Recensione a: Lorenzo Castellani, L’ingranaggio del potere, Liberilibri, Macerata 2020, pp. 252, 17 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Nel suo ultimo libro, L’ingranaggio del potere, il politologo Lorenzo Castellani si occupa della dialettica conflittuale tra il principio democratico della rappresentanza e quello tecnocratico della competenza. L’analisi si articola nella cornice di un più ampio approfondimento sulle articolazioni del potere nelle democrazie contemporanee, dove aree non rappresentative, apparati amministrativi, istituzioni contro-maggioritarie si sono sviluppate in modo così pervasivo da fare quantomeno dubitare che il potere politico-decisionale appartenga e si esaurisca unicamente all’interno dei processi democratici – sotto il controllo quindi dei cittadini e con la loro, per quanto in forma delegata, concreta partecipazione. Un’analisi più attenta porta infatti a guardare dietro alle quinte, alle spalle dei parlamenti e della politica più in generale, ove si dispiega l’imponente infrastruttura tecnocratica che funge da architrave del potere contemporaneo. Questa si fonda sulla competenza tecnica e specialistica degli individui, selezionati per concorso, titoli o certificazioni e inseriti all’interno di un ingranaggio sempre più complesso che si pone l’obiettivo di amministrare l’esistente sotto una pretesa maschera di neutralità, con decisioni il più efficienti possibili che prescindano dall’intrinseca conflittualità della politica, ma che vadano a guardare al rapporto costi-benefici in funzione del fine ultimo della costante crescita economica e produttiva.
Al principio democratico della rappresentanza si è affiancato quindi, sottraendone sempre maggiori quote di spazio, il principio tecnocratico – o aristocratico – della competenza, di cui non si può più prescindere, sostiene Castellani, in qualsivoglia analisi sulle nostre democrazie. Scrive infatti l’autore: «nelle società avanzate il principio aristocratico ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore rispetto a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere. Nelle democrazie contemporanee questo principio aristocratico si fonda sulla competenza, cioè sulla conoscenza specialistica degli individui, fornita e certificata dalla struttura stessa della società attraverso istituzioni educative, programmi di studio, titoli, esami e concorsi. Questo principio aristocratico-gerarchico convive con il principio democratico-rappresentativo di cui, negli ultimi decenni, ha progressivamente eroso significativi spazi. Di conseguenza i poteri non-elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non forse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi. Per questo ritengo che l’aggiunta del prefisso “tecno” al termine “democrazia” possa aiutare a descrivere meglio la politica del nostro tempo, in cui tecnocrazia e democrazia coesistono dando vita a un regime misto» (p.25).
L’analisi di Castellani parte dall’assunto che democrazia e tecnocrazia si sono sviluppate all’interno della profonda interazione – sottolineata da diversi studiosi – tra Stato e Capitalismo. La seconda, in particolare, è sorta dall’osmosi tra la burocrazia pubblica e il grande capitalismo, perfezionandosi con l’avvento della società industriale ma avendo già salde le radici nello Stato moderno, che con la sua organizzazione complessa e centralizzata, scandita in norme, regole e procedure, ha favorito lo svilupparsi di quella “calcolabilità” economica e procedurale, nonché, richiamando Max Weber, giuridica, che sta alla base delle infrastrutture tecnocratiche contemporanee. Proprio all’interno di questo “sistema organizzato” si rinvengono, oltre che alcune aporie intrinseche alla democrazia – come l’impossibilità di una uguaglianza sostanziale, dal momento che compiti, redditi e prestigio dei singoli saranno sempre diversi, in uno schema dalle ineliminabili tinte gerarchiche – le fondamenta del principio aristocratico della competenza: vale a dire, legittimazione e modalità d’accesso al potere per istruzione, titoli e qualifiche certificanti determinate competenze specialistiche idonee a servire i diversi livelli del motore burocratico della tecnocrazia.
L’avvento dei tecnici, sempre più numerosi all’interno delle burocrazie pubbliche e influenti nella regolazione della vita dei cittadini, si può considerare, scrive l’autore, come una “rivoluzione silenziosa”, dispiegatasi attraverso la progressiva colonizzazione delle decisioni politiche, in particolare nel secondo dopoguerra, proprio mentre il dibattito tendeva a focalizzarsi unicamente su democrazia e rappresentanza. Oggi, con la convivenza tra democrazia e tecnocrazia che appare palese ai più per svariati motivi – il moltiplicarsi dell’autorità indipendenti di regolazione, il sempre maggiore potere delle Corti, il peso delle Banche centrali, lo spazio che il dibattito pubblico ha riservato alla critica “populista” alle istituzioni non-elettive, il proliferare di comitati e organismi tecnici di consulenza – il punto focale della questione riguarda le linee di confine tra l’ambito democratico e quello tecnocratico. Questo perché, «così come il potere democratico è portato a espandersi oltre confine [l’autore porta l’esempio della scienza, ambito in cui le logiche democratiche non possono trovare applicazione] con una tendenza eguale e contraria, i poteri non maggioritari sono portati ad interferire nella gestione democratica della vita pubblica. Da qui si scatenano conflitti, squilibri e disagi» (p.33).
La conflittualità si registra in particolare nella pretesa di depoliticizzazione delle decisioni da parte dei fautori della tecnocrazia, secondo una logica che ritiene irrazionale affidarsi al lento e farraginoso compromesso democratico per affrontare le sfide di una società sempre più complessa; molto spesso tra l’altro, aggiunge l’autore, è la debolezza della politica stessa, incapace di assumere decisioni coraggiose rispecchianti una certa visione del mondo, a lasciare ampie praterie vuote ai tecnici. Il problema – e da qui parte del disagio che si è iniziato negli ultimi anni a percepire tra i cittadini – è che mentre la politica può essere bene o male sottoposta al controllo da parte degli elettori, la tecnocrazia ne è esente. Questo la porta, unitamente alla complessità delle questioni tecniche cui fa riferimento e agli specifici codici simbolici, culturali e linguistici di cui si fa portatore “l’ordine” (per riprendere la classificazione di Roland Mousnier) costituito dalle élite tecnocratiche, ad essere vista con sospetto, diffidenza, lontananza. Quando poi, solitamente nelle fasi di crisi economica, l’ordine tecnocratico non riesce più a garantire crescita e benessere, nonché a ridurre le incertezze, il sistema di potere si inceppa e si aprono spirali di delegittimazione che vanno a colpire l’intero ingranaggio.
Castellani, per inserire in una cornice di ampio respiro la sua analisi, tratteggia poi una breve storia della tecnica in politica, partendo dalle società idrauliche agro-manageriali delineate dallo storico Karl August Wittfogel per arrivare allo Stato legale ed economico, passando per le città-stato italiane e l’origine dello Stato moderno nella sua veste militare. In particolare, l’autore si sofferma sull’importanza della seconda rivoluzione industriale – una rivoluzione dell’ “organizzazione”, che ha introdotto quella calcolabilità economica e procedurale di cui sopra – sulla formazione delle burocrazie occidentali e i dibattiti negli Stati Uniti (ma anche in Italia e Francia) sulla tecnocrazia come tecnologia del potere per risolvere le crisi degli anni Trenta. Le pagine proseguono con un’analisi dell’opera La rivoluzione manageriale di James Burnham, la discussione di alcuni dati sull’aumento di università e professionisti a partire dalla fine dell’Ottocento, alcuni accenni al processo di integrazione europea – in una stagione in cui si pensava di poter gestire la complessità del reale attraverso la sola apoliticità del diritto privato e dei Trattati europei – e numerosi altri riferimenti, con una densità che non possiamo affrontare in questa sede, volti a chiarire e fotografare il percorso delle società occidentali verso il «Leviatano 3.0».
Tra le riflessioni più interessanti del volume meritano di essere menzionate quelle inerenti al rapporto tra pensiero tecnocratico e nichilismo politico. In queste pagine leggiamo come la missione della tecnocrazia sia «la riduzione della società a un unico criterio di gestione», nell’ottica di una uniformazione del tutto, al fine di attuare una regolare amministrazione dell’esistente priva di qualsivoglia conflitto politico, ideologico o culturale. L’unico parametro decisionale sarebbe quello dell’efficienza, del buon funzionamento dei meccanismi, dal momento che «nella mentalità del tecnocrate non c’è posto per il politeismo dei valori, ma conta soltanto la gabbia d’acciaio della razionalità per amministrare con efficienza». Vengono così spianate le porte ad un nichilismo politico che nella atomistica suddivisione del reale in una indefinita molteplicità di campi singolarmente amministrati secondo il criterio dell’efficienza certifica l’impossibilità del raggiungimento del tutto, cioè l’assenza di un baricentro, di una bussola. Questa assenza, continua Castellani citando il giurista Natalino Irti, si riverbera inoltre in ambito giuridico, con la conseguenza che il diritto diventa “forma”, mera produzione formale di norme, secondo una procedura standardizzata e inserita nella cornice dello Stato come machina machinarum che prescinde dai contenuti e finisce per assumere le vesti di un vero e proprio nichilismo giuridico.
Quello che però il pensiero tecnocratico non riesce a cogliere è che tra la moltitudine di competenze specialistiche non vi è una “competenza delle competenze”, idonea a risolvere i conflitti che sorgono tra queste nel loro continuo intersecarsi e sovrapporsi, e perciò vi è «la decisione che supera le competenze, va oltre». La politica, ci dice Castellani integrando la riflessione con anche una interessante rilettura di Max Weber e Carl Schmitt, riemerge, irriducibile, come esercizio responsabile del potere nelle decisioni ultime circa la vita della polis e per superare hegelianamente la dialettica tra i saperi specialistici, altrimenti irrisolvibile e destinata ad un cortocircuito paralizzante. Questo è un punto fondamentale troppo spesso dimenticato, che ci dice come, anche se volessimo coprire con la maschera neutrale della tecnica ogni decisione, sotto di questa e in merito alle decisioni essenziali ritroveremmo quella politica che si cercava di eliminare.
Il volume di Lorenzo Castellani pone all’attenzione del dibattito pubblico un tema di grande importanza, sicuramente sempre più attuale. Da una prospettiva liberale l’autore suggerisce di prestare particolare attenzione agli entusiasmi tecnocratici, dal momento che dietro ad ogni razionalizzazione dell’esistente, organizzazione burocratica della società, regolazione puntigliosa del vivere associato, possono nascondersi derive dispotiche in grado di incidere negativamente sulle libertà degli individui, trasformando il sistema politico e democratico che conosciamo – sicuramente imperfetto e spesso difficilmente adattabile ai problemi complessi del presente, ma in linea di massima rispettoso delle libertà e dei diritti fondamentali – in una più o meno totalitaria amministrazione tecnocratica della realtà, che dietro alla pretesa neutralità e insindacabilità tecnica delle decisioni annichilirebbe il pluralismo politico. Per questo motivo Castellani, andando anche a rileggere criticamente alcuni autori – tra cui Parag Khanna e Jason Brennan – attratti dalle sirene tecnocratiche, nel riconoscere la ineludibilità della tecnica come motore di società complesse come le nostre, conclude affermando che «nessuna scelta brutale potrebbe risolvere la contraddizione tra principio di competenza e principio democratico. Le società avanzate, se vogliono sopravvivere, devono definire una via intermedia. In altre parole, è necessario conciliare i due principi e i gruppi sociali che ad essi si riconducono, tenere insieme merito e democrazia, gerarchia e legittimazione politica» (p.201). Una sfida non facile, soprattutto se consideriamo che un presupposto fondamentale per affrontarla è quello di avere una politica forte, all’altezza dei tempi, capace di riprendersi gli spazi persi e dialogare con il potere tecnocratico senza subirlo. E una classe dirigente professionale e consapevole del proprio ruolo, senza la quale raggiungere quell’equilibrio sarà, se non impossibile, sicuramente molto difficile.