Scritto da Giacomo Bottos
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Flaviano Zandonai è Open innovation manager Gruppo Cooperativo CGM.
Quali erano i principali obiettivi della centralità data a livello europeo al concetto di economia sociale con iniziative come il Social Economy Action Plan?
Flaviano Zandonai: Quello che rappresentava una delle maggiori speranze legate alla policy europea era il tentativo di integrare l’economia sociale all’interno delle principali filiere industriali ed economiche del continente. Questo è stato, in effetti, uno degli obiettivi perseguiti, in particolare attraverso il concetto di economia di prossimità. È stato infatti creato un cluster a livello di Unione Europea che richiama fortemente l’economia locale, quella delle piccole e medie imprese, un’economia più inclusiva e radicata nei territori. Per certi versi, è un ambito vicino a quello dell’economia sociale, anche se forse si sarebbe potuto estendere il ragionamento ad altri grandi temi strategici. Per quanto mi riguarda, la principale aspettativa era proprio questa, cioè vedere l’economia sociale parte integrante del modello di sviluppo europeo nel suo insieme, e capire se fosse davvero in grado di trasformarlo dall’interno. Più in generale si può dire che, nel corso dei decenni, le istituzioni europee abbiano cercato di individuare una definizione adeguata per quello che possiamo chiamare il “terzo pilastro” su cui poggia la società europea – oltre allo Stato e al mercato. E non si tratta solo di una questione semantica, ma di una ricerca che implica anche una precisa declinazione politica. Nel tempo si sono alternate diverse formule ed etichette: si è parlato prima di Terzo settore, poi di impresa sociale, o ancora in senso più ampio di imprenditorialità sociale. Più di recente, si è recuperata una definizione più tradizionale, potremmo dire quasi di ritorno all’ordine, fondata sulle forme giuridiche classiche dell’economia sociale: associazionismo, cooperazione, filantropia. Su questa base, però, è stato compiuto lo sforzo ulteriore, significativo, di inserire l’economia sociale all’interno delle politiche di sviluppo europee, per valutarne l’impatto sia sul modello economico generale, sia sull’economia sociale stessa. Finora, quest’ultima è risultata particolarmente presente solo in alcuni Paesi e in specifici settori. Il tentativo, dunque, era quello di rimetterla in gioco in modo più trasversale e sistemico, per verificarne la portata trasformativa.
Quali sono le differenze culturali nella percezione dell’economia sociale all’interno dei diversi contesti europei? Come viene recepita questa etichetta nei vari Paesi?
Flaviano Zandonai: Questo è un tema molto interessante. Non sono aggiornato sul contesto europeo come un tempo, ma ricordo bene che uno dei nodi principali riguardava la possibilità stessa di parlare di economia sociale – e in particolare di cooperazione – nei Paesi dell’Europa orientale. In quei contesti, il termine “cooperazione” era fortemente compromesso, perché associato ai regimi comunisti del passato. Rimettere in gioco questo concetto richiedeva una particolare attenzione: già negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, se si andava, ad esempio, in Polonia o in altri Paesi dell’Est, era necessario specificare a che tipo di cooperazione ci si riferiva. Per molti, questo termine evocava direttamente il vecchio sistema. D’altro canto, ci sono realtà europee dove il concetto di economia sociale è ormai consolidato. La Spagna, ad esempio, dispone da tempo di una legge quadro sull’economia sociale. La Francia non solo ha una sua normativa, ma spesso affianca anche il concetto di “economia solidale”, creando così un quadro culturale più articolato. Questo dimostra che l’Unione Europea ha cercato, su questo tema come su molti altri, di trovare un’etichetta comune, armonizzandola con tradizioni giuridiche e culturali molto diverse tra loro. Per questo, soprattutto nei primi anni, sono stati finanziati numerosi progetti di ricerca, mappature, iniziative di riconoscimento delle caratteristiche comuni. Quello di costruire una base condivisa partendo da contesti molto eterogenei è stato e resta un aspetto cruciale.
Qual è stata la risposta del mondo dell’economia sociale in Italia rispetto all’iniziativa europea? Quali sono stati gli atteggiamenti e i posizionamenti principali?
Flaviano Zandonai: In Italia negli ultimi dieci anni si è investito molto sull’etichetta di “Terzo settore”, che però non coincide con quella di economia sociale. L’economia sociale, infatti, ha un perimetro più ampio, perché include tutta la cooperazione, mentre il Terzo settore comprende soprattutto, o quasi esclusivamente, la cooperazione sociale e altre forme d’impresa sociale. La differenza è rilevante perché parlare di economia sociale significa includere, ad esempio, le grandi cooperative di consumo, le banche di credito cooperativo, le cooperative di produzione e lavoro. Inoltre, l’economia sociale è una sorta di contenitore di forme giuridiche differenti, che trovano un terreno comune nel loro posizionamento come alternativa, almeno potenziale, all’economia capitalistica tradizionale. Tuttavia, non mi pare che in questi anni si sia riusciti a costruire un’identità condivisa e una missione comune tra i soggetti che vi rientrano. Al di là della funzione “alternativa” al capitalismo, manca spesso una definizione chiara di quali siano le missioni trasformative che l’economia sociale dovrebbe perseguire. In parte, questo lavoro sta cominciando a essere fatto grazie ai piani di azione: uno dei casi più emblematici è il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna, che definisce l’economia sociale ma la collega anche a missioni attuali e urgenti – dall’abitare ai sistemi di welfare. Per anni l’etichetta “economia sociale” ha avuto un certo valore simbolico, ma è rimasta priva di una connotazione forte sul piano delle finalità specifiche. Ancora oggi, non è chiaro quanto i vari soggetti si riconoscano reciprocamente come parte di un’unica economia sociale: le cooperative si riconoscono nell’associazionismo? La filantropia si riconosce nella cooperazione, e viceversa? C’è ancora molto da fare sul piano della coesione interna e della costruzione di un’identità comune. In questo senso, i piani strategici che incorporano missioni concrete possono rappresentare un passo in avanti decisivo. Altrimenti, il rischio è che la definizione resti astratta e poco operativa.
Il Terzo settore, in Italia, ha una lunga storia e una struttura normativa ben definita. Come ha reagito questo mondo all’introduzione, più recente, dell’etichetta di economia sociale come asse centrale nelle politiche europee?
Flaviano Zandonai: Mi sembra che il Terzo settore, oggi, sia fortemente concentrato su aspetti di compliance normativa. Gran parte dell’attenzione si è rivolta all’attuazione della riforma, con tutte le complessità legate alla sua applicazione: dalla costruzione del Registro Unico del Terzo Settore alla modifica degli statuti, fino a questioni prettamente legali. L’economia sociale, invece, ha seguito fin da subito un percorso diverso, più orientato al policy making. Mentre il Terzo settore è rimasto perlopiù impegnato in un lavoro di adeguamento normativo, l’economia sociale si è mossa per costruire politiche pubbliche, per definirsi attraverso la propria capacità di contribuire allo sviluppo. L’unico ambito in cui anche il Terzo settore ha trovato una chiave di sviluppo è quello dell’amministrazione condivisa – co-programmazione e co-progettazione – che può rappresenta oggi un’importante area di innovazione, nonostante i limiti evidenziati dalle prime sperimentazioni in tal senso.
Quindi l’amministrazione condivisa può essere un punto di convergenza tra Terzo settore ed economia sociale?
Flaviano Zandonai: Esattamente. Potrebbe diventare un terreno d’incontro reale. Da un lato abbiamo un’economia sociale fortemente orientata al policy making, dall’altro un Terzo settore che, se vuole andare oltre le modifiche tecniche e normative, ha nell’amministrazione condivisa uno degli strumenti più promettenti per generare sviluppo. È, a mio avviso, il motore più concreto e praticabile che ha oggi a disposizione. E proprio lì potrebbe avvenire una saldatura interessante tra i due mondi.
Nel Piano d’azione europeo per l’economia sociale, il perimetro include cooperative, imprese sociali, ma anche associazioni e fondazioni. Tuttavia, negli ultimi tempi, sembra che l’attenzione a livello europeo si sia affievolita: la nuova Commissione ha eliminato l’unità dedicata all’economia sociale nella DG Grow. Si tratta di un ridimensionamento o siamo in una fase interlocutoria, aperta a nuovi scenari?
Flaviano Zandonai: Credo che siamo in una fase interlocutoria. È vero, c’è stato un ridimensionamento, soprattutto a livello organizzativo, in quanto la struttura che avrebbe dovuto favorire l’integrazione dell’economia sociale in altre aree di policy è venuta meno. E questa è una perdita significativa. Tuttavia, esistono ancora agganci rilevanti all’interno delle politiche europee. Ad esempio, la presenza dell’economia sociale nella Direzione Generale per l’Occupazione è stata mantenuta, e non è un dettaglio secondario. In questi anni, infatti, il legame tra economia sociale e inserimento lavorativo, soprattutto per persone svantaggiate o con disabilità, è stato centrale. Si potrebbe però fare un passo oltre e chiedersi: l’economia sociale contribuisce davvero alla creazione di “lavoro dignitoso”? Qual è il suo ruolo in termini di qualità dell’occupazione, non solo di inclusione?
C’è poi un’area rafforzata, che è quella dell’abitare e delle infrastrutture sociali. Su questo fronte è stato nominato un commissario specifico, e mi sembra una scelta promettente. Si tratta ora di capire come valorizzare il contributo dell’economia sociale anche in questi ambiti. Infine, ci sono opportunità da esplorare sulle grandi transizioni in corso, penso a quella digitale e a quella ambientale. È interessante chiedersi quale ruolo possa giocare l’economia sociale nella digitalizzazione, ad esempio. Insomma, non c’è stato un azzeramento, ma piuttosto una ridefinizione degli spazi, con la perdita di un presidio strategico ma anche con nuove possibilità di innesto, se si sapranno cogliere.
L’esperienza del Piano metropolitano di Bologna mostra come la dimensione urbana possa avere una rilevanza significativa per l’economia sociale. A suo giudizio, il livello territoriale può diventare davvero una scala efficace per promuovere ecosistemi strutturati e non solo semplici cornici descrittive? Quali strumenti servono per far sì che esperienze come quella di Bologna siano replicabili e abbiano impatto?
Flaviano Zandonai: Il caso di Bologna è senz’altro interessante, ma anche città come Torino e Milano si stanno muovendo su questo fronte. Personalmente, trovo molto promettente questa dimensione urbana, perché, in fondo, l’Europa è un continente di città medio-piccole. Certo, ci sono le grandi metropoli, ma un possibile modello europeo potrebbe davvero nascere ripartendo da queste città intermedie, evitando di concentrarsi solo sulle cosiddette “città alfa”, spesso orientate a logiche più estrattive che inclusive. Per un Paese come l’Italia, fatto di questo tipo di città medio-piccole, questa impostazione sarebbe ancora più coerente. Anche perché l’Unione Europea, in questi anni, ha investito moltissimo sulle città soprattutto tramite i fondi per la rigenerazione urbana. La dimensione urbana è quindi già un terreno fertile, sia in termini di risorse che come spazio di innovazione sociale.
La vera sfida, però, è capire fino a che punto l’economia sociale riesca a diventare una politica trasversale. Certamente la si può applicare al welfare, ma ci sono altri ambiti in cui potrebbe fare la differenza, come la prossimità in chiave urbana, la cultura, l’abitare. Modelli come la “città dei 15 minuti”, che ci hanno affascinato per un po’, potrebbero trovare nuova linfa se riletti attraverso l’economia sociale. Più questa logica diventa trasversale, meglio è. Però serve anche una volontà politica forte. A Bologna, ad esempio, ho visto molto attivismo da parte dei funzionari e delle tecnostrutture, che sono fondamentali, ma in generale mi sembra manchi una presa politica diretta. È abbastanza raro, ad esempio, vedere un consigliere o un assessore che abbia fatto dell’economia sociale un vero cavallo di battaglia. Sarebbe invece importante vedere questo tema entrare nelle coalizioni elettorali, con il moltiplicarsi di deleghe specifiche e visioni strategiche. Ho visto, ad esempio, la nuova sindaca di Genova porre al centro temi come politiche giovanili, welfare e decentramento dei servizi: ecco, se tutto questo si accompagnasse a una solida strategia di economia sociale, si potrebbero davvero tenere insieme una pluralità di azioni necessarie allo sviluppo dei territori.
Come si può concretamente costruire una strategia trasversale alle politiche pubbliche a partire dall’economia sociale?
Flaviano Zandonai: Oggi lo strumento più efficace per farlo è senza dubbio l’amministrazione condivisa; un grimaldello che può essere applicato ben oltre il perimetro classico delle politiche sociali. In realtà, la norma sul Terzo settore lo consente in molti altri ambiti, dalla rigenerazione urbana, alla cultura, all’ambiente, all’agricoltura, al turismo. Certo, sempre con una declinazione sociale, ma l’ambito è molto più ampio di quanto si pensi. Più si riesce a rendere trasversale questa modalità, più è possibile intervenire su vere politiche di sviluppo. A quel punto, però, serve anche la capacità di gestire i processi in modo solido. Una cosa è fare amministrazione condivisa per un piccolo servizio in un quartiere; un’altra è usarla per strutturare, ad esempio, un’offerta turistica a finalità sociale in città che soffrono di overtourism. In casi come questi, diventa necessario coinvolgere attori diversi, settori diversi, e dotarsi di competenze all’altezza della complessità.
Parlare di economia sociale implica anche un cambiamento culturale nella pubblica amministrazione. Che tipo di trasformazioni richiede, secondo lei, sia sul piano amministrativo che politico?
Flaviano Zandonai: Sì, c’è sicuramente una sfida culturale. Ne parlavo recentemente al Festival dell’Economia di Trento con un dirigente del Comune di Milano. Uno degli aspetti più interessanti che sollevava è il fatto che in passato alcuni comuni hanno esternalizzato la gestione dei processi di amministrazione condivisa a consulenti esterni. In questo periodo, al contrario, sta crescendo la consapevolezza che questi processi vadano gestiti dall’amministrazione stessa. Il supporto esterno può essere utile, certo, ma delegare completamente questo aspetto determina la perdita di quelle opportunità che permetterebbero di sviluppare internamente le competenze di orchestrazione e facilitazione. Ed è proprio questa capacità che oggi fa la differenza.
L’abitare è il primo asse del Piano metropolitano di Bologna. In che modo l’economia sociale può contribuire concretamente a rispondere ai bisogni abitativi?
Flaviano Zandonai: Vedo due direttrici principali. La prima riguarda la costruzione di nuove infrastrutture sociali di prossimità: case di quartiere, centri di aggregazione, punti di comunità. In questi anni c’è stata molta attenzione su questo tema. Le “case della comunità” previste dal PNRR, ad esempio, sarebbero dovute andare nella direzione di creare spazi che siano sì luoghi di servizi, ma anche ambienti dove si rigenerano relazioni, dove le persone si incontrano, si mobilitano, fanno cose insieme. Questo è già un modo di ripensare l’abitare, non più solo come questione privata, ma come esperienza collettiva. La seconda direttrice è quella, più classica ma ancora cruciale, dell’accesso alla casa. Il tema dell’affordability è una sfida strutturale e anche qui l’economia sociale può fare la differenza, promuovendo modelli di co-housing, servizi condivisi, forme di autogestione e coproduzione legate all’abitare. Penso, ad esempio, alla recente proposta di Legacoop di costruire migliaia di nuovi alloggi a canone moderato. In parallelo, stanno ripartendo anche i fondi regionali per l’housing sociale, che non riguardano solo gli alloggi, ma anche i servizi comunitari e il rafforzamento della partecipazione locale. In Toscana, ad esempio, ci sono progetti molto interessanti a riguardo. Insomma, tra nuove infrastrutture sociali e una concezione dell’abitare che integra casa, relazioni e servizi, ci sono spazi importanti di intervento.
A fronte di queste sfide, come può l’economia sociale lavorare su sé stessa per costruire filiere realmente collaborative?
Flaviano Zandonai: Sicuramente anche questo è un tema cruciale. Fino ad oggi, non mi sembra di aver visto molte iniziative in cui si combinino davvero le diverse componenti dell’economia sociale: la cooperazione, l’associazionismo, la filantropia. Ciascuno continua a muoversi un po’ per conto proprio. Le cooperative forniscono servizi, le associazioni fanno advocacy, le fondazioni finanziano o fanno capacity building. Ma di coalizioni intersettoriali che si riorganizzino insieme per raggiungere obiettivi comuni ne esistono poche e questo è un problema. Anche sulle grandi riforme in corso – penso a quella sulla non autosufficienza o alla riforma sulla disabilità – ognuno avanza con la propria agenda. Ci vorrebbero invece progetti condivisi, investimenti congiunti, strategie comuni. Forse l’attuazione dei nuovi piani territoriali potrà stimolare questo tipo di aggregazione. Me lo auguro, perché altrimenti si rischia di tornare a una visione “povera” dell’economia sociale, ridotta a una somma di soggetti giuridici senza impatto trasformativo. Una possibile leva potrebbe venire dalla filantropia, che già sta facendo molto per il Terzo settore. Allargando un po’ il raggio d’azione, potrebbe avere un ruolo di traino anche per l’economia sociale in senso ampio. Poi resta da capire cosa vorranno fare i grandi attori: la grande distribuzione cooperativa, le banche di credito cooperativo, le cooperative agricole, quelle dei servizi o del food. Hanno la scala per incidere, ma resta da vedere se vorranno davvero investire in modo convinto in questa visione dell’economia sociale come spazio di innovazione e cambiamento.