Il revival del brigantaggio meridionale. Tra storiografia e mitografia
- 23 Febbraio 2021

Il revival del brigantaggio meridionale. Tra storiografia e mitografia

Scritto da Christopher Calefati

8 minuti di lettura

Reading Time: 8 minutes

La complessa e intricata storia del brigantaggio postunitario è tornata alla ribalta attraverso la rilettura del Risorgimento meridionale in seguito alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia nel 2011. La contronarrazione risorgimentale conquista il dibattito pubblico, mostrandosi come elemento di novità che intende rompere gli schemi della storiografia “classica”. Se si guarda più attentamente al fenomeno revanscista, si nota come questa vulgata riproponga degli schemi narrativi che affondano le proprie radici nella produzione legittimista ottocentesca[1].

«La dimensione traumatica del brigantaggio»[2] consente di comprendere i motivi della sua “duttilità” interpretativa. Pertanto, il seguente saggio mira a fornire una mappatura del dibattito contemporaneo sulle vicende del Sud Italia all’indomani dell’Unificazione, cercando di tracciare i maggiori contributi che la rilettura su questo periodo ha generato. Facendo riferimento sia alla produzione storiografica accademica, sia alla narrazione antirisorgimentale, si cercherà di delineare le posizioni assunte dalle rielaborazioni di questo fenomeno, che ne hanno permesso un revival all’interno del senso comune. In questo senso, si cercherà anche di illustrare in quali forme le vicende dei briganti abbiano valicato le barriere del mondo offline, sconfinando e conquistando l’immenso e intricato spazio fornito dalla dimensione online.

 

Un fenomeno dalla duplice interpretazione

La guerra di Francesco II per la riconquista del Regno delle Due Sicilie contro il neonato Regno d’Italia termina ufficialmente nel 1866, con la sconfitta dell’ultima resistenza armata legittimista. Immediatamente, la corte in esilio dell’ex monarca napoletano è protagonista di un’intensa attività letteraria incentrata sulla rievocazione mitologica del regno borbonico: «i vinti si identificarono nel ricordo dell’esperienza dell’estrema difesa del regno, includendo e sviluppando le narrazioni a cui avevano dato origine fino al 1866. La loro causa perduta diventò la rivendicazione di una dignità nazionale distrutta ma anche la sua consacrazione»[3].

La causa borbonica rielabora il decennio di resistenza antiunitaria attraverso una rilettura caratterizzata da un impianto nostalgico e vittimista. La pubblicazione di libri, giornali e opuscoli garantisce ai partigiani duo-siciliani di conquistare le simpatie degli ambienti reazionari europei: l’Unificazione italiana è descritta come una guerra non dichiarata che ha provocato lo sterminio della popolazione meridionale e la spoliazione di un regno prospero ed economicamente all’avanguardia. I briganti sono inseriti all’interno di questa narrazione mitologica con il ruolo di martiri della causa legittimista, brutalmente trucidati da un esercito invasore. Questa lettura è presente nella maggior parte degli scritti riconducibili ai circoli borbonici e ultracattolici, al cui apice possiamo porre le opere di Giacinto De Sivo, che diventano, nel corso del Novecento, la base su cui poggiare il recupero dei miti della «nazione napoletana»[4] e la reinterpretazione del brigantaggio in ottica reazionaria[5].

In controtendenza con le produzioni di fine Ottocento, i primi decenni del XX secolo sono distinti dalla lettura del brigantaggio come frutto della questione demaniale nel Mezzogiorno. Un primo lavoro organico compare nel 1922, prodotto dallo storico socialista Antonio Lucarelli. Il pionieristico saggio è redatto attraverso i documenti giudiziari che riguardano la banda del brigante Pasquale Romano, attiva dal 1860 tra la Terra di Bari e la Terra d’Otranto. Lo storico pugliese osserva il fenomeno del brigantaggio in relazione all’usurpazione delle terre effettuata dalla borghesia all’indomani dell’Unità, con la successiva dura repressione dello Stato, paragonando la guerra dei briganti alle agitazioni del biennio rosso[6].

L’interpretazione marxista del brigantaggio si salda nella storiografia nel secondo Dopoguerra, attraverso la riproposizione delle considerazioni di Antonio Gramsci sul Risorgimento, impropriamente ridotte alla definizione della lotta banditesca come «rivoluzione agraria mancata», utilizzata in maniera strumentale da molti scrittori appartenenti a questa corrente interpretativa[7]. Nel medesimo insieme storiografico si pone il lavoro del 1964 di Franco Molfese[8]. Il brigantaggio è considerato l’estrema lotta di un ceto contadino arretrato e male organizzato che cerca di riconquistare spazi di azione politica nella questione demaniale. Nonostante molte bande armate non abbiano come obiettivo principale la rivoluzione agraria, esse hanno nei ceti più bassi un serbatoio di adepti da reclutare. Infatti, sebbene le rivendicazioni contadine non sottendano le motivazioni del brigantaggio, queste fungono da spinta nell’affermazione di questo fenomeno come questione nazionale[9].

 

Il dibattito contemporaneo

Gli anni Settanta del Novecento segnano il ritorno della vulgata borbonica all’interno del dibattito culturale attraverso una serie di pubblicazioni. Il deputato missino Silvio Vitale e lo scrittore Carlo Alianello[10], già autore del romanzo a sfondo legittimista L’eredità della Priora nel 1963, fondano la rivista L’Alfiere, recuperando le tesi espresse soprattutto nelle opere di De Sivo e divenendo punto d’incontro intellettuale per i sostenitori delle tesi neoborboniche. Lo stesso Alianello, nel 1972, pubblica La conquista del Sud, volume in cui sono messi in risalto i presunti eccidi perpetrati dall’esercito “piemontese” nei confronti delle popolazioni meridionali, paragonando tali pratiche a quelle utilizzate dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale[11]. Questa questione apre successivamente un intenso dibattito sulla figura dell’antropologo criminale piemontese Cesare Lombroso, spesso accostato al medico tedesco Josef Mengele[12].

Gli anni Novanta e il crollo delle ideologie politiche rappresentate dai partiti politici della Prima Repubblica, segnano un nuovo momento di svolta per la vulgata neosudista. La presenza dei leghismi a Nord e la scomparsa del PCI lascia anche nella sinistra meridionale un vuoto politico, colmato con i tentativi di ricostruzione su basi localistiche. Infatti, si assiste all’avvicinamento delle fazioni gramsciane con quelle reazionarie, unite in un unico fronte meridionalista e autonomista[13]. Nel 1993 nasce il Movimento Neoborbonico, i cui fondatori affermano di ispirarsi alle tesi dei più importanti scrittori borbonici tra Otto e Novecento[14]. In questi anni, il panorama della contronarrazione risorgimentale è ulteriormente arricchito da nuove riproposizioni delle tesi della produzione legittimista tardo-ottocentesca: nel 1994 Antonio Ciano, politico locale di Gaeta, pubblica I Savoia e il Massacro del Sud; Alessandro Romano organizza, alla fine degli anni Novanta, una mostra dal titolo Briganti: eroi o malfattori, con l’intento di mitizzare la figura dei briganti, mostrandoli come martiri della causa meridionale e cercando un contatto empatico con il pubblico[15]. Un ulteriore apporto alla untold history del Risorgimento è fornito dalle pubblicazioni del giornalista calabrese Nicola Zitara, fondatore della rivista Fora e fautore della teoria secondo cui il Mezzogiorno sarebbe stato una colonia interna del Regno d’Italia.

Le tesi neoborboniche, già giunte sugli schermi televisivi con due sceneggiati – nel 1956 con L’Alfiere e nel 1980 con L’Eredità della Priora – si presentano sul grande schermo nel 1999 con la pellicola di Pasquale Squitieri, Li chiamarono … briganti. Il film riscontra un notevole insuccesso all’uscita nelle sale, ma attualmente deve la sua fortuna alle visualizzazioni ricevute sulla piattaforma YouTube: più di un milione[16]. La proiezione è incentrata sulle vicende del celebre bandito lucano Carmine Crocco[17], mitizzato e mostrato come un novello Robin Hood vittima di ingiustizie e liberatore del popolo meridionale dai soprusi dei “piemontesi”, raffigurati come uomini spregevoli e senza scrupoli.

Il nuovo Millennio e le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia vedono le tesi neoborboniche riproporsi nuovamente nel dibattito pubblico. Nel 2010, il libro Terroni del giornalista pugliese Pino Aprile inaugura una stagione di pubblicazioni polemiche nei confronti del Risorgimento. Il mito della prosperità del Mezzogiorno preunitario, connesso alla difficile congiuntura economica degli ultimi anni, rafforza la sua presa all’interno del senso comune, suscitando un diffuso revanscismo nel pubblico. Infatti, negli anni si susseguono numerose pubblicazioni che trasformano i briganti in eroi popolari e simboli delle rivendicazioni contemporanea, rileggendoli in ottica presentista. Tra questi volumi spiccano: Il sangue del Sud (2010) di Giordano Bruno Guerri; Carnefici (2016) di Pino Aprile; Briganti (2017) del giornalista Gigi Di Fiore; Savoia Boia! (2018) del saggista Lorenzo Del Boca. Questi contributi alla causa neomeridionalista sono accomunati dalla continua riproposizione delle tesi borboniche recuperate, nuovamente, dai testi di Giacinto De Sivo, Pietro Calà Ulloa e dalle pubblicazioni reazionarie-cattoliche intrecciate alle interpretazioni marxiste. Gli autori, privi di ogni base documentaria, tentano di ricreare miti e storie che hanno il solo scopo di “cavalcare” la rabbia e la frustrazione del Meridione, cercando nel Risorgimento la causa dell’arretratezza del Sud.

La storiografia ha cercato di frenare la narrazione mitologica sul brigantaggio, spinta anche dal riversarsi delle istanze neoborboniche sul piano politico: nel 2017, il Movimento 5 Stelle pugliese richiede, in Consiglio Regionale, di istituire una “Giornata della Memoria per le vittime meridionali del Risorgimento”, utilizzando le immagini dei briganti come exempla del genocidio delle popolazioni del Sud[18]. Pertanto, nel 2019 è pubblicato il lavoro più aggiornato sul brigantaggio meridionale realizzato da Carmine Pinto: La Guerra per il Mezzogiorno [19]. Sviluppando l’approccio interpretativo di Salvatore Lupo[20], il brigantaggio è riletto analiticamente come lotta interna nel Mezzogiorno che ha visto la società dividersi tra sostenitori del progetto unitario e legittimisti filoborbonici. L’intreccio tra il movimento patriottico, gli unitari meridionali e la monarchia sabauda è stato un elemento chiave per rovesciare la dinastia dei Borbone. I briganti sono stati l’estrema risposta della monarchia napoletana per riconquistare il potere, in quanto inizialmente tenuti a distanza da parte dell’establishment legittimista poiché considerati da sempre parte di un fenomeno delinquenziale. Pertanto, il brigantaggio non è riconducibile esclusivamente alla lotta di resistenza legittimista, ma è il frutto di una complessa commistione tra caratteristiche criminali e rivendicazioni sociopolitiche. Le nuove tendenze storiografiche decostruiscono ogni tentativo di mitizzazione di questa guerra, considerata un episodio drammatico nella storia italiana in quanto prima guerra civile combattuta nella Penisola. In questo senso, già il volume Borbonia felix (2013) di Renata De Lorenzo mostra l’inconsistenza metodologica della vulgata neoborbonica[21]. In tempi recentissimi si sono susseguiti ulteriori studi che hanno fornito ulteriori supporti alla corretta interpretazione del brigantaggio meridionale: le ricerche condotte da Giulio Tatasciore riguardanti la portata mediatica della figura del brigante ottocentesco; l’importante lavoro di Silvia Sonetti sulla demistificazione delle controverse vicende di Pontelandolfo e Casalduni, indicati come comuni martiri del Risorgimento[22].

Nonostante le risposte degli storici siano state puntuale e di peso, la vulgata neosudista è riuscita a calcificarsi nel senso comune e nel discorso pubblico grazie al web. Le fake news di carattere storico sono parte integrante della raffigurazione del brigantaggio in senso mitologico, infatti su Internet, specialmente nei social network, proliferano immagini e post che vengono condivisi ripetutamente. Il vecchio Regno delle Due Sicilie pare essersi ricostruito negli immensi spazi d’azione forniti dal mondo online. Infatti, sono sorte delle vere e proprie web communitiy, in cui vengono scambiate numerose informazioni che successivamente riescono a raggiungere un ampio numero di utenti. I cambiamenti portati dal digital turn consentono all’ “antirisorgimento” di poter affermarsi da fenomeno tradizionalmente di nicchia, confinato a piccoli circoli di nostalgici, a dimensione di massa, diventando un vero e proprio “prodotto” di consumo per il pubblico[23]. La proliferazione di contenuti digitale a carattere neoborbonico risponde alla “fame di storia” da parte della società. In questo senso, la costruzione di un passato mitico del Mezzogiorno preunitario consente all’audience di trovare, erroneamente, nel passato delle soluzioni a problemi del presente.


[1] M. P. Casalena (a cura di), Antirisorgimento. Appropriazioni, critiche, delegittimazioni, Edizioni Pendragon, Bologna, 2013.

[2] A. Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, in «Le carte e la storia», n. 2, 2015, p. 32.

[3] C. Pinto, Gli ultimi borbonici. Narrazioni e miti della nazione perduta duo-siciliana (1867-1911), in «Meridiana», n. 88, 2017, p. 66.

[4] A. Musi, Mito e realtà della nazione napoletana, Guida Editori, Napoli, 2015.

[5] S. Vitale, Gli scrittori borbonici dopo il ‘60, in «L’Alfiere», vol. 4, gennaio 1962, pp. 1-3.

[6] A. Lucarelli, Il sergente Romano. Notizie e documenti riguardanti la reazione e il brigantaggio pugliese nel 1860, Società tipografica pugliese, Bari, 1922. Sull’evoluzione degli studi di Lucarelli si veda: V. A. Leuzzi, A. Esposito (a cura di), Risorgimento, brigantaggio e questione meridionale, Palomar, Bari, 2010.

[7] A. Capone, Il brigantaggio meridionale, cit., pp. 33-34.

[8] F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano, 1964.

[9] In generale sulla lettura gramsciana del Risorgimento si veda: G. Vacca, Gramsci interprete del Risorgimento: una presenza controversa (1949-1967), in A. Bini, C. Daniele, S. Pons (a cura di), Farsi italiani. La costruzione dell’idea di nazione nell’Italia repubblicana, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 67-105.

[10] Sulla figura di Carlo Alianello, si veda la voce nel DBI, vol. 34 (1988): http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-alianello (sito consultato il 12/02/2021). Lo scrittore lucano è altresì autore di altri due romanzi a tinte antirisorigmentali: L’Al­fiere (1942), I soldati del Re (1952).

[11] C. Alianello, La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, Milano 1972.

[12] M. T. Milicia, Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso, Salerno Editrice, Roma, 2015.

[13] M. De Marco in S. Montaldo (a cura di), La risacca neoborbonica. Origini, flussi e riflussi in «Passato e presente», n. 105, 2018, pp. 26-31.

[14] Per approfondire: http://www.neoborbonici.it (sito consultato il 12/02/2021).

[15] M. T. Milicia in S. Montaldo (a cura di), La risacca neoborbonica cit., pp. 39-40.

[16] Li chiamarono Briganti – film completo, canale YouTube ONDA DEL SUD (sito consultato il 12/02/2021).

[17] Per una corretta lettura storiografica della vita di Carmine Crocco: E. Cinnella, Carmine Crocco. Un brigante nella grande storia, Della Porta, Pisa, 2016.

[18] G.L. Fruci, C. Pinto, El regreso de los Borbones. Reelaboraciones mitográficas y perspectivas políticas en el Mezzogiorno italiano, in «Ayer», n. 112, 2018 (4), pp. 317-334.

[19] C. Pinto, La Guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Laterza, Roma-Bari, 2018.

[20] S. Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli, Roma, 2011.

[21] R. De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editrice, Roma, 2013.

[22] G. Tatasciore, L’invenzione di un’icona borbonica: il brigante come patriota napoletano?, in «Meridiana», n. 95, 2019, pp. 169-194; Id, La fabbrica del criminale. Alexandre Dumas e le rappresentazioni del brigantaggio meridionale tra letteratura e politica, in «Società e storia», n. 156, 2017, pp. 269-303; S. Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019), Viella, Roma, 2020.

[23] C. Calefati, A. Fiorio, F. Palmieri, Storia e fake news: il caso del neoborbonismo, in «Ricerche di storia politica», n. 1, 2020, pp. 59-70.

Scritto da
Christopher Calefati

Christopher Calefati è assegnista di ricerca in Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Pavia. Ha ottenuto il dottorato in Storia presso l'Università di Pavia in cotutela con il Centre De Recherche en Histoire Européenne Comparée dell’Université Paris-Est. Si occupa di violenza politica, cultura visuale e dissenso alternativo nel Mezzogiorno d’Italia tra 1848 e seconda Restaurazione. Inoltre, ha studiato il fenomeno degli usi e abusi della storia nei circuiti crossmediali di massa, con particolare riferimento al neoborbonismo.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici