“Il Sultano e lo Zar. Due imperi a confronto” di Franco Cardini
- 03 Maggio 2020

“Il Sultano e lo Zar. Due imperi a confronto” di Franco Cardini

Recensione a: Franco Cardini, Il Sultano e lo Zar. Due imperi a confronto, Salerno Editrice, Roma 2018, pp. 280, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Giacomo Centanaro

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Operare una riflessione storica non significa solo elencare una serie di avvenimenti, ridotti a una dimensione bidimensionale, lungo la linea della Storia ma anche cogliere le continuità e le discontinuità, cercare delle ricorrenze, che possano essere utilizzate per capire il presente. Come numerosi pensatori hanno sostenuto, la Storia segue anche un moto circolare e, per certi versi, è anche “vendicativa”[1], e discipline come la geopolitica non mancano di sottolinearlo, portando esempi a sostegno di questa tesi con una certa frequenza. In questi anni la comunità internazionale sta assistendo alla conclamata manifestazione di un processo di ridefinizione caotica del sistema internazionale, che, dopo aver perso la sua rigidità, sta vedendo mutare anche alcune importanti certezze politiche. Il progressivo svanire dei riflessi della costruzione artificiale del blocco occidentale a guida statunitense e l’apparente ritiro verso una posizione più nazionale e, almeno formalmente, meno imperiale di Washington[2] hanno consentito che tendenze internazionali centrifughe potessero procedere con più rapidità. Se queste dinamiche destano stupore nel Vecchio Continente, è perché la memoria collettiva europea risente ancora in misura determinante dalla parentesi storica del confronto bipolare della Guerra Fredda; sarebbe però errato ritenerle innaturali, poiché trovano invece facilmente spazio nel disegno di lungo periodo della Storia. Questa, se indagata con lenti adeguate, fornisce risposte che permettono di razionalizzare un’apparente e improvvisa anarchia internazionale. In Il Sultano e lo Zar. Due imperi a confronto Franco Cardini, professore emerito di Storia medievale e studioso dei rapporti fra Cristianità e Islam, ripercorre con mano esperta il rapporto tra Russia e Turchia, due entità geopolitiche che, nonostante le loro varie mutazioni – anche se rivoluzionarie –, si concepiscono e si percepiscono a vicenda attraverso lenti che non sono dettate da un’ideologia preminente (nella concezione novecentesca) ma da secoli di collisione e di coabitazione in territori vitali per entrambe le potenze. L’analisi di questo saggio ha il suo epicentro nelle aree di conflitto tra le ambizioni degli eredi dei rus e delle tribù nomadi turcofone dell’Asia Centrale, cui spesso si sono affiancate e intromesse altre potenze, dalla Serenissima ai khanati del Turkestan, dalla Gran Bretagna agli shah persiani. Come Cardini specifica nell’introduzione del saggio, facendo riferimento al summit di Sochi del 30 gennaio 2018 tra i rappresentanti di Russia, Turchia e Iran, dedicato alla soluzione della crisi siriana, la geografia degli attori che continuano a influenzare radicalmente la vita di uno degli scacchieri internazionali più critici (il Medio Oriente) e delle linee di faglia in questa regione non sono poi molto diversi da quelli dei secoli precedenti. “Mosca, Ankara, Teheran si guardavano fino a ieri in cagnesco: avevano motivi davvero così radicati nei loro confini e interessi contrastanti per farlo? O la causa della loro inimicizia era collegata (al di là di profonde ragioni geostoriche) alla vecchia gestione/mediazione statunitense e giustificata solo da essa?” (p.15), forse questo “vuol dire semplicemente che i paesi euroasiatici […] stanno imparando a guardarsi negli occhi tra loro” (p.15).

Attraverso un excursus ricco e puntuale, capace di individuare i punti salienti di un’evoluzione lunga quasi seicento anni, Cardini ricostruisce le radici e le evoluzioni del potere politico che oggi vediamo incarnato dalla Federazione Russa e dalla Repubblica di Turchia. La politica si serve e si nutre principalmente di simboli, e guardando all’aquila bicipite russa o alla falce di luna crescente turca ne abbiamo una prova inconfutabile. Non solo simboli ma anche miti fondativi, una credenza coltivata e condivisa dalle élite di una comunità che aspira alla potenza[3]. L’opera si divide in quattro, densi, capitoli: L’impero dei sultani, L’impero degli zar, Il secolo degli imperatori e Il grande gioco. Ognuno di questi non tratta esclusivamente di un singolo soggetto politico o di una limitata arena di scontro, ma anche del più ampio contesto storico – dedicando sempre doverosi spazi all’evoluzione di cultura e percezioni degli attori in campo – e delle evoluzioni sistemiche che hanno influenzato il focus della ricerca. Parallelamente ai fulcri della ricerca vengono trattate evoluzioni “periferiche” come la contesa coloniale tra Francia e Gran Bretagna, le conseguenze dell’epopea napoleonica, le raffinate politiche di mantenimento della bilancia di potere in Europa e la proliferazione di autorità “imperiali” nel tardo Ottocento europeo; questi e altri tasselli della trattazione non verranno strettamente considerati in questa recensione, per semplici ragioni di spazio.

Il primo capitolo si apre con il mito turco della “Mela Rossa”, ideale conquista che avrebbe ricoperto di gloria chi fosse riuscito nell’impresa e che avrebbe rappresentato il punto di arrivo della potenza ottomana. La mirabile conquista era individuata primariamente nella città di Costantinopoli, per poi incarnarsi successivamente in Roma, Mosca, Vienna o Isfahan. Fino al 1453 la leggenda riguardava il globo dorato sorretto dalla mano della statua dell’imperatore Giustiniano, posta di fronte a Santa Sofia ma, quando questa fu distrutta, il mito trasmigrò ad occidente, a Roma. La conquista dell’Urbe “avrebbe coinciso con la totale e definitiva vittoria dell’Islam sul mondo” (p.18). Vengono poi ripercorse le incerte origini della mezzaluna crescente, in arabo hilal, forse passata all’intero mondo musulmano (che in qualche misura la adottava già da prima) dopo essere stato accolto dai sultani ottomani che, forti di un potere politico secolare con la pretesa di essere universale, assunsero anche la somma autorità califfale che avrebbero mantenuto fino al 1923. La trattazione prosegue poi con la descrizione del grande passo fatto dal sultano Mehmet II, che nel 1453 conquistò finalmente la Nuova Roma divenendo, grazie al diritto di conquista, erede del richiamo imperiale e universalistico del potere dei basileus bizantini che ancora nel XV secolo si definivano “romani” e che come tali erano considerati dai turchi. Gli ottomani quindi ereditavano ben più di una leggendaria metropoli, rivestendosi di nuovi e più vasti interessi politici, che nelle aspirazioni di Mehmet si andavano a sommare al dominium mundi, già presente nel patrimonio immaginario ottomano grazie all’eredità del modello della monarchia sacra universale di Gengiz Khan e della sua stirpe. In quegli anni si diceva già che “la mano del Sultano” che governava l’Impero fosse composta dalle “cinque dita”, ossia le cinque etnie principali che abitavano la capitale e gli immensi territori che vi facevano riferimento: turchi, arabi, armeni, greci ed ebrei (p.33).

Se la religione costituiva un fondamentale pilastro di legittimazione, è tuttavia fuorviante immaginare le dinamiche internazionali della fine del XV secolo come uno scontro frontale e diarchico tra la Cristianità occidentale e l’Islam orientale, e Cardini lo dimostra svelando al lettore una grande complessità. Nel 1454, quando fu stipulato un nuovo contratto tra la Repubblica di San Marco e il sultano, questi “si guardò bene dal rimproverare i veneziani perché alcuni di loro avevano combattuto nell’aprile-maggio dell’anno prima tra le fila dei difensori; una decina di anni più tardi, il volume d’affari fra il sultanato ottomano e la repubblica di San Marco era del tutto superiore a quello registrato fra essa e Bisanzio nell’ultima fase della vita dell’Impero” (p.27). Mehmet II, inoltre, non era l’unico a fare considerazioni riguardo a una possibile continuità imperiale con l’ultimo cristianissimo cesare, e “fior di studiosi e di ecclesiastici cristiani la pensavano esattamente come lui e non mancavano di scriverlo, incoraggiandolo a proseguire sulla via dell’imitatio Alexandri e ad assumere senza esitare il governo del mondo”. Il cardinale Nicola da Cusa sosteneva che “il sultano sarebbe divenuto pari agli imperatori di Roma, pertanto loro successore legittimo, se solo avesse compiuto il piccolo passo che separa i musulmani dai cristiani, entrambi fedeli di religio una al di là della rituum varietas” (p.30). Pochi anni dopo veniva superato dall’amico Papa Pio II che nel 1461 nella Epistola ad Mahometem spingeva il sultano ad accettare il battesimo, poiché poche gocce di acqua santa gli sarebbero valse il dominio del mondo; nell’epistola si diceva che il sultano era “incommensurabilmente più grande dei re cristiani, e aveva perciò diritto ad aspirare alla successione degli imperatori romani” (p.31). Il capitolo prosegue, descrivendo i cambiamenti della postura dell’Impero ottomano fino al suo punto di massima espansione e potenza intorno alla fine del XVII secolo; sono secoli cruciali e decisivi per la formazione e rafforzamento dell’identità imperiale. Dagli inizi del XVI secolo, per esempio si affermano alcune costanti, come l’ascesa del corpo militare dei giannizzeri come base imprescindibile per il potere di ogni sultano (almeno fino al 1826), l’amicizia per gli ebrei – preziosi sudditi spesso scampati, come amavano sottolineare, dalla crudeltà dei principi cristiani –, la costante diffidenza verso i cristiani ortodossi (quando mostravano simpatia verso il minaccioso protettore moscovita) e verso i “latini”, che però sarà spesso interrotta da momenti di particolare amicizia con la Serenissima, che poteva influire nell’anticamera del potere sultaniale grazie a un nutrito gruppo di influenti espatriati, e soprattutto con il “cristianissimo” Regno di Francia.

Quello ottomano si afferma come un grande impero multietnico, che riconosce forme di autogoverno alle comunità non musulmane (il sistema dei millet) accanto alla struttura “centrale” e le cui politiche sono elaborate nelle stanze ovattate del Topkapi Saray attraverso processi arbitrari, in cui le fazioni di consiglieri, visir e membri della famiglia reale si contendono il potere di influenzare l’indirizzo politico. Sono secoli in cui i signori della Sublime Porta si succedono numerosi, spesso attraverso sanguinose congiure di palazzo che in molti momenti sembravano diventare una triste consuetudine. Non è possibile passare in rassegna qui l’avvicendarsi dei sultani e l’analisi delle loro scelte militari e diplomatiche che hanno riguardato scacchieri strategici che vanno dalla pianura ungherese al Caucaso e dal Mar Nero a quello Rosso, ma è necessario riportare almeno del più illustre dei sovrani ottomani: Solimano il Magnifico, come è conosciuto sull’altra sponda del Mediterraneo, al-Qanuni, “il Legislatore”. “Egli è il primo (e per moltissimi l’unico) vero califfo dell’umma dopo la morte dell’abbaside al-Mustasim nel 1258 a Baghdad” (p.37), incarnò meglio di chiunque altro esponente della dinastia ottomana il disegno imperiale, e persino in Occidente c’era chi era disposto a riconoscerlo entusiasticamente dominus mundi. Stabilì un’insolita quanto stabile relazione con il re di Francia Francesco I cui vennero riconosciuti “importanti privilegi commerciali e con specifici patti detti Capitolazioni, riconobbe come protettore dei cristiani di Gerusalemme e di Terrasanta” (p.38) – un ruolo di grandissima importanza politica che nei secoli seguenti si sarebbero contesi in molti – e col tempo la Francia diventò l’interlocutore europeo privilegiato della Porta, l’unico a veder attribuito al proprio re dalla diplomazia ottomana il titolo di padishah, rispetto agli altri sovrani europei di “seconda classe” (p.50). Il capitolo si conclude sulle note della disperata ritirata ottomana dal fallito assedio di Vienna del 1683 e su nuovi segnali di inquietudine per Istanbul: un nuovo contendente si era affacciato sul Mare d’Azov e alla foce del Don.

Nel secondo capitolo, Cardini traccia un excursus della nascita del potere zarista, di come i principi moscoviti siano riusciti a unire una moltitudine di città della Russia europea, costituire il nucleo fondativo del potere degli “autocrati di tutte le Russie”, riscattarsi dai khanati posti a est e a sud, verso la foce del Volga e l’Astrakan, e imporsi come una delle più longeve entità politiche della Storia, capace di rendere palpabile e riconoscibile la propria eredità anche ai giorni nostri. Questo processo ha origine nell’opera dell’ambizioso principe di Mosca Ivan (1284-1341) che, grazie a un realismo senza scrupoli, riuscì a incrementare il proprio potere a discapito dei suoi avversari, prima russi, poi tartari. Per sancire la sua egemonia, fece “trasferire la sede del metropolita di Russia da Vladimir a Mosca, della quale ottenne il titolo di gran principe” (p.65), una scelta che avrebbe avuto enormi conseguenze per la storia russa, la prima affermazione della coabitazione nello stesso centro del potere temporale e spirituale. Questo elemento si vide con chiarezza nell’opera del metropolita Alessio che, a cavallo della metà del XIV secolo, sostenne l’erede al trono Dmitrij, animato come era “dalla volontà di attuare un preciso e ambizioso programma: l’unificazione in un solo principato di tutti gli slavi orientali ortodossi sotto l’egemonia di una città, Mosca, appunto, che avrebbe dovuto acquistare agli occhi dei fedeli russi un carattere congiunto di potenza e santità” (p.66). Il passo decisivo verso la fondazione della Russia moderna fu compiuto da Ivan III “il Grande”, che, parallelamente a ciò che Mehmet II aveva fatto, nutrì le proprie ambizioni a partire dalla caduta di Costantinopoli, riformulando con audacia la dottrina del metropolita Alessio. Nel 1472 sposò Sofia Paleologa, figlia dell’ultimo basileus di Bisanzio Costantino XI, e in virtù di questa unione acquisì il diritto di fregiarsi del titolo di Caesar, che negli idiomi slavi suonava come zar. Dalla Terza Roma (Mosca), Ivan III riteneva di poter “considerarsi e proclamarsi autocrate, come tutti i suoi successori si sarebbero considerati e proclamati fino a Nicola II Romanov” (p.68). La volontà di “rivendicazione totale e globale dell’eredità dell’impero di Bisanzio” fu evidente nell’adozione di un’aquila bicipite nel nuovo sigillo di Stato, nel sostegno all’autorità del metropolita di Mosca come prima autorità delle Chiese ortodosse di tutta la Russia e nella “rivendicazione dei simboli culturali che del patriarcato di Costantinopoli erano caratteristici” (p.71). Gli elementi avversi al potere autocratico vennero sistematicamente rimossi e l’alone sacrale dello zar e la stretta subordinazione al sovrano da parte del clero favorirono l’instaurazione di un solido potere sovrano.

Dopo aver enucleato le importanti origini del potere della Terza Roma e narrato le alterne fortune degli zar durante l’espansione dei loro domini, fronteggiando sia i khanati in decadenza, sia le efficienti armate svedesi, un altro centro focale del libro è dedicato alla fondazione della Russia come grande potenza, europea ma non solo. Nella Storia si accavallano lunghi processi, ma a volte è possibile individuare importanti discontinuità, che segnano i secoli a venire con le loro conseguenze: il regno di Pietro il Grande è di esempio. È con lui che l’impero diventa uno Stato burocratico, europeizzato nei mezzi ma non nella visione del mondo; un impero continentale che acquisisce nuove visioni strategiche e percezioni di sé: “interessato al Caucaso e all’area dell’Asia Centrale nonché a quel Mediterraneo al quale già sognava di aver accesso attraverso due strade, quella marittima dei Dardanelli e quella terrestre dei Balcani. La potenza russa giocava, per questo, su vari tavoli…” (p.78) e la portava a entrare in complesse reti di alleanze e opposizioni nei quadranti più diversi, che si estendevano da quello balcanico ai Luoghi Santi di Gerusalemme. L’attivismo di Pietro fece della Russia un soggetto ingombrante, che molti avevano la percezione incombesse sull’Europa e sulle ricchezze dell’Oriente e che coltivasse costantemente aspirazioni di potenza; se ne ha una dimostrazione in un documento apocrifo, forse opera di circoli polacchi o ucraini, strumentale alla propaganda napoleonica, che entrò nella storia e ritornò ciclicamente nelle discussioni politiche europee. Il Testamento di Pietro il Grande, espressione di un profondo sentimento russofobo, sarebbe stato un promemoria di azione dello zar per i suoi successori, in cui era elaborato il progetto di dominio del mondo che avrebbe condotto le armate russe fino all’India e all’Atlantico. La zarina Caterina II, tuttavia, ben aveva dimostrato la capacità di proiezione del potere russo quando spinse la sua flotta a salpare dall’estremo nord del Baltico e a dirigersi nel Mediterraneo orientale, dove nel 1770, presso l’isola di Chio, l’intera flotta sultaniale fu distrutta, lasciando mano libera ai russi che poterono occupare Beirut per sei mesi e bombardare i porti siriani, mentre un esercito sconfiggeva ripetutamente gli ottomani nell’attuale Romania. Cardini sostiene come stesse prendendo forma, nella mente della zarina, “un immenso progetto universale: la Terza Roma avrebbe dominato l’impero della Nuova Roma, dopo averlo fatto risorgere, e si sarebbe collocata al centro di un dominio immenso, dal Pacifico alla penisola balcanica e al Baltico attraverso la Siberia e dal Mediterraneo oltre il Caucaso fino al Caspio” (p.128).

Nel frattempo, Istanbul aveva sperimentato gli inizi di una lenta e sofferta revisione del proprio ruolo in un sistema internazionale in cui, un tempo, non riconosceva pari. La Porta era entrata definitivamente nel gioco diplomatico delle potenze europee e questo implicava il fatto di non potersi più negare ai confronti con l’Occidente e un “abbandono, sia pur sulle prime implicito e inconscio, dell’idea di superiorità assoluta dell’Islam sulle altre culture” (p.102). Come l’autore descrive con molti particolari, i due mondi, le due società, stavano iniziando a conoscersi sempre meglio, in ogni dimensione e campo esistente. Questo processo di “normalizzazione” si affiancava già nel XVIII secolo alle prime riflessioni su una chirurgica spartizione dell’Impero per eliminare una pericolosa fonte di instabilità, che precorrevano di un secolo le considerazioni ottocentesche sull’ “uomo malato” (p.101). Nell’analizzare i lunghi cicli di riforme e di stagnazione che si susseguirono nel governo di Istanbul, Cardini riflette su come il primato europeo fosse scaturito da una rivoluzione socioeconomica e tecnologica che si era fondata sulla superiorità militare, in un sistema di governo, di politiche fiscali, industriali e di investimento che erano concepite in funzione dello strumento militare. Cardini ci mette tuttavia in guardia dal pensare che l’idea di una decadenza ottomana fosse scontata e diffusa anche all’epoca, per quanto all’interno del ceto dirigente e intellettuale ottomano si andasse diffondendo un pensiero “declinista” che attribuiva alla decadenza morale dell’impero le sue sconfitte (p.122). La modernizzazione attraverso l’adozione della tecnica occidentale rappresentava una questione anche eticamente e ideologicamente dolorosa: così la classe dirigente e la società civile ottomana si ritrovarono impreparate di fronte ai rapidi cambiamenti che le tarde, impegnative e costose riforme affrontarono a volte solo superficialmente e che avevano visto alcuni cauti tentativi già con Selim III (1789-1807).

L’ultimo scenario analizzato da Cardini è quello del “Grande Gioco” o “Torneo delle Ombre”, che tra metà Ottocento e i primi due decenni del Novecento, vide la diplomazia, le armate, ma molto più spesso i servizi segreti di Russia e Gran Bretagna contendersi l’immenso “forziere” asiatico. Dal Caucaso all’Hindu Kush, le due potenze cercarono affermare i propri interessi, fossero la conquista di nuove terre fertili e la messa in sicurezza di ampi territori (Russia) o la garanzia che nessuna minaccia potesse affacciarsi sull’India, il più prezioso gioiello della corona imperiale britannica. Le due potenze europee dovevano confrontarsi con gli eccentrici, spesso sanguinari e pittoreschi (ma non sprovveduti) signori di immobili khanati in declino, fiere tribù nomadi e condottieri crudeli e imbevuti di misticismo (si veda la storia del Barone Roman von Ungern-Sternberg). Fu anche l’occasione per l’impero russo di sperimentare un proprio sistema “coloniale” su territori e popoli del Turkestan, che sarebbero rimasti a lungo legati, direttamente o indirettamente, agli interessi di Mosca. In questa contesa sconfinata l’Impero ottomano non riusciva a sfruttare la sua autorità califfale come longa manus diplomatica per influire sui destini dei nomadi musulmani sunniti. Le vicende ottomane avrebbero però interessato ancora i mutevoli equilibri delle steppe centroasiatiche e gli echi della definitiva sconfitta di Istanbul arrivarono anche lì. Enver Pasha aveva retto i destini del governo ottomano durante i duri anni della Prima guerra mondiale ed era riuscito a fuggire nel novembre 1917 prima a Odessa, per poi finire a Mosca nel 1920, dove, al servizio di Lenin, si incaricò della difficile risoluzione della situazione in Asia Centrale. Una parte segnante della sua formazione si era svolta nella Germania di Guglielmo II, dove era diventato “un fervente ammiratore del pangermanesimo tedesco e andò ponendosi il problema dei modi e degli strumenti attraverso i quali avrebbe potuto affermarsi nel mondo turco qualcosa di simile” (p.224); egli aderì quindi all’ideologia panturanica, che proponeva l’unione di tutti i popoli ugro-finnici (dall’Ungheria al Turkestan), cui unì il fervore per la fede islamica. Una volta sul posto, però, Enver disertò l’Armata Rossa e raggiunse gli insorti musulmani, per proclamare il jihad contro i bolscevichi atei fregiandosi del titolo di “Comandante in capo di tutte le armate dell’Islam, congiunto del califfo, inviato del Profeta”. Il 4 agosto del 1922, qualche mese prima che il sultanato venisse soppresso e proclamata la repubblica in Turchia, Enver Pasha cadde guidando una carica suicida contro le mitragliatrici sovietiche. Anche con questo episodio, simbolicamente, si chiudeva e svaniva un’era.

Il minuzioso testo di Cardini si conclude con una riflessione sugli spazi cruciali della geopolitica internazionale negli ultimi secoli: “dalla fine del Seicento questo spazio è stato il cuore geopolitico del mondo, l’area nella quale si è svolto il Grande Gioco degli imperi” (p.231) e gli eventi degli ultimi anni ci confermano come ancora oggi tra le coste del Mediterraneo orientale e le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale la partita si stia ancora giocando. Il precipitoso e rapace smantellamento della compagine ottomana gettò i semi per l’insicurezza e l’instabilità che affliggono la regione vicino orientale e “da questa pesante eredità – conclude Cardini – in un mondo che all’indomani dell’unilateralismo del nuovo impero americano […] si trova senza più imperatori ma con troppi padroni […] e troppissimi poveri, non siamo ancora riusciti a liberarci”. La Storia, dicevamo all’inizio, sa essere vendicativa.


[1] Bruno Tertrais, La Revanche de l’histoire, Odile Jacob, Parigi 2017.

[2] Germano Dottori, La visione di Trump, Salerno Editrice, Roma 2019.

[3] Lucio Caracciolo “Tutti i miti portano a Roma” in Limes, 2/2020.

Scritto da
Giacomo Centanaro

Laureato presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze. Ha conseguito titoli post-laurea presso l’Università LUISS di Roma e ha completato un periodo di studio presso l’Université Paris 1 Pantheon-Sorbonne. È stato coordinatore del Limes Club Firenze ed è alumno della Scuola di Politiche.

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