel settore civile, da Internet al GPS. È una formula ancora valida oggi? O il rapporto si è invertito?
Alessandro Aresu: Ormai su questo tema c’è molta letteratura ma anche molta confusione. Il pubblico ha ruoli diversi nei vari Paesi a seconda dell’importanza del sistema militare ma anche ovviamente a seconda dello stadio di sviluppo in cui i vari Paesi si trovano, oltre che delle loro specifiche culture. Prendiamo la grande storia della microelettronica, che è la storia della nostra vita digitale. Ovviamente, tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, vediamo un’enorme incidenza degli apparati pubblici e degli apparati militari, che ha un’onda lunga nella costruzione degli ecosistemi, nella fondazione delle imprese e nel modo con cui le imprese realizzano i loro ricavi. Poi, possiamo indicare due aspetti.
In primo luogo, la Legge di Moore (e poi la Legge di Huang, come si ricorda nel libro sulla base della controversia su cui insiste NVIDIA) vanno avanti. Cosa significa? Tanto Gordon Moore quanto Jensen Huang vogliono vendere i loro prodotti ad alcuni clienti, e la crescita costante di questi mercati è anche l’aumento della precisione, dell’efficacia, dell’innovazione dei prodotti che forniscono. Quindi, quali sono questi mercati, e quanto pesa l’acquirente pubblico rispetto ai consumatori, cioè in ultima analisi a noi e alle imprese che ci vendono smartphone, auto, computer, servizi attraverso i data center? Pesa sempre meno: è facile effettuare questo calcolo. E i capitali che servono per procedere sono sempre più capitali privati.
In secondo luogo, ci sono i rapporti di forza tra i poli industriali e tecnologici. Per esempio, quando procede l’elettronica di consumo, arriva lo sviluppo del Giappone. I giapponesi coordinano fornitori e clienti, investono anche con capitali e incentivi pubblici e mettono in difficoltà gli Stati Uniti. Come escono gli Stati Uniti da quest’impasse? I fattori sono molteplici e li ho trattati chiaramente nei miei vari libri. Ci sono i dazi di Reagan ma c’è anche il primato finanziario statunitense nei confronti di un Paese che non ha indipendenza militare. Non c’è solo questo, perché ci sono anche iniziative pubbliche e innovazioni di mercato. Quindi, possiamo prendere l’azienda che vince in quella fase (la grande Intel di Andy Grove negli anni Novanta) e chiederci “Intel in quel caso vince perché si crea Sematech oppure perché coglie la rivoluzione del personal computer?”. In quel caso, la risposta è la seconda, si tratta chiaramente di una vittoria giunta attraverso soluzioni di mercato, e anche se, come ho detto, gli Stati Uniti hanno senz’altro praticato strumenti di capitalismo politico, Sematech aveva l’obiettivo indicato da Noyce di salvare la litografia statunitense, invece il risultato è stato il successo di ASML che ha comprato le aziende della litografia statunitense.
Ora ci troviamo in un’altra fase ancora, dove alcune cose cambiano e dove dobbiamo indicare, attraverso l’operato degli apparati pubblici e delle aziende tra Stati Uniti, Taiwan e Cina, dove si colloca il pendolo tra pubblico e privato. Porre al centro le vicende delle aziende, oltre che gli strumenti giuridici che ho indicato nei miei libri (il “sanzionismo”), ci consente di fare questo, così possiamo fare un discorso approfondito e non parlare a vanvera di pubblico e privato.
Nel settore tecnologico, ci sono state alcune sorprese, se così possiamo chiamarle, di aziende che sembravano in declino e che poi si sono reinventate. Pensiamo a Microsoft, che dopo aver perso il treno degli smartphone è riuscita, focalizzandosi sui data center, a tornare in vetta, anche a livello di capitalizzazione. Oppure, pensiamo a Huawei, sanzionata dagli Stati Uniti a partire dal 2019, con rilevanti perdite di quote di mercato, di recente tornata in partita grazie anche agli investimenti nell’intelligenza artificiale e all’individuazione di soluzione autonome dalla supply chain americana. È segno di una certa dinamicità nel settore o sono movimenti che possono interessare solo realtà già consolidate? In altre parole, nella partita dell’intelligenza artificiale potranno emergere nuovi player dal nulla o si tratta di un settore ormai impossibile da scalare?
Alessandro Aresu: Nel libro sottolineo proprio i casi di Microsoft e Huawei perché sono importanti in questo senso. La “distruzione creatrice” nel senso schumpeteriano è una bufera, ma nella bufera possono esserci i feriti e i morti. Magari pensiamo che ci siano i “feriti a morte”, per citare Raffaele La Capria, e invece non lo sono, e questa è una chiave di lettura della storia di Microsoft e del grande rilancio con Satya Nadella. È vero che se tu hai aziende che in ultima analisi non falliscono mai, e quindi divengono non elefanti in un vero e proprio cimitero, bensì giganti inamovibili, allora il tuo sistema è più statico, e non a caso nei ragionamenti alla fine del libro c’è anche il rilievo dell’antitrust nel sistema degli Stati Uniti davanti a sfide nuove. Quando avvengono questi casi, dobbiamo utilizzarli anche per cogliere quello che è successo di importante, per esempio il coordinamento tra imprese con capi-filiera che abbiamo visto in modo più consistente nel sistema cinese col rilancio di Huawei.
Nell’intelligenza artificiale, la domanda si pone per nuovi attori. Da un lato, NVIDIA rappresenta anche questo: non è nuova, per via della sua lunga storia, ma diventa un attore così rilevante perché coglie una tendenza, ci investe, batte e umilia Intel. Nello spazio, SpaceX emerge, batte Boeing e gli altri, diventa dominante nello spazio in modo molto più ampio di quanto lo sia mai stato chiunque altro. Sull’intelligenza artificiale, dovremmo chiederci: DeepMind, OpenAI, Anthropic e altri possono emergere, superare i loro vincoli infrastrutturali e portare quindi ad una nuova formula idiota con cui si definiscono le aziende IT gigantesche per capitalizzazione, da GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) a Magnifici Sette? Non è quello che sta accadendo, perché invece c’è una dipendenza molto chiara di queste realtà dagli altri giganti, ma comunque resta una domanda interessante da esplorare.
Una delle conclusioni che si possono trarre dal libro è che la storia dell’intelligenza artificiale ha e avrà ormai solo due volti: quello americano, in termini di tecnologia e innovazione, e quello asiatico, in termini di manifattura. Come sono destinati a relazionarsi, intrecciarsi o modificarsi questi due ruoli? Quale posto può ritagliarsi, realisticamente, l’Europa in questo contesto?
Alessandro Aresu: Come dico nel finale del libro, un primo punto è che se ci interessa veramente la cultura, umanistica e scientifica, non dobbiamo essere razzisti: per essere coerenti, dobbiamo riconoscere quello che sta avvenendo in altri luoghi del mondo. Chiederci sempre “e allora cosa può fare l’Europa?” diviene una cantilena inutile se non conosciamo il resto del mondo, e non basta conoscere gli Stati Uniti e la Cina. Non penso, come spiego chiaramente, che si possa avere un discorso informato se non si conosce quello che sta succedendo in Paesi come Malaysia e Vietnam, solo per citarne due, o come gli oligarchi industriali dell’India si interfacciano con le aziende tecnologiche statunitensi. L’apertura verso quello che accade nel mondo è un prerequisito per non continuare con questa cantilena “e allora l’Europa?”.
Bisogna sapersi guardare dall’esterno, e per un interlocutore esterno bisogna capire che è ridicolo che in Europa, soprattutto in Francia, ci sia un discorso da circa sessant’anni, avviato almeno da Jean-Jacques Servan-Schreiber, sulla “sovranità tecnologica”, poi ripetuto allo stesso modo tra l’altro da Chirac, da Macron, da Breton, poi l’ultima battuta a effetto su cosa deve fare l’Europa dopo Trump dell’ultimo ministro francese che c’è da qualche settimana. Se io sono un osservatore esterno e sento queste parole da sessant’anni e non si realizza sostanzialmente nulla, poi una volta un tedesco dice una cosa, un finlandese un’altra, un polacco un’altra ancora, è naturale pensare che tutto ciò non sia credibile: è chiaro o no?
Per quanto riguarda cosa fare, ho già spiegato più volte che, una volta che riconosciamo lo stato dell’arte, in teoria bisognerebbe: sostenere le nostre nicchie industriali invece di avere piani generali che non saranno realizzati; rafforzare la digitalizzazione di attori tradizionali in modo da avere più casi simili a Lidl; ovviamente mobilitare molti più capitali; puntare sull’attrazione dei talenti e la semplificazione della vita delle imprese; valutare i programmi esistenti (per esempio a livello europeo vedere se le cose come lo European Innovation Council funzionino, se valga la pena di finanziare iniziative chiamate addirittura New European Bauhaus per “diffondere la consapevolezza del Green Deal”, ma posso fare decine di esempi) e cancellare tutto ciò che non funziona prima di annunciare nuove iniziative, nuovi enti, nuove agenzie. Secondo me, in Europa tutte queste cose non saranno realizzate se non in minima parte.
Un altro tema dei miei libri, che emerge sempre di più in questo, può essere riassunto dalla formula “l’hardware comanda il mondo”, per completare ma anche in parte rovesciare la celebre formula di Marc Andreessen “il software sta mangiando il mondo”. In un sistema conflittuale, la divisione del lavoro con l’America che fa il software e l’Asia Orientale che fa l’hardware non può funzionare. Di conseguenza, i due sistemi continueranno a competere sull’hardware, sulla manifattura, e anche se ci saranno difficoltà o fallimenti degli Stati Uniti, gli Stati Uniti non molleranno, e nemmeno la Cina mollerà la presa, davanti ai suoi fallimenti.
Quest’ultima domanda è un po’ lunga, ma credo che sia un tema che vale la pena menzionare. Da un lato, un elemento centrale nelle dinamiche produttive in campo tecnologico, su cui spesso torna il libro, è la vittoria netta del capitale sul lavoro, che si traduce in una diffusa ostilità verso la sindacalizzazione e, nel caso asiatico, in una vera e propria vita dedicata all’azienda. Dall’altro, in particolare quando si guarda agli Stati Uniti, se è vero che questi dominano, rispetto all’Europa, in tutti gli indicatori rilevanti all’esterno (ricchezza, produttività, innovazione), va anche detto che sul fronte degli indicatori domestici della qualità della vita (aspettativa di vita, mortalità infantile, alcolismo, consumo di droghe, violenza, omicidi, sanità, povertà) il cittadino americano ha tutto da invidiare a quello europeo. Da qui, il grande tema: può esistere il modello americano, con la sua distruzione creatrice, velocità, irrequietezza, senza tali effetti collaterali? Può esistere il modello della grande manifattura asiatica senza una totale subordinazione del lavoro al capitale? Questo perché, qualcuno potrebbe dire che è vero che la storia dell’intelligenza artificiale sarà scritta in America e in Asia, ma forse si vive meglio a Salisburgo che a San Francisco o a Hsinchu.
Alessandro Aresu: Sì, sento spesso questo discorso, ma non capisco proprio cosa c’entri con quello che io descrivo nei miei libri, e di sicuro in nessun modo contraddice la mia specifica ricostruzione del contesto contemporaneo. In che modo, esattamente, la storia imprenditoriale dell’era digitale e dell’intelligenza artificiale viene cambiata o influenzata dal fatto che si viva meglio a Salisburgo che a San Francisco, oppure dal fatto che Jack Ma diceva di voler andare a riposarsi in spiaggia e invece è stato punito e umiliato dal Partito Comunista Cinese, mentre io vado veramente in spiaggia al Poetto quanto mi pare? Qual è il ruolo, nel grande schema delle cose, della frequenza con cui io vado in spiaggia? Nessuno. Buon per me, ma chi se ne frega, è un fatto privato, se non per l’importanza di pubblicizzare il turismo a Cagliari. Il fatto che io possa andare in spiaggia e avere a Cagliari una qualità della vita eccezionale – altro che Salisburgo, sono un lettore di Thomas Bernhard e vorrei vedere il loro mercato del pesce rispetto a quello di Cagliari – influenza la mia teoria del capitalismo politico, o le vicende di ASML, BYD, CATL, DeepMind, Huawei, OpenAI, SpaceX, Tesla, TSMC che ho descritto nei miei libri? No.
Per quanto riguarda la nostra vita eccezionale in Europa, oltre al fatto che è resa possibile da qualcuno, cioè la difesa degli Stati Uniti e pure in buona parte il suo consumatore, dobbiamo anche ricordare che poi al Poetto queste persone, le persone che io descrivo, non ci vengono a vivere. Chiaro? Loro in Italia non vengono, in Francia non vengono, in Germania non vengono, ora per quelli che vengono nei Paesi Bassi c’è anche un governo che vuole limitare l’inglese all’università e quindi lavora per far venire meno persone, per fare in modo che questi nostri luoghi che esaltiamo siano sempre più vuoti, abbiano sempre meno energie. Prendiamo Mira Murati che, siccome è albanese e ha la famiglia qui in Italia, durante una dimostrazione in un video di OpenAI dice in un ottimo italiano “Se le balene potessero parlare, cosa ci direbbero?”. Bellissimo sentire la nostra splendida lingua in quel momento. Facciamo una semplice domanda: se Mira Murati fosse venuta a lavorare in Italia, avrebbe potuto fare quella carriera? In Tesla, in OpenAI? Cosa hanno fatto i suoi amici, le sue amiche che invece per fortuna hanno arricchito nella cultura e nell’economia, come tantissimi albanesi, il nostro Paese? La verità è che pochi di loro saranno riusciti fino in fondo a realizzare le loro ambizioni, perché il nostro sistema comunque dà meno opportunità, e perché opportunità del livello di ciò che ha fatto Mira Murati non esistono proprio in Italia. Quindi io continuo ad apprezzare la bellezza di Roma, il Poetto, ma questi sono fatti miei, vicende private che non riguardano l’assetto del mondo e del nostro continente, se invece passiamo al contesto pubblico poi avrei voluto Mira Murati e tutti gli altri a parlare italiano e inglese in Italia, a fare qualcosa in Italia, così magari sarebbero cresciute le possibilità di avere di più, di costruire di più, affiancando le capacità delle medie imprese italiane che, soprattutto tra Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, ci hanno lo stesso tenuto in piedi.
Alla domanda se possa esistere un modello americano con una migliore qualità della vita, penso che si possa rispondere di sì. Certo, può esserci un po’ di retorica di “apprendimento attraverso la sofferenza”, come nella figura di Jensen Huang e in tante storie personali dell’immigrazione, ma che c’entra questo col fatto che il sistema sanitario degli Stati Uniti potrebbe essere migliore, che il tema del rapporto con le assicurazioni potrebbe essere gestito meglio, eccetera? E, allo stesso tempo, non c’è nessuna relazione a mio avviso tra la qualità della vita che abbiamo ottenuto in Europa e il fatto importantissimo che nessuno in Europa abbia investito in aziende come DeepMind o Arm: se un investitore istituzionale mette i soldi in immobili e in aziende di scarso valore e non in DeepMind o Arm, perché questo dovrebbe aiutare la qualità della vita, lo stile di un popolo e altre cose? Non c’entra assolutamente niente, si tratta di errori e basta. In conclusione, questo discorso sulla qualità della vita europea rischia di essere una consolazione pericolosa davanti ai temi che abbiamo affrontato.