“Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi” di Giulio Azzolini
- 15 Maggio 2019

“Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi” di Giulio Azzolini

Recensione a: Giulio Azzolini, Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 176, euro 18 (scheda libro)

Scritto da Paolo Missiroli

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Giovanni Arrighi non è un pensatore sufficientemente valorizzato nel panorama italiano e sono pochi i luoghi che dedicano un qualche spazio a riflessioni su questo storico ed economista. Eppure Arrighi è importante nel dibattito internazionale a proposito del capitalismo e della sua storia; esempio ne sia il suo ruolo nella discussione seguita alla pubblicazione di Impero di Toni Negri e Michael Hardt. Dai post-operaisti Arrighi era considerato, pur nel forte disaccordo, un interlocutore di prim’ordine.

Per questo la pubblicazione di una monografia su Arrighi è una buona notizia. Capitale, egemonia, sistema di Giulio Azzolini, oltre ad essere una novità per il solo fatto di trattare di Arrighi, ha il pregio di affrontare la sua opera dall’inizio alla fine, cogliendone i punti salienti in un numero di pagine ammirevolmente ridotto; pone con chiarezza gli elementi di contatto con altri autori, scuole e correnti di pensiero; colloca Arrighi nel suo tempo storico ed anche nella sua dimensione di militante politico all’altezza degli anni Settanta. Fare una recensione di un testo simile significa quindi porsi, non senza un qualche grado di arbitrarietà, l’obbiettivo di riportare alcuni fra questi tanti elementi. L’arbitrio sta, appunto, nel fatto che non tutti potranno essere qui trattati. Il testo che discutiamo, peraltro, si presta con facilità, data anche la buona scorrevolezza che lo contraddistingue, ad essere sfogliato e letto da chiunque lo voglia. Non ci concentreremo eccessivamente sugli esiti più noti del pensiero dell’Arrighi maturo, che sono già stati trattati, su Pandora, in recensioni apposite. Qui è possibile trovare la recensione a Il lungo XX secolo e qui e qui quelle a Adam Smith a Pechino. 

Può facilitarci il compito il fatto che in effetti si potrebbe dire che il senso della riflessione arrighiana è quello di dare ragione della crisi all’interno del sistema capitalistico. Questo presuppone, com’è evidente, una definizione di tale sistema, ma non è l’obbiettivo del suo pensiero. Già la formulazione della questione in questi termini “la crisi all’interno del sistema capitalistico” non è affatto scontata, come vedremo.

Non è un caso che il suo primo interesse, all’inizio degli anni Settanta, fosse quello del sottosviluppo, soprattutto nel continente africano. Arrighi, spiega Azzolini, giunse attraverso una serie di ricerche anche sul campo in Africa (che proseguiranno, anni dopo, nella nostra Calabria) a sviluppare l’idea che il sottosviluppo africano non fosse una congiuntura storica determinata, dovuta alla mancanza di un processo capitalistico avanzato che, se implementato anche in quel continente, avrebbe “tirato fuori” dalle sacche della povertà l’Africa: il sottosviluppo era invece una conseguenza di un forte sviluppo capitalistico nei paesi avanzati (mondo Occidentale), le cui grandi multinazionali erano la causa prima del fenomeno in questione. Da queste primissime ricerche (su quella che potremmo definire una crisi infinita – cioè quella dei paesi sottosviluppati) Arrighi comprenderà in primo luogo che il capitalismo è sempre un fenomeno inter-nazionale, che agisce su scale che non sono quelle del singolo Stato, e che “il sottosviluppo della periferia è l’altra faccia dello sviluppo del centro”. Abbiamo quindi qui la nascita di una prima idea di Arrighi, naturalmente ad uno stadio ancora embrionale: l’idea che il capitalismo sia sempre un sistema-mondo, che non si dia mai come tale nei singoli stati nazionali, che le differenze tra questi si danno solo sullo sfondo in un sistema-mondo che le stabilisce.

 

Un sistema di crisi

Nel libro viene dedicato uno spazio importante al rapporto di Arrighi con gli anni Settanta italiani, e quindi alla sua dimensione di militante politico. Azzolini però, fedele al suo intento di parlare “teoricamente” di Arrighi, legge le posizioni del pensatore italiano come legate alle sue idee riguardo al sistema capitalistico. La differenza tra il “Gruppo Gramsci”, appartenente alla sinistra parlamentare e nonostante questo ispirato dall’autore dei Quaderni del carcere, e le altre posizioni presenti sul campo sta proprio nel diverso modo di intendere la crisi capitalistica all’altezza degli anni Settanta. Azzolini identifica quattro posizioni contro le quali Arrighi e il Gruppo Gramsci decisero di prendere posizione. Le prime due in realtà sono riconducibili a una sola: quella del Sole 24 Ore, o della “destra economica” e quella di Potere Operaio, che identificavano, con una valutazione ovviamente differente, la causa della crisi con la conflittualità operaia. La terza era quella della “sinistra del blocco dominante” (quella dell’Espresso di Eugenio Scalfari) che identificava la causa della crisi non nella conflittualità in sé, quanto nella prosecuzione di tale conflittualità dopo l’ottenimento dell’aumento salariale. Da ultima, la posizione del PCI di Berlinguer, che leggeva la crisi come causata dall’assommarsi di un nuovo parassitismo monopolistico e finanziario al vecchio parassitismo della rendita.

Secondo Arrighi tutte queste posizioni condividono un errore di fondo. Esse leggono la crisi come dovuta ad “errori” tutto sommato accidentali; la vedono come una specie di escrescenza, come qualcosa di evitabile e non di legato con il meccanismo di fondo dell’accumulazione capitalistica. Ciò che Arrighi fa invece valere già in queste analisi negli anni Settanta è precisamente l’idea che il capitalismo si struttura su una tendenza alla crisi. Esso non è pensabile senza il continuo ritorno della crisi. Tutte le analisi “operaiste” sono per Arrighi insufficienti nella misura in cui, leggendo tutta la catena dei nessi causali legata alla crisi come determinata dallo scontro tra capitale e lavoro, sottovaluta “il nesso, altrettanto fondamentale nella genesi delle crisi capitalistiche, fra le rivoluzioni tecnologiche e la crescita delle pressioni competitive”. In questo senso, naturalmente, risulterà evidente come per Arrighi non si dia mai una “crisi generale” come invece veniva letta da altri la crisi degli anni Settanta. Ogni crisi è solo una riconfigurazione del sistema capitalistico, necessaria al suo stesso sviluppo, per rilanciare i cicli di accumulazione ad un livello più alto. In altre parole, dice Azzolini, “se la crisi non è più generale, vuol dire che non è nemmeno definitiva, che non è la crisi del capitalismo, ma una crisi nel capitalismo”. Risulterà chiaro, ai conoscitori dei libri dell’Arrighi più maturo come Il lungo XX secolo Adam Smith a Pechino, come queste idee, sebbene rimodulate, non saranno nella loro sostanza mai più abbandonate dal pensatore italiano.

A che livello vanno lette queste crisi? Come si costituiscono storicamente? Cosa gli dona la potenza che conosciamo, perché esse si collocano sempre, per ribaltare il famoso modo di dire, contro, ma dentro il capitale? In che senso il capitale usa la crisi? Come pensare questo negativo apparente, che però costituisce in effetti il sistema capitalistico? Sono queste le domande che animeranno il pensatore italiano dagli anni Settanta fino ai primi anni Duemila, quando pubblicherà il suo capolavoro, Il lungo XX secolo. Nel corso di questo cammino egli incontrerà Braudel e Wallerstein, con cui condividerà elementi e da cui lo divideranno altri. L’elaborazione arrighiana, ci dice Azzolini, è sempre originale, non tanto nel senso che essa si collochi su un terreno radicalmente nuovo, quanto nel senso che essa incroci più influenze e le faccia giocare insieme, per pensare diversamente quel sistema-mondo capitalistico che era, si può dire, la sua ossessione. L’analisi che Azzolini fa delle divergenze a proposito del pensiero del “sistema-mondo” è ammirevole per profondità teorica e capacità di lettura, un’analisi davvero preziosa che va analizzata più a fondo. Molto nota è la posizione, che egli mutua da Braudel, secondo cui il capitalismo non consiste nel sistema di mercato, ma nella costruzione di monopoli, che intaccano un sistema perfettamente concorrenziale; tale costruzione avviene sistematicamente mediante il potere statuale, che è dunque centrale nella costruzione di sistemi-mondo, che egli chiama appunto egemonie, in quanto costruzioni definite intorno all’egemonia di uno Stato-nazione che ha una vocazione imperiale nei confronti del sistema mondo determinato. Anche su questo rimandiamo alle recensioni ai testi di Arrighi.

Arrighi e Wallerstein condividono l’idea che il sistema mondo sia ormai globale e che esso sia un portato della modernità. Esso è storico, ed è la dimensione su cui oggi vive il capitalismo. Essi però divergono fortemente nel pensare l’esteriorità di questo sistema. È il problema filosofico del “Fuori”: cosa si dà al di là di un sistema, e come vive questo sistema nei confronti di ciò che lo circonda? Vi è qualcosa che lo circonda? Per Azzolini, la risposta che darebbe Wallerstein sarebbe negativa. Il sistema mondo è un sistema che è un mondo, e solo lo sguardo che parte da tale totalità ne può dare ragione. Esso è una totalità concreta. Se questo però può rendere “scientifico” il suo dire, per Azzolini questo tipo di approccio rende difficile pensare le relazioni tra il sistema e il suo ambiente (giacché questo sistema non ha ambiente, essendo l’interezza del mondo) e la storia (come si dà movimento storico in un sistema che è tutto? Cosa colpisce la stabilità di una perfetta sfera, immobile e data a sé stessa? In altre parole, dove sta il negativo?). Per Arrighi, invece, il sistema mondo non è affatto una struttura, cioè una sostanza che anima un’epoca storica, la sostiene e le dona una forza originaria; esso è invece, appunto, sistema, ciò che tiene insieme elementi fortemente diversi, esterni l’uno all’altro. Per Arrighi c’è solo Fuori, non c’è niente al di fuori di questa opposizione che un sistema storico riesce, arrabattandosi, a tenere insieme. Tutto è esterno: per questo Azzolini ci dice che per Arrighi “non appena dunque il sistema non riesce più a risolvere il suo esterno, quest’ultimo emerge nel suo carattere caotico”. Ecco la crisi, che abbiamo già da prima cercato. Sono note le difficoltà di Wallerstein nel pensare la crisi. Per Arrighi invece, ormai sarà chiaro, c’è solo crisi, nella loro alternanza rispetto ai cicli di accumulazione che creano un sistema, che però è in quanto tale sempre pervaso da linee di fuga, da un’instabilità pervasiva.

Cosa anima questi cicli di accumulazione? Essi non sono pensati solo con Marx. Arrighi riprende dai teorici del sistema mondo l’idea che la valorizzazione del capitale non nasca solo nella sfera della produzione, ma che essa scaturisca anche da quella della circolazione. Su tale idea era basata la critica alle letture della crisi come originata solo dallo scontro tra capitale e lavoro. Arrighi tende sempre a leggere quello scontro come sintomo della crisi, e non come causa. Azzolini ci dice che, sebbene Arrighi “concordi con Marx sul principium individuationis del capitalismo, egli rinviene con maggiore flessibilità le condizioni del processo di valorizzazione del capitale”.

 

Arrighi: movimenti egemonici e movimenti antisistemici

Una delle “croci” interpretative che circolano intorno ai testi di Arrighi è quella dei movimenti antisistemici e del loro ruolo nel processo storico all’altezza del sistema-mondo. Azzolini identifica in primo luogo l’idea arrighiana per cui “la politica è movimento”. Esistono poi due tipi di politica, due sue declinazioni principali: l’egemonia e il movimento antisistemico. Se l’egemonia è quel potere addizionale (forza + consenso) che lo Stato a guida di un ciclo di accumulazione esercita sul sistema mondo, plasmando quel meta-ordine globale che identifica ogni ciclo, i “movimenti antisistemici” è cioè il movimento operaio prima e quello del ‘68 dopo, sono quella resistenza incoercibile che inevitabilmente i sistemi mondo creano, sono quella lotta per “sovvertire il sistema interstatale” che aleggia e agisce nel corso della storia.

Azzolini, coerentemente con il suo lavoro, non commenta ulteriormente queste pagine, pur ricordando l’interesse di Arrighi per il tema dei movimenti antisistemici. A noi conviene riflettere su questa distinzione della politica. Essa appare paradossale se la si guarda con attenzione: il concetto di egemonia gramsciano, come è noto, nasce come arma teorica per il partito comunista, come mezzo per la lotta del movimento operaio. Perché Arrighi, invece, deve così scindere tra lotta antisistemica e creazione di egemonia? Questa distinzione comporta un rischio, come è evidente, ed ha un presupposto. Il presupposto è che i movimenti antisistemici non possano mai “prendere il potere”, o meglio, non questo potere, pena il loro venire meno come movimenti antisistemici, appunto. Perché non possono? Perché questo potere, quello che impera anche all’altezza della globalizzazione contemporanea, è sempre il potere di un sistema di stati. Per Arrighi non c’è ordine senza un sistema di stati organizzati intorno ad un’egemonia. Il movimento operaio, o il movimento del ‘68, non possono mai essere protagonisti di un’egemonia. Questo è il rischio: se si pensa tutto il potere dalla parte dello Stato ci si vieta di pensare il potere (e l’egemonia) della classe operaia, o di qualunque soggetto antagonista. Se il vero soggetto delle egemonie (quindi della storia) sono i “sistemi di stati” e non ciò che vi scorre in mezzo, sopra e sotto, come si può pensare che i movimenti antisistemici possano essere qualcosa di più che ribelli di un ordine che però sarà sempre fatto da altri? Sembrerebbe che questi ultimi siano condannati alla rivolta per sempre; la loro potenza è incoercibile, non verrà mai distrutta, ma allo stesso tempo non si trasformerà mai in un atto, in un equilibrio diverso. Forse è per questo che l’ultimo Arrighi si arrende a sperare nella Cina (un nuovo Stato, non in mano a nessun movimento antisistemico) per un ordine mondiale più giusto. Da questo punto di vista la critica di Toni Negri e Michael Hardt è vera quando dice che in Arrighi non ci sono mai “eventi”: il corso della storia è solo il susseguirsi di egemonie, di segno diverso, ma sempre all’interno di un “meta-ordine” che è quello dei cicli di accumulazione.

O forse, tra le righe, potremmo leggere altro: che questa distinzione tra politica come creazione di egemonia e politica come creazione di un movimento antisistemico indichi il non abbandono da parte di Arrighi dell’utopia leninista per cui si prende lo Stato solo per distruggerlo; che il potere della classe operaia per cui aveva lottato negli anni Settanta non può realizzare che un ordine radicalmente diverso da quello che il nostro storico ha studiato per tutta la vita, quello del sistema mondo. Se fosse così, però, bisognerebbe mutare il nome di questi movimenti: essi non sarebbero più definibili solo in via negativa “antisistemici”, ma in lotta per un “sistema” diverso, al di fuori dei cicli di accumulazione e quindi del sistema capitalistico.

Si tratta di problemi aperti, che non era compito di Azzolini risolvere, ma solo indicare. Per il resto, si tratta di un libro davvero da leggere, la cui complessità e i cui contenuti eccedono infinitamente questa recensione.

Scritto da
Paolo Missiroli

Dottore di ricerca in Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Université Paris Nanterre. È docente a contratto di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e cultore della materia presso il Dipartimento di Filosofia dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, dove collabora con la cattedra di Storia della filosofia francese contemporanea. Membro del comitato editoriale dell’“Almanacco di Filosofia e Politica” e del gruppo di ricerca “Officine Filosofiche”, studioso del pensiero filosofico francese contemporaneo, in particolare di Merleau-Ponty e della filosofia francese degli anni Trenta, si interessa di Antropocene, del rapporto uomo-mondo, dell’ecologia e di una sua possibile declinazione in termini politici.

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