Recensione a: David Abulafia, Il Grande Mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, Milano 2016, pp. 695, 25 euro (scheda libro)
Scritto da Gianmarco Cola
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Il Mar Mediterraneo e gli uomini che l’hanno navigato sono i protagonisti di questo libro, scritto dallo storico inglese David Abulafia, molto noto anche nell’ambito accademico italiano grazie a diversi studi riguardanti la storia della nostra penisola, il più famoso dei quali è senza dubbio Federico II. Un imperatore medievale, la cui prima edizione è del 1988.
Il Grande Mare. Storia del Mediterraneo, corposo saggio storico pubblicato per la prima volta in Italia nel 2013 da Mondadori nella collana Le scie, riesce nelle sue oltre seicento pagine a dare un ampio affresco sui maggiori eventi che nel corso dei secoli hanno plasmato la geopolitica dell’antico “Mare Nostrum” romano, con effetti spesso visibili ancora oggi.
Il titolo del libro è ripreso da una preghiera ebraica – “Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, re dell’Universo, tu che hai creato il Grande Mare” – e vuole essere un omaggio che Abulafia, inglese ma di origine sefardita, dedica ai suoi antenati, che per secoli hanno percorso il “Mare tra le Terre” (p. 7) lungo tutta la sua lunghezza: da subito quindi si palesa la profonda connessione tra l’autore e l’argomento del libro.
Lo studioso britannico, docente di Storia del Mediterraneo presso l’università di Cambridge dal 2000 al 2018 e membro della British Academy nonché dell’Academia Europæa, nel suo volume si occupa solo marginalmente delle storie dei grandi re e condottieri, preferendo focalizzarsi su eventi come la fondazione e l’ascesa delle più importanti città mediterranee, come Cartagine o Venezia.
Alla storia di questi grandi insediamenti si affiancano anche, fin dalle prime pagine del saggio, le imprese di quei marinai, mercanti, corsari e pirati che più di tutti contribuirono a rendere il Mediterraneo quel crocevia di popoli, merci e idee che tanto hanno contribuito alla storia e al progresso dell’umanità.
Trattandosi di un libro dedicato alla storia mediterranea, non poteva mancare il confronto con Fernand Braudel, il grande storico francese che fu il massimo esponente della seconda generazione di intellettuali formatisi attorno ai lavori di Lucien Febvre e March Bloch, fondatori nel 1929 della rivista «Annales d’histoire économique et sociale» attorno alla quale fiorì una innovativa corrente di studi storici nota con il nome collettivo di “Nouvelle Historie”.
Abulafia si rifà agli scritti di Braudel, e non potrebbe essere altrimenti, ma non accoglie in toto la teoria dallo storico francese, che con il termine “Mediterraneo” intendeva non solo lo specchio d’acqua e la fascia costiera ma anche i territori situati all’interno, abitati da popolazioni prive di tradizioni marittime, che però contribuivano alla grande rete economica transmediterranea fornendo derrate alimentari e materie prime. Anche se l’autore non ignora certo l’entroterra, lo scopo dichiarato del libro è quello di concentrarsi sullo sviluppo delle città portuali e soprattutto sugli uomini che hanno solcato, per i più disparati motivi, le onde del Grande Mare, adottando quindi una visione generale più ristretta rispetto a quella di Braudel (pp. 3-4).
Nonostante l’opera non si discosti dalla generale narrazione che vede il Mediterraneo perdere progressivamente di importanza a partire dal XV secolo, Abulafia ci mostra come anche in periodi di “crisi”, a partire dalla metà del XVII secolo, quando i traffici oceanici iniziano ad assumere dimensioni ragguardevoli, esso sia stato fondamentale per la storia umana ed europea, basti pensare alla conquista della rocca di Gibilterra e delle isole maltesi da parte dei britannici, l’apertura del canale di Suez o la creazione dello stato di Israele nel 1948.
L’autore divide la storia del “Grande Mare” in cinque periodi progressivamente più brevi, da decine di migliaia a poco meno di duecento anni, a partire dal 22.000 avanti cristo fino agli inizi del decennio appena trascorso. Ogni fase, tranne ovviamente l’ultima, termina con uno o più momenti di crisi, che costituiscono l’inizio dell’epoca successiva, secondo un ciclo costante di apogeo e declino per altro molto diffuso presso gli storici anglosassoni.
Seguendo questo meccanismo, Abulafia inizia la sua storia del Mediterraneo descrivendo i resti archeologici, sia edilizi che ceramici e litici, appartenenti a civiltà preistoriche, come quella degli antichi maltesi, fiorita attorno al 3000 avanti cristo, o a quella delle isole Cicladi, sviluppatasi pressappoco nel medesimo periodo (pp. 25-30).
Nei paragrafi successivi si tratta invece di popoli come gli Egizi e i Minoici cretesi e degli scambi commerciali tra quest’ultimi, dimostrando come già a partire dall’epoca dei faraoni nella parte orientale del “Grande Mare” si fosse già stabilita una fitta rete di commerci marittimi, che portarono alla formazione delle prime città mercantili, come la famosa Troia, protagonista dell’epica greca.
L’autore si dimostra poi d’accordo con le teorie storiche prevalenti, imputando la successiva età “oscura” – circa quattro secoli tra la fine del secondo e l’inizio del primo millennio avanti cristo – a una serie di gravi crisi innescate sia da fenomeni naturali che da invasioni di popoli guerrieri, che cambiarono profondamente l’assetto etnico del Mediterraneo orientale, portando ad una forte regressione dei commerci.
Nel successivo corposo capitolo viene presa in esame ciò che potremmo definire la fase “classica” della storia mediterranea, a partire dai Fenici, i primi navigatori che impostarono durature rotte commerciali da una parte all’altra del Mediterraneo, passando per le vaste talassocrazie greche, persiane ed ellenistiche, per poi approdare alla disfatta di quell’impero romano che per primo riuscì a unire tutte le terre che circondavano quello che chiamarono, non senza ragione, “Mare Nostrum”.
Grazie alla maggior presenza di fonti, in questa parte del volume le città più importanti per i traffici commerciali, nonché i loro porti, vengono descritte con dovizia di particolari, a partire dalla loro, spesso mitica, fondazione. I cittadini, di qualsiasi etnia, delle ricche metropoli marittime di Cartagine, Alessandria o Roma, solo per citare alcuni degli esempi più famosi, sono i veri protagonisti di questo capitolo.
Il crollo dell’Impero Romano d’occidente segna uno spartiacque nella storia di Abulafia, giacché quell’unità istituzionale che, nonostante fosse soggetta a momenti di crisi anche gravi, per secoli aveva permesso lunghi periodi di pace e prosperi commerci, venne meno; Abulafia usa infatti l’espressione “Mare in atrofia” (pp. 237-238) per descrivere questo periodo altomedievale, nel quale la diffusione della religione islamica porterà ad una divisione tra le sponde settentrionali e meridionali del Mediterraneo.
La dimensione religiosa assume un’importanza nuova nel terzo capitolo del volume, che va dal VII al XIV secolo, coprendo quindi la quasi totalità del periodo medievale, poiché i culti religiosi avranno un peso precedentemente sconosciuto nello stabilire i rapporti tra le varie popolazioni del bacino mediterraneo. Le Crociate, la pirateria sia araba che delle città marinare, il saccheggio di Costantinopoli da parte delle stesse forze cristiane, ma anche la diffusione di nuove tecnologie, quali ad esempio la bussola, nonché la riscoperta da parte dei dotti arabi dei testi dei grandi studiosi e medici dell’antichità classica, saranno solo alcune delle conseguenze dell’incontro-scontro tra le grandi religioni mediterranee.
Il Basso Medioevo fu il periodo d’oro delle città cristiane dell’Europa occidentale affacciate sul Mediterraneo: l’ascesa di città come Venezia, Genova e Pisa, con i loro traffici e interessi commerciali, è presentata con dovizia di particolari, analizzando le cause sociali ed economiche del successo e poi dell’eventuale declino di queste dinamiche realtà marinare. L’autore però non si limita a trattare i casi più famosi, ma amplia la narrazione fino ad includere le città della costa catalana, su tutte Barcellona e Valencia, delle quali descrive il repentino sviluppo favorito dai Re d’Aragona, creatori di un potente e duraturo regno marittimo tra le Baleari e la Sicilia[1] (pp. 324-340).
Ampio spazio hanno in questo e nel successivo capitolo le tribolazioni del popolo ebraico, i cui intraprendenti mercanti e banchieri erano fondamentali per la prosperità di molti centri marittimi, ma in ogni caso perennemente esposti a persecuzioni e tentativi di conversione forzata.
Se durante il Quattrocento si ha una grande ripresa dei traffici marittimi dopo le devastanti pestilenze del secolo precedente, che per l’autore segnano il passaggio ad una nuova epoca mediterranea, nel Cinquecento iniziano ad intravedersi i primi segnali di decadenza, soprattutto nella seconda metà del secolo.
Più che la scoperta di nuove rotte oceaniche verso le vecchie e nuove Indie fu la situazione di conflitto semipermanente tra l’Impero Ottomano, che attraversò nel XVI secolo il suo periodo d’oro, e i vari regni e potentati occidentali a segnare l’inizio del declino del “Grande Mare”. Il fanatismo religioso, rinfocolatosi in Europa con la diffusione del Protestantesimo, non aiutò gli sforzi diplomatici ed anzi fu una delle cause, assieme all’espansionismo turco e alla pirateria nordafricana, che portarono ad una sempre più netta divisione del Mediterraneo in due aree ben distinte, il cui confine marittimo era il canale d’Otranto. La battaglia di Lepanto[2] segnò la fine del mito dell’invincibilità della flotta Ottomana, ma non apportò significativi guadagni alle potenze europee: la pirateria barbaresca continuò imperterrita e il declino dei possedimenti d’oltremare di Venezia e Genova fu solo temporaneamente rallentato (pp. 428-430).
Come ben ci mostra l’autore, a partire dai primi decenni del Seicento vi è nel Mediterraneo sempre una maggior presenza di navi e marinai appartenenti a paesi esterni al suo contesto, come l’Inghilterra e l’Olanda, che spesso esercitano la pirateria per colpire il loro principale nemico: l’impero spagnolo degli Asburgo. Nonostante la presenza di floride città, come Livorno in Italia o Smirne nell’impero Ottomano, durante questo secolo il commercio internazionale si sposta definitivamente verso l’Atlantico e il Mare del Nord, dove si assiste ad uno sviluppo degli insediamenti costieri paragonabile a quello avvenuto in Italia nel Basso Medioevo.
Il “Grande Mare” continuerà per tutta l’Età Moderna ed anche oltre ad avere una profonda valenza strategica, soprattutto a partire dalla formazione, nel XVIII secolo, dei grandi imperi marittimi facenti capo alle corone francesi e britanniche: Abulafia mostra come, di pari passo con l’indebolirsi della potenza turca, gli stati europei cercarono di garantirsi basi navali, non più solo per il controllo delle rotte marittime ma anche per limitare la potenza rivale. Emblematici sono i casi di Minorca e di Gibilterra, conquistate durante la guerra di successione spagnola e fondamentali per consentire alla Gran Bretagna di contrastare efficacemente per oltre un secolo le flotte francesi nel Mediterraneo occidentale[3] (pp. 464-470).
Durante il XIX secolo, se da un lato vi è una nuova prosperità commerciale, dovuta principalmente all’apertura del canale di Suez, che permise di accorciare di migliaia di miglia le tratte marittime colleganti l’oceano Atlantico a quello Indiano, dall’altro i crescenti nazionalismi sono alla base di aspre tensioni tra i vari popoli mediterranei, causando profondi cambiamenti geopolitici tra cui le lotte per l’indipendenza greca e poi italiana, con la prima che non a caso segna il passaggio tra il quarto e il quinto e ultimo periodo del “Mare tra le Terre”.
Abulafia ci mostra chiaramente in questi paragrafi come il Mediterraneo non fu esente dal colonialismo europeo occidentale. Durante il lungo lasso di tempo che va dal 1830 al 1920 l’intera costa nordafricana e mediorientale cadde sotto il dominio anglo-italo-francese, con profondissime conseguenze che sono chiaramente visibili ancora oggi. Conseguenza ancora più grave secondo lo studioso inglese fu la definitiva perdita, nella prima metà del Novecento, di quella società multietnica e multireligiosa che animava numerose città portuali, interrompendo una tradizione millenaria: emblematico è il caso di Smirne, che patì l’esodo delle comunità greca e armena, le più intraprendenti dal punto di vista commerciale, nel corso della guerra greco-turca del 1922-23.
Dopo gli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale e la fine dell’effimero “mare nostrum” mussoliniano, il Mediterraneo, o almeno parte di esso, ritrova la sua dimensione di connettore di popoli dapprima nella nuova tendenza del turismo estivo di massa, successivamente nei flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Il “Grande Mare” continua così ad essere teatro di incontri ma anche scontri tra culture, religioni e idee.
In conclusione, il Grande Mare di Abulafia è un’opera adatta a chiunque voglia approfondire la conoscenza di quel fondamentale crocevia di popoli, lingue, culture e religioni che è, in definitiva, il Mar Mediterraneo.