L’esperienza dei Japanizers nella formazione dell’Etiopia moderna
- 07 Settembre 2020

L’esperienza dei Japanizers nella formazione dell’Etiopia moderna

Scritto da Federico Perini

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Ad oggi, l’Etiopia del premio Nobel per la pace Abiy Ahmed Ali è uno degli stati africani in cui il tema della modernizzazione risulta di particolare rilievo.

La storia moderna etiopica viene fatta iniziare convenzionalmente attorno al 1855, quando si avviò il processo di unificazione territoriale conclusosi alla fine del secolo. In parallelo, furono numerosi i dibattiti che proliferarono circa l’elaborazione di una propria forma di modernità: uno di questi, sviluppatosi nei primi trentacinque anni del XX secolo, venne portato avanti dai cosiddetti Japanizers. Con tale termine si fa riferimento, nella storiografia etiopica, a tutte quelle personalità (tra cui, in particolare: Heruy Wäldä-Sellase, Täkla-Hawaryat Täklä-Maryam e Déréssa Amänte) che tentarono di riformare lo stato attraverso un processo di “nipponizzazione”[1]. Tradotto dall’inglese Japanization, il sostantivo definisce l’intento che questi intellettuali ebbero di applicare nell’impero etiopico un percorso modernizzatore che ricalcasse l’esperienza giapponese tardo-ottocentesca di un rapido passaggio dal feudalesimo allo stato moderno. Rispetto alla bibliografia presa in esame, la metodologia di analisi migliore per poter comprendere la complessità del fenomeno è quella volta ad inquadrare le riforme dei Japanizers nell’ottica del concetto gramsciano di “traducibilità” e di osservare come gli intellettuali si rapportino dialetticamente con Ras Tafari.

Prima di addentrarci nel nocciolo della questione occorre problematizzare brevemente il concetto di “modernizzazione” in rapporto alla “traducibilità”. Col primo si intende genericamente «l’insieme dei processi di cambiamento su larga scala mediante i quali una determinata società tende ad acquisire le caratteristiche economiche, politiche, sociali e culturali considerate proprie della modernità»[2]. La modernità, peraltro, non si presenta mai nella prassi come preciso riflesso di una forma idealtipica elaborata teoricamente, poiché essa è sempre mediata e tradotta entro determinate particolarità sociali, economiche, storiche e filosofiche. Seguendo Gramsci, se si considera che ogni cultura ha contribuito attraverso la specificità del suo pensiero alla definizione del ritmo della modernità, allora si può notare come la modernità stessa si mostri all’interno delle singole società in maniera differente, a seconda di come si recepiscono impulsi dall’esterno e di come essi vengano tradotti entro una elaborazione teorica che risente di una già presente elaborazione culturale locale, prima di essere tradotti definitivamente in prassi politica[3]. Due gradi dell’elaborazione della modernità (globalità-località; teoria-prassi), che intersecandosi fanno sì che risulti opportuno parlare di modernità multiple presenti a livello globale, piuttosto che di una singola tipologia occidentale presa come modello di applicazione globale. Dunque, considerare la modernità, specialmente quella etiopica, come il prodotto di una dialettica culturale tra “globalità” e “località”, permette di averne una visione non condizionata dal discorso egemonico globale formulato dall’élite intellettuale europea nel XIX secolo[4].

Nel nostro caso, va osservato che l’Etiopia di inizio Novecento era un impero con un sistema di divisione del lavoro di stampo feudale, circondato geograficamente e culturalmente dalle potenze coloniali europee (senza possedere nemmeno uno sbocco sul mare) e con una economia che risentiva dei rapporti con le colonie confinanti; per cui, nell’elaborazione di una propria modernità, la dialettica locale-globale venne instaurata (nel caso dei Japanizers) non con chi si proponeva di dominare l’area del Corno d’Africa, bensì, con quella realtà, il Giappone, che si era dimostrata capace nell’Ottocento di volgere a proprio favore l’inevitabile influenza europea, creando un proprio percorso di sviluppo sociale ed economico. Ad una ripresa del modello giapponese corrispose quindi una elaborazione di quel modello in chiave prettamente etiopica[5].

Nel 1912, il primo intellettuale a proporre di prendere come modello la modernizzazione nipponica fu Gebre-Heywet Baykedagn (1886-1919), una delle più influenti personalità del Novecento etiopico. Formatosi in agricoltura, economia e medicina tra l’Etiopia, la Russia zarista “occidentalizzata” e la Germania, e fatto tesoro del cammino di riforme seguito da Menelik nei decenni precedenti[6], l’intellettuale elaborò una proposta che, agli occhi di una parte della storiografia, presenta un limite: il riferimento a “fare come il Giappone” appare puramente retorico e risulta influenzato, più che da una osservazione della politica nipponica, dall’eco dei risultati della modernizzazione giapponese, mostratasi al mondo intero con la vittoria contro la Russia del 1905. Non ha al suo interno dunque, delle proposte di “nipponizzazione” come quelle con cui i successivi Japanizers influenzarono negli anni Trenta l’impero di Hayla-Sellase.[7]

Nel trattare ora nello specifico il caso etiopico, occorre porsi alcuni interrogativi. Quali furono le politiche giapponesi di epoca Meiji riprese e tradotte gramscianamente nella realtà etiopica dai Japanizers? Quale retorica venne utilizzata per promuovere tale processo? Quale fu il risultato della “traduzione” e che istituzioni politiche generarono? Ebbe successo il tentativo di modernizzazione?

Successivamente al 1853, con l’apertura forzata dei porti nipponici all’«imperialismo del libero commercio»[8] europeo, le forze interne al Giappone ostili alla dominazione feudale si coagularono attorno all’imperatore, dando vita dal 1867 a quella che è stata definita come una «rivoluzione dall’alto»[9], in cui l’aristocrazia terriera e la borghesia agraria in via di sviluppo rivestirono un ruolo chiave nel «tradurre le forze dell’espansione europea nei termini di una politica indigena»[10]. In questo senso, le principali riforme Meiji ruotarono attorno all’istituzione della proprietà privata come cardine giuridico, facendo sì che il contadino non remunerato dal proprietario terriero si trovasse costretto a migrare in città, dove nel frattempo la forte base manifatturiera permise la concentrazione del lavoro in piccole industrie con manodopera salariata. Il tutto fu accompagnato e reso efficace da un costante miglioramento del sistema scolastico, che grazie all’influenza di alcuni intellettuali riuscì a mediare il capitalismo occidentale con la tradizione confuciana, avviando quel dibattito politico-culturale che portò alla redazione della Costituzione nel 1889 (delineata sul modello tedesco) e alla creazione di un ordinamento bicamerale con a capo l’imperatore[11].

I Japanizers presero questo percorso come modello. In particolare, Heruy Wäldä-Sellase (1878-1938), nella sua carriera di diplomatico al servizio di Hayla-Sellase, sostenne come fosse fondamentale legittimare il perseguimento di tali obiettivi attraverso l’ancoraggio della proposta “nipponizzatrice” a saldi riferimenti culturali etiopici, dimostrando di unificare la retorica di Baykedagn alla propria educazione copta. Un primo strumento utile risultò la narrazione biblica. Riferendosi alla schiavitù di Sèm e Yafét portata avanti dalla prole di Kam[12], si propose di giustificare il nazionalismo nero e africano in linea con quello che parallelamente si stava affermando come il pensiero etiopista. Tale processo, testimonia che, rispetto ad un occidente che lo utilizzò per alimentare la propria espansione, il discorso sulla razza non venne abbandonato o screditato da Heruy, anzi, venne ripreso, accettato, rafforzato e convertito, mediante un’opera di traducibilità, entro la realtà storico religiosa etiopica. In questo senso, parte della “nipponizzazione” per Heruy consistette nel fare dell’Etiopia la guida delle popolazioni “nere” africane contro il colonialismo, così come il Giappone si pose come il paladino della “razza gialla” in Asia. Avvalendosi di una equiparazione tra la vittoria etiopica di Adwa contro gli italiani (1896) e la vittoria giapponese nello stretto di Tsushima contro i russi (1805), tale retorica di comunanza razziale giocò un ruolo chiave nei contatti diplomatici tra i due imperi. Dal primo incontro ufficiale avvenuto nel 1923, si arrivò tra il 1930 ed il 1932 alla ratifica di un trattato di amicizia e commercio, corroborato da una visita dello stesso Heruy in Giappone[13].

I propositi “nipponizzatrici” elaborati dai Japanizers in quel livello della traducibilità gramsciana che vede un confronto tra la dimensione locale e globale della modernità, si dovettero scontrare all’interno della politica etiopica con l’ambiguità della figura conservatrice, ma a tratti progressista, dell’imperatore Hayla-Sellase, il quale ebbe come costante obiettivo la creazione di uno stato autocratico. Tra i Japanizers ed il Negusa Nagast si instaurò dunque una dialettica che riflette quell’ulteriore grado della traducibilità di Gramsci, in cui teoria e prassi politica si incontrano e scontrano condizionati dai rapporti di forza vigenti all’interno dell’entità statuale. La sintesi di questo processo fu l’accettazione da parte degli intellettuali di una mitigazione dei propri propositi riformatori, pur di avere l’opportunità di essere inclusi nel processo decisionale politico.

Nei sei anni del primo impero di Hayla-Sellase (1930-1936), fu così possibile convertire la tassazione in modo tale da far pagare ai contadini non più beni in natura, ma denaro, attraverso un sistema di esazione standardizzato (1935) facente capo alla Banca d’Abissinia, nazionalizzata nel 1931. Tuttavia, questo sistema, non fu applicato uniformemente sul territorio, lasciando sacche importanti di feudalesimo. Un altro sintomo importante dell’influenza degli intellettuali nelle politiche imperiali fu il miglioramento del sistema scolastico elementare, considerato, specialmente da Déréssa Amänte e Täklä-Hawaryat, come lo strumento fondamentale per fornire quell’istruzione indispensabile allo sviluppo della ancora debole borghesia etiopica, ritenuta dai Japanizers come il principale motore della modernizzazione e della industrializzazione. Lo sviluppo parallelo del capitale economico e del capitale culturale al fine di formare una società civile fu dunque il piano modernizzatore che gli intellettuali provarono a mettere in atto guardando all’esempio giapponese. Per fornire una base istituzionale a tali obiettivi, viene redatta nel 1931 la prima costituzione della storia etiopica, basata anch’essa sul corrispettivo nipponico del 1889[14].

Un ruolo chiave giocò Täklä-Hawaryat Täklä-Maryam (1884-1977). Formatosi intellettualmente tra Russia, Francia e Gran Bretagna, al ritorno in patria analizzò la situazione etiopica, notando come non esista un termine amarico equivalente a “progresso”[15]. Nella nostra trattazione ciò risulta importante, poiché, se consideriamo la lingua ed il linguaggio come elementi propri della «filosofia spontanea» di ciascun individuo, possiamo osservare come, in termini gramsciani, ci fosse a livello di «senso comune» un pensiero fortemente tradizionale[16]. Dunque, gli intellettuali etiopici si dimostrarono essere coloro che, attraverso idee di sviluppo economico, sociale, culturale, si posero l’obiettivo di «criticare la propria concezione del mondo», al fine di «renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito»[17].

Nel redigere la costituzione, Täklä-Hawaryat delineò una struttura statale incentrata attorno alla figura imperiale, arretrando, sia per necessità sia conformemente ai propositi autocratici del Negusa Nagast, rispetto agli assetti più democratici dell’ordinamento nipponico. Venne istituito un sistema parlamentale bicamerale, in cui la camera “alta” (il Senato) fu riservata ai più illustri masafent[18], mentre quella “bassa” (la Camera dei Deputati) non venne composta da membri eletti dal “popolo” come nel caso asiatico, ma dalla piccola nobiltà di provincia. Questa fondamentale differenza tra i due ordinamenti statali ci permette di osservare come nel Giappone Meiji vi fosse una borghesia già numerosa ed influente a tal punto da dover essere inclusa dal potere imperiale entro il sistema politico, mentre in Etiopia essa risultò relativamente assente, costringendo l’ordinamento istituzionale ad attingere temporaneamente[19] da piccoli masafent provenienti dalle regioni dell’impero. Inoltre, rispetto al modello giapponese, il parlamento etiopico non ebbe la facoltà né di riunirsi quando lo riteneva opportuno né di approvare leggi. L’unica prerogativa delle camere risultò quella di essere un organo consultivo, deputato alla sola discussione dei provvedimenti. Il Negusa Nagast mantenne sempre la possibilità di prendere in considerazione o meno le modifiche proposte dalle camere, rendendo così il parlamento uno strumento politico imperiale volto al controllo e alla marginalizzazione della nobiltà[20].

La crescita del potere imperiale a discapito dei nobili, istituita dalla carta costituzionale, comportò la compromissione di ogni meccanismo di condivisione del potere e ribadì l’assenza di libertà civili per i cittadini etiopici. Infatti, rispetto al testo giapponese, nella carta etiopica non venne mai riconosciuto alcun diritto relativo alla libertà di parola, di religione o di associazione[21]. In tal senso, la questione risultò ancora legata all’assenza di una classe borghese istruita in maniera tale da concepire in Etiopia certi diritti come fondamentali.

Il tentativo di modernizzazione attraverso la traduzione del modello nipponico, che qui è stato sinteticamente presentato, viene considerato fallimentare dalla maggior parte della storiografia[22], poiché, se da un lato venne mitigato dall’egemonia imperiale, dall’altro non trovò una già affermata borghesia in ascesa su cui innestarsi, né tantomeno una omogeneità culturale, una urbanizzazione estesa o, soprattutto, un periodo di pace entro cui svilupparsi. A ciò si aggiunse il fatto che proprio attorno alla metà degli anni Trenta fu lo stesso Giappone a mutare, nel suo cammino di avvicinamento diplomatico all’Italia fascista, i propri atteggiamenti amichevoli con l’Etiopia, considerandola sempre più soltanto come meta di imperialismo commerciale, negandogli aiuti militari ed economici al momento dell’invasione italiana nel 1935. I propositi “nipponizzatori” rifiorirono con la fine dell’occupazione fascista nel 1941, ma lasciarono presto il passo a nuove traiettorie modernizzatrici, passanti questa volta attraverso gli aiuti statunitensi.


[1] Il sostantivo “nipponizzazione” deriva dal verbo “nipponizzare”. Nella lingua italiana con tale termine si definisce il miglioramento dei prodotti industriali «al livello qualitativo» di quelli giapponesi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana (GDLI), supplemento 2009, UTET, Torino 1961-2009, p. 574; Nel corso di questo articolo adopereremo invece il verbo italiano come traduzione dell’inglese “to japanize”: https://www.merriam-webster.com/dictionary/Japanize (secondo significato).

[2] A. Martinelli, La Modernizzazione, Laterza, Bari-Roma 2010, p. 3.

[3] Cfr. M. Mustè, Marxismo e Filosofia della Praxis: da Labriola a Gramsci, Viella, Roma 2018, pp. 218-222.

[4] Ci si richiama alla definizione di “modernità a placche” proposta in: J. McDougall, Introduction. Modernity in “antique lands”: Perspective from the Western Mediterranean, in «Journal of the Economic and Social History of the Orient», gennaio 2017.

[5] B. Zewde, A History of Modern Ethiopia, James Currey, Oxford 2001, pp. 81-148.

[6] Imperatore dal 1889 al 1913, Menelik II riformò parzialmente il sistema di imposte introducendo il primo catasto; portò a termine l’unificazione territoriale del Paese e fondò nel 1892 Addis Abeba. Per approfondimenti: Ivi, pp. 60-120.

[7] M. Kebede, Gebrehiwot Baykedagn, Eurocentrism, and the Decentering of Ethiopia, in «Journal of Black Studies», Vol. 36, No. 6, 2006, p. 829.

[8] J. Gallagher, R. Robinson, The Imperialism of Free Trade, in «The economic history review», vol.6, no.1, 1953, pp. 1-15.

[9] M. Kebede, Japan and Ethiopia: an appraisal of similarities and divergent courses, in «Ethiopia in broader perspective: Papers of the 13th International Conference of Ethiopian Studies», Kyoto 1997.

[10] R. Robinson, I fondamenti non europei dell’imperialismo europeo: elementi per una teoria della collaborazione, in R. Owen, B. Sutcliffe (a cura di), Studi sulla teoria dell’Imperialismo: Dall’analisi marxista alle questioni dell’imperialismo contemporaneo, Einaudi, Torino 1977, p. 139.

[11] Per il cammino modernizzatore giapponese durante l’epoca Meiji, consultare: R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 396-448.

[12] Kam viene considerato l’antenato delle “razze nere” che schiavizza quelle “bianche”. B. Zewde, Pioneers of Change in Ethiopia: the reformist intellectuals of the early twentieth century, James Currey, Oxford 2002, p. 130.

[13] J. Calvitt Clarke III, Alliance of the Colored peoples: Ethiopia & Japan before World War II, James Currey, Woodbridge 2011.

[14] Cfr. B. Zewde, Economic Origins of the Absolutist state in Ethiopia (1916-1935), in «Journal of Ethiopian studies», vol. 17, novembre 1984, pp. 1-29.

[15] B. Zewde, Pioneers of Change in Ethiopia:…, cit., p. 100.

[16] M. Mustè, Marxismo e Filosofia della Praxis:…, cit., p. 291.

[17] A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, p. 1376 (Q11, 11bis).

[18] Il termine indica la grande nobiltà ereditaria.

[19] L’articolo 32 afferma che, finché il popolo non sarà in grado di eleggere propri rappresentanti, tale misura è doverosa.

[20] J. Calvitt Clarke III, Alliance of the Colored peoples…, cit., p. 38.

[21] J. Calvitt Clarke III, Seeking a model for modernization: Ethiopia’s Japanizers, in «Selected Annual Proceeding of the Florida Conference of Historians», febbraio 2002, pp. 14-15.

[22] M. Kebede, Japan and Ethiopia:…, cit., p. 650; B. Zewde, Pioneers of Change in Ethiopia:…, cit., p. 209; J. Calvitt Clarke III, Alliance of the colored people:…, cit., p. 169.

Scritto da
Federico Perini

Dottorando in Studi umanistici, curriculum Storia contemporanea, presso l’Università Cattolica di Milano. Ha conseguito la laurea magistrale in Scienze storiche all’Università “La Sapienza” di Roma. Studia le interconnessioni tra europeismo e decolonizzazione nella seconda metà del Novecento. Tra i suoi interessi, la filosofia politica e le trasformazioni socioeconomiche del presente.

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