Scritto da Roberto Zambiasi
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Uno dei temi del pensiero islamico contemporaneo meno noti al pubblico occidentale, ma al contempo più affascinanti e ricchi di implicazioni, è quello della giustizia sociale.
Spesso, per cercare di cogliere nel suo insieme tale aspetto, peraltro uno dei pochi che ha trovato un’elaborazione relativamente comune sia nel sunnismo che nello sciismo, si parla di “teologia islamica della liberazione”[1]. Espressione, questa, utile per una comprensione generale del fenomeno ma inadeguata sotto più aspetti. Se è vero, infatti, che anche per alcuni teologi islamici si può parlare del tentativo, simile a quello condotto dai vescovi cattolici latinoamericani a partire dal 1968, di trasformare il messaggio religioso in prassi rivoluzionaria, l’analogia non può essere condotta oltre.
Prima di tutto, infatti, a differenza del Nuovo Testamento, il Corano è ricco di indicazioni normative volte al ristabilimento della giustizia su questa terra e al superamento delle disuguaglianze sociali. Molteplici, per esempio, sono i richiami del Corano al ruolo della giustizia come virtù centrale del credente[2], alla protezione delle vedove e degli orfani come forma di jihad (che, in senso proprio, indica solamente lo “sforzo” del credente verso Allah, al di là di ogni implicazione violenta o bellicistica)[3] e all’elemosina come precetto divino[4].
Altro elemento da tener presente è il fatto che, a differenza della teologia cristiana, concentrata sullo studio dell’essenza di Dio e degli attributi divini, non è possibile, dal punto di vista musulmano, dire alcunché intorno ad Allah[5]. Dio è l’inconoscibile, separato dal mondo in una trascendenza assoluta che è stata rotta solo dalla rivelazione attraverso i profeti, ultimo dei quali è proprio Muhammad. Ai “teologi” islamici non resta dunque che interpretare il testo sacro cogliendone tutte le implicazioni per ciò che concerne la dimensione immanente, soprattutto etica e politica. Con una forzatura terminologica, utile però per cogliere meglio il concetto, si potrebbe dire che l’intera teologia islamica è principalmente “prassi”. Questo vale per il Medioevo e la prima età moderna, ma ancora di più per il XX secolo.
In effetti, l’idea di un impegno della teologia islamica per la “liberazione” della comunità dei fedeli ha assunto per la prima volta una concretezza politica proprio di fronte alla necessità di tutelare i musulmani dai soprusi dei poteri coloniali occidentali. Emblematica in questo senso (almeno per il sunnismo) è la parabola di Ḥasan al-Bannā, professore, intellettuale e fondatore (nel 1928) dell’associazione della Fratellanza Musulmana (al-Ikhwā’n al-muslimū’n) in Egitto[6]. La riflessione teorica di al-Bannā si concentra sulla crisi politica, culturale e sociale dell’Islam a lui contemporaneo. Nella sua visione, causa precipua ne sarebbe proprio il fatto di aver abbandonato la concezione della religione come “dottrina dell’azione” per perdersi in vuoti spiritualismi capaci solo di generare conflitti religiosi, a cui è da sommare l’inettitudine dei governanti musulmani e, soprattutto, la pericolosa influenza dei costumi occidentali sulla comunità islamica[7].
A tale stato di cose, al-Bannā cercò di rispondere con un’intensa attività culturale ed educativa che costituiva in sostanza un’applicazione alla realtà contemporanea dei principi coranici, chiamati ad illuminare la strada verso la realizzazione di una società giusta[8].
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Indice dell’articolo
Pagina corrente: La giustizia sociale nel Corano: la teologia islamica come prassi
Pagina 2: La giustizia sociale nel sunnismo del XX secolo: Sayyid Qutb, Hasan Hanafi e Farid Esack
Pagina 3: La giustizia sociale nello sciismo del XX secolo: la complessa eredità di Ali Shariati
[1] Il concetto di “teologia islamica della liberazione” è stato sviluppato, in Italia, soprattutto dall’orientalista Massimo Campanini. Cf. per esempio il titolo di Campanini, M. (2018), a cura di, La teologia islamica della liberazione, Milano, Jaca Book, raccolta di articoli di Hasan Hanafi, di cui si parlerà più estesamente nel seguito dell’articolo.
[2] Per esempio, si veda Corano, 5: 8-9.
[3] Specialmente Corano 4:74-76.
[4] Si veda Corano 9:60.
[5] Ancora una volta, si tratta di un principio ben presente nel Corano: cf. 13:16 3 16:74, dove in particolare viene proibito anche l’uso di similitudini per parlare di Allah.
[6] La vicenda di al-Bannā è citata solo a titolo di esempio particolarmente significativo di un movimento di pensiero più ampio. Considerazioni molto simili potrebbero essere anche svolte per altri protagonisti della vita culturale musulmana dell’epoca, come Abū l-Aʿlā al-Mawdūdī (sul pensiero di quest’ultimo si veda in particolare Lerman, E. (1981). Mawdudi’s Concept of Islam, Middle Eastern Studies 17 (4), pp. 492-509).
[7] Cf. il pamphlet scritto da al-Bannā alla metà degli Anni Trenta, dal titolo Bayn al-Ams wa’l-Yawm (Tra lo ieri e l’oggi), citato in Al-Abdin, A.Z. (1989). The Political Thought of Hasan Al-Bannā, Islamic Studies 28 (3), pp. 219-234.
[8] Ibid.
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