Scritto da Enrico Comes, Daniele Molteni
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L’intelligenza artificiale rappresenta uno dei temi più complessi del nostro tempo, situandosi al crocevia tra innovazione tecnologica e interrogativi filosofici sul futuro dell’umanità. Tuttavia, come suggerisce lo psicoanalista e filosofo Miguel Benasayag, questo tema si iscrive in un percorso storico più profondo, radicato nel rapporto originario tra uomo e tecnica. Al centro di questa relazione Benasayag colloca il concetto di “delega”, un meccanismo evolutivo attraverso il quale funzioni vitali o cognitive vengono demandate ad altri enti o strumenti. L’odierno “iperfunzionalismo” tecnologico trasforma questa delega in qualcosa di massivo e radicale, influenzando non solo le modalità con cui viviamo, ma l’essenza stessa di cosa significa “essere umano”.
In questa intervista, Benasayag descrive l’epoca attuale come caratterizzata da una sorta di frenesia continua, una tensione verso il cambiamento che non sembra mai trovare pace, dove la tecnologia non è soltanto uno strumento ma una forza colonizzatrice che penetra ogni aspetto della vita, modellando pensieri, comportamenti e valori. La risposta a questa pressione può trovarsi nel concetto di “intranquillità”, descritto dal filosofo argentino in L’epoca dell’intranquillità. Lettera alle nuove generazioni (Vita e Pensiero 2023), scritto con Teodoro Coen, come una forma di agitazione che emerge dall’inquietudine. Una nuova attitudine attiva di resistenza capace di accogliere l’incertezza e la vulnerabilità come parte del percorso, per trovare nel dubbio e nella condivisione la forza di affrontare la complessità contemporanea.
Quello dell’intelligenza artificiale è uno dei temi cruciali del dibattito attuale, per quanto la relazione uomo – macchina si inserisca all’interno di una storia di più lungo corso relativa al rapporto uomo – tecnica. Una delle dinamiche che costituisce lo sviluppo antropologico è quello che lei definisce il meccanismo della “delega”. Può illustrarci in cosa consiste questo meccanismo e se ci sono differenze nella delega che compiamo nei confronti dell’intelligenza artificiale?
Miguel Benasayag: Il meccanismo della delega di funzione è assolutamente normale all’interno dell’evoluzione delle specie, non riguarda quindi esclusivamente la relazione uomo-tecnica, o quella tra l’uomo e l’animale, o tra gli animali soltanto. Tale meccanismo significa, nello specifico, che all’interno del processo di co-evoluzione tra le specie e l’ambiente, talvolta una funzione cerebrale o fisica operata da una specie venga presa in carico da un’altra specie. In questo processo, tutto quello che si delega permette una sorta di “riciclo” della zona del cervello precedentemente adibita allo svolgimento di tale funzione o capacità fisica. Questa potenza liberata attraverso la delega di funzione è un meccanismo insito nell’evoluzione. Ora, venendo al rapporto tra l’uomo e la macchina, tale relazione va compresa nei termini di un’ibridazione: non è possibile astrarre un uomo puro, “metafisico”, che solo poi entra in relazione con la tecnica. In realtà vi è una co-evoluzione permanente che concorre a modificare il portato biologico e l’ambiente. In tal senso, dobbiamo aver ben chiaro che quando si parla di “antropocentrismo” non si intende affatto ribadire la centralità dell’uomo, ma che un dispositivo che si chiama uomo è al centro; non certo la specie umana. Noi non siamo mai stati al centro, come sanno bene le tribù indios del Sud America. Quello che oggi accade è che la delega di funzione è diventata massiva, modificando radicalmente la struttura antropologica stessa in prospettiva di un iperfunzionalismo. Per questo sono d’accordo con Foucault quando dice che non dobbiamo parlare di postmodernità ma di ipermodernità, così da poter fare i conti con la fine del dispositivo “uomo” e l’arrivo di un altro dispositivo. L’ipermodernità è un salto qualitativo enorme che vede la delega all’intelligenza artificiale di quasi tutte le funzioni umane e vitali e in cui a essere stravolto è il fattore tempo. Fino alla modernità, ciò che organizzava la vita stava dentro dei cicli lunghi, mentre il grande cambiamento indotto dall’ipermodernità è un’accelerazione dei processi fine a sé stessa, senza progettualità.
Lei sembra mettere in discussione la separazione tra corpo e mente, sia dal punto di vista biologico che filosofico. L’alternativa che propone è che noi siamo essenzialmente il nostro corpo e che ignorare questo fatto è un’illusione. Quali implicazioni ha, ad esempio, considerare l’etica come qualcosa che risiede anche nel corpo e non solo nel pensiero?
Miguel Benasayag: Parlare di pensiero articolato significa sottolineare che anche i corpi pensano. In biologia vediamo che ogni animale pensa e riflette a suo modo, calcolando rischi e risolvendo problemi. Il pensiero articolato, per come lo intendiamo noi, è un’emergenza, ovvero un prodotto che è emerso dall’evoluzione umana. Questa emergenza ha sempre cercato di dominare il corpo e non solo da Platone, che, come è noto, è colui che ha sistematizzato questa idea con il mito di Er, sostenendo che il corpo è un simulacro e che l’essere umano ha radici nel cielo e non nella terra. In generale, le idee e le concezioni divine sono state spesso in conflitto con il campo biologico e con il vivente. Questo perché le idee hanno cercato, nel tempo, di indicare al vivente come vivere e perché vivere, tralasciando spesso il corpo e le sue esigenze. Ciò non riguarda solo la tradizione giudaico-cristiana, ma anche il buddismo, il taoismo e altre culture in cui vediamo degli esseri umani cadere nella trappola di rifiutare il corpo. Oggi ci troviamo in un momento in cui dobbiamo scegliere tra una metafisica “senza corpo” – che non è più quella religiosa o legata al karma – e un ritorno al corpo, a essere corpi tra corpi. Questo ritorno non significa schiacciare il pensiero, contrariamente a quanto spesso si pensa, ma riconciliarlo con la nostra corporeità.
Nei suoi saggi emerge in modo evidente la tendenza dell’uomo a creare ambiente, spazializzando la sua esistenza, per dirla con Bergson. L’irrompere dell’Antropocene sembra segnare una certa controfattualità rispetto a tale tendenza. Quali sono le conseguenze di questa occlusione di futuro? Pensa che l’intelligenza artificiale possa aiutarci ad affrontare la problematica ambientale come sostiene per esempio James Lovelock nel suo libro Novacene?
Miguel Benasayag: In effetti con l’Antropocene vediamo emergere una potenza tecnologica molto forte che si esprime nella capacità di modificare radicalmente l’ambiente e l’umano stesso. In realtà, si può sostenere che una delle proprietà dell’umano, che si esprime attraverso il pensiero simbolico, è di far fronte alle condizioni naturali attraverso l’utilizzo di strumenti. Facciamo un esempio piuttosto banale, ma che può aiutarci a comprendere: l’uomo primitivo per proteggersi dal freddo utilizzava pelli animali, in un rapporto equilibrato tra l’uomo e lo strumento; un equilibrio che potremmo definire omeostatico. A partire dalla modernità, al contrario, gli strumenti non hanno più avuto una regolazione organica, limitandosi cioè a essere un semplice ausilio per l’umano. Gli strumenti attuali, come l’intelligenza artificiale, non consentono più di mantenere quell’equilibrio omeostatico, ma vanno a schiacciare l’intera esistenza, essendo dotati di un’elevata potenza tecnologica a tal punto dirompente che non sappiamo più come padroneggiarli e regolarli. A lungo abbiamo guardato affascinati tutto ciò, ora però con l’Antropocene vediamo la crisi di questo sistema di produzione che mette in pericolo il contenuto stesso del vivente. Se, come abbiamo detto in precedenza, non dobbiamo considerare la tecnica come qualcosa di aggiuntivo al vivente ma piuttosto come un’ibridazione, ciò che accade nella contemporaneità è che il contenuto della tecnica è diventato tanto forte da mettere in causa il vivente. Non penso che l’intelligenza artificiale possa essere in grado di risolvere la crisi ambientale, penso però che vada chiarito un aspetto, ovvero che il contenuto tecnologico non ha autonomia rispetto al vivente: se non c’è il vivente non c’è neanche la tecnica. Si può tradurre tutto questo discorso con una metafora, quella dello spazio vettoriale. Dobbiamo immaginare la nostra esistenza come un insieme di vettori: quello vivente, quello tecnologico, quello ecosistemico, quello geografico, ecc. Tra questi, il vettore tecnologico è diventato così forte da modificare continuamente tutti gli altri, creando enormi scompensi per l’esistenza complessiva. La crisi dell’Antropocene è evidente se si considera, per esempio, che negli ultimi quarant’anni il 60% delle specie di vertebrati è scomparso, per non parlare poi della varietà di insetti che stanno scomparendo e quindi anche di piante. Tutto questo ci pone di fronte a un grande cambiamento di paradigma: l’idea che a un dato problema corrisponda una data soluzione non regge più di fronte a uno scenario così altamente complesso.
Le tecnologie come l’intelligenza artificiale per certi aspetti ricordano e replicano il pensiero coloniale perché sono progettate a partire da concentrazioni di potere. Quali sono gli aspetti di questa colonizzazione che replica la dialettica tra mondo del colonizzatore e mondo del colonizzato?
Miguel Benasayag: Il mondo algoritmico rappresenta l’emergere di una nuova dimensione dell’essere. Non si tratta di una semplice rappresentazione o di un modo di esprimere qualcosa, ma di una potenza enorme. In questa nuova dimensione dell’essere, la colonizzazione algoritmica è simile a un fenomeno biologico che avviene quando una pianta infestante si diffonde facilmente, schiacciando le altre specie e occupando tutto il terreno disponibile. Come un virus che invade e colonizza fino al punto in cui il corpo non sa più come gestirlo, regolarlo o fermarlo. Dal punto di vista dei colonizzati qui entra in gioco una tentazione molto pericolosa, che vediamo esprimersi nei movimenti politici decoloniali recenti: alcuni, per reazione, vogliono rifiutare tutto quello che riguarda il colonizzatore in modo acritico. Qualche anno fa, ad esempio, ho cercato di organizzare uno scambio tra due femministe di Torino e i gruppi di attivisti di Buenos Aires, ma qui mi è stato detto: “Non parliamo con donne bianche europee perché sono patriarcali”. Questa è una bugia, perché essere femministe bianche non significa essere necessariamente patriarcali o avere dei pregiudizi legati all’etnia. A volte la posizione comune tra i colonizzati è quella di credersi puri e pensare di non potersi mescolare con gli altri. Questo è un disastro, perché non c’è niente di peggio che evocare una purezza – sia essa indigena, femminista o di qualsiasi altro tipo. Dal punto di vista del colonizzato dobbiamo evitare questa trappola narcisistica che oggi sembra maggioritaria. C’è chi rifiuta le concezioni filosofiche e perfino l’umanità dell’altro, arroccandosi dietro posizioni identitarie, mentre la vera questione è legata a come poter mantenere la propria identità, ibridandosi con ciò che accade nel mondo. Non si tratta di restare immobili in noi stessi e essere schiacciati dal nuovo, ma di capire come trovare e partecipare attivamente a una nuova sintesi vivente. Dire, ad esempio, che il femminismo è “occidentale” o che, come sostengono alcuni in Cina, i diritti umani sono “occidentali”, è un errore dovuto al relativismo culturale che produce solo danni. Inoltre, esiste un concetto importante che manifesta un altro tipo di rischio legato al rapporto tra colonizzatore e colonizzato che è quello di “fagocitazione”: il colonizzato deve fagocitare ciò che viene dal colonizzatore, ma con attenzione, perché la fagocitazione può anche fallire se non viene metabolizzata a dovere. Un esempio dall’immaginario della liberazione è esplicativo: quando resisti a un’occupazione militare, non puoi semplicemente rubare le armi del nemico, perché le armi determinano anche il modo di combattere. Se prendi l’arma del dominatore senza riflettere, rischi un’indigestione. Lo stesso vale per la lingua, la scienza, i movimenti. Tutto ciò che proviene dal colonizzatore va trattato con molta cautela, per evitare di non riuscire a digerirlo e di cadere in una trappola narcisistica e identitaria.
A suo avviso, la creatività e l’immaginazione possono ancora rappresentare quegli elementi qualitativi di vita, grazie ai quali è possibile non subire passivamente il colonialismo algoritmico?
Miguel Benasayag: Questa è certamente una sfida, dal momento che anche l’intelligenza artificiale generativa può creare una novità; sappiamo ormai bene che la “creatività” non è più monopolio del vivente. Però sì, la creatività può rappresentare ancora una via di uscita. Occorre tuttavia chiarire che tra le due forme di creatività c’è una differenza e che quella algoritmica parte da un modo di creazione e produzione totalmente diverso da quella umana. Per questo è importante considerare e valutare il caso singolo, perché possiamo imbatterci in un’opera artistica creata da intelligenza artificiale, senza di fatto riconoscerne la fattura artificiale e confonderla con una di origine umana. In tal senso, infatti, possiamo dire che il test di Turing è ormai superato: noi non siamo più in grado di distinguere l’operato della macchina da quello umano. Per questo ritengo che la differenza debba essere rintracciata in un livello più profondo (nel senso del “come” si fanno queste cose) e al tempo stesso più “alto” (nel senso che ciò che riteniamo bello e intelligente deve esserlo per il vivente). Sappiamo bene che non esiste un’opera d’arte autocreata. Diventa tale, cioè opera d’arte, solo nella misura in cui acquista senso per l’essere vivente. Niente è bello in sé o cattivo in sé, ma lo è in relazione al vivente. Ecco allora che è certamente possibile immettere un’elevata quantità di dati nell’intelligenza artificiale così da farle generare un’opera, ma quella non sarà mai un’opera d’arte. Il senso è dato in rapporto al vivente, questo però è ciò che manca ed è il lato pericoloso della colonizzazione perché costringe il vivente dentro una passività. L’autoproduzione dell’intelligenza artificiale generativa non è arte perché non è rivolta a nessuno. Questo aspetto si comprende bene con il caso di AlphaGo. Si ritiene che questo software sia in grado di giocare e perciò di vincere, ma non è così. Una macchina non può giocare, quindi neanche vincere o perdere, perché il gioco è una categoria umana che ha senso solo per noi.
Rimanendo sui concetti di creatività, immaginazione e senso, che ruolo hanno rispetto alla nostra idea contemporanea di lavoro e qual è la differenza con quella di attività?
Miguel Benasayag: L’attività, che è propria dell’essere umano, non riguarda solo il fare, ma è un’espressione di amore verso l’essere umano stesso: nasce dall’affinità elettiva, da un desiderio profondo, e si inserisce in cicli vitali in un movimento continuo. L’attività può essere molto intensa, persino travolgente, ma è qualcosa che ha un valore in sé, una finalità intrinseca. Il lavoro, invece, è un’altra cosa: è un fare transitivo, non ha una finalità in sé, ma serve a produrre un risultato esterno. In questo senso, l’attività è legata immediatamente al vivente, mentre il lavoro può essere visto come una sorta di miscuglio, che spesso mette in pericolo l’attività e può soffocarla insieme al desiderio da cui essa scaturisce. Recentemente ho lavorato con alcuni agricoltori neorurali francesi che stanno svolgendo un lavoro molto interessante, un esempio di attività, una forma di resistenza, una pratica molto forte e significativa. Tuttavia, mi raccontavano che sentono costantemente di correre il rischio che la loro attività diventi un “lavoro” vero e proprio, perché devono sopravvivere, guadagnare denaro. È una sfida comprensibile, ma rappresenta anche una forma di resistenza. Non penso che in futuro vivremo in un mondo fatto solo di attività e senza lavoro – non credo in questa visione utopistica. Ma penso che sia fondamentale mantenere, all’interno della nostra società, la pratica dell’attività come qualcosa di forte e significativo, senza che tutto venga assorbito dal lavoro. La macchina farà il lavoro, questo è quello che si dice. E allora noi cosa faremo? Ci resterà l’esistere. E cosa significa esistere? Significa dedicarsi a molte attività, che sono diverse dal semplice lavorare.
Le nuove tecnologie digitali sono l’esempio di come la nostra società allontani l’imperfezione, la devianza, l’incertezza, l’inefficienza. Ma la vita reale è imperfetta e a volte può essere inefficiente. Questo porta, psicologicamente, a una discrasia tra aspettative e realtà. Quali sono le conseguenze e qual è il ruolo della psicologia oggi?
Miguel Benasayag: La psicologia fin dalle sue origini ha avuto il compito di normalizzare e disciplinare. Non intendo questo in senso negativo: la normalizzazione può avere un effetto ansiolitico. Quando una persona soffre o si sente emarginata, essere “inserita” in una norma può offrirle un sollievo ed è comprensibile. Tuttavia, la psicologia oggi si trova davanti a enormi sfide perché il modo di essere umani è cambiato profondamente e i pazienti, oggi, chiedono di “funzionare meglio”. I professionisti della psicologia fanno ciò che è loro richiesto, ma soffrono di una terribile mancanza di riflessione complessa: non si interrogano davvero sul paradigma in cui lavorano, sul perché lo fanno. Nel futuro, questi professionisti diventeranno tecnici del funzionamento. Ciò significa che non saranno più impegnati in una riflessione su cosa significa costruire un senso, ma schiacceranno ogni forma di non-senso concentrandosi solo sull’efficienza.
Nel suo libro L’epoca dell’intranquillità, scritto insieme a Teodoro Cohen e presentato anche al Festival del Presente / Dialoghi di Pandora Rivista, sostenete che la sfida odierna è quella di trasformare l’insicurezza dilagante in “intranquillità”. Cosa significa questo concetto e quali vie potrebbero intraprendere le nuove generazioni, a cui il libro è dedicato, attraverso l’intranquillità?
Miguel Benasayag: Oggi viviamo in un’epoca in cui domina la paura. Molte persone sono costantemente preoccupate per la loro sopravvivenza quotidiana e guardano al futuro con grande incertezza perché non riescono a vederlo in modo chiaro. Dall’altra parte, c’è anche chi prova piacere nel vedere il disastro attuale, persone che inquinano il pianeta e che si giustificano dicendo: “Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”. È una mentalità diffusa, una forma di complicità nel disastro. Molti, invece, rifiutano questa complicità, ma sono paralizzati dalla paura. La storia ci insegna che tutti i dittatori, eletti democraticamente o meno, rispondono alla paura promettendo sicurezza in cambio di libertà, ed è così da Hobbes in poi. Ma la gente è disposta a rinunciare non solo a una parte della libertà: vogliono rinunciare a tutta la libertà pur di sentirsi sicuri. Questo perché più sono liberi, più si sentono soli di fronte a un futuro minaccioso. E così, accettano di rinunciare alla libertà sotto la promessa illusoria di sicurezza. Ma chiedere soltanto sicurezza è un errore, perché porta all’autoritarismo e all’emergere di nuovi pericoli, poiché la sicurezza è una promessa vuota. La vera soluzione sta nei legami con gli altri, nel costruire una comunità e accettare l’inquietudine come un’attitudine positiva, una forma di resistenza attiva. Non dobbiamo rifiutare le minacce o la libertà, ma accogliere l’inquietudine con gioia, agire senza la garanzia di un risultato certo. Nessuno può sapere se ciò che facciamo sarà sufficiente a evitare la distruzione, o se siamo già oltre il punto di non ritorno. Ma la sfida è accettare l’immanenza della situazione, affrontarla con intranquillità e senza affidarsi a false promesse.
A suo giudizio, l’intranquillità può costituire un concetto politico e come si pone, in tal caso, rispetto alle forme istituzionali, partitiche e movimentiste che costituiscono storicamente la politica?
Miguel Benasayag: Si, può esserlo. Tuttavia, non penso che la politica si faccia tutta nelle istituzioni, lì si pratica piuttosto una tecnica politica. Penso che la politica sia una tecnica da molto tempo, però quello che noi chiamiamo politica non deve essere identificato con una visione strutturale, piramidale, con un alto e un basso. Penso anche che la potenza di agire sia sempre alla base della politica e che tramite essa si possa premere per cambiare le istituzioni. Prendiamo il tema tanto discusso della “solidarietà ai migranti”. Non è nostro compito quello di pensare a ciò che i vari Paesi debbano fare da un punto di vista politico, a noi basta ribadire che la solidarietà ai migranti è un principio per cui lottare. In altre parole, trovare la soluzione spetta a chi per vocazione o perversione è al potere. Ritengo quindi che la politica si faccia battendosi per dei principi concreti, ma senza avere il peso di risolvere noi i problemi, la soluzione dei quali spetta invece alla politica come tecnica. Attenzione però, che non vengano a dirci di aver agito in un determinato modo perché lo richiede il “realismo economico”. Durante la pandemia sono cadute le maschere, per dirla con un gioco di parole; abbiamo visto, cioè, che quando c’è una forte volontà politica le istituzioni trovano gli strumenti necessari per mettere in campo importanti interventi economici. Quindi, in conclusione, a noi spetta il compito di lottare per dei principi comunitari, stando attenti a non cadere nell’idea falsa per cui, come si sente dire spesso: “se siete dei contestatori seri, allora elaborate un programma per risolvere il problema”. Questa è una trappola! Noi lottiamo per ciò che è giusto, loro trovino la soluzione tecnica oppure è giusto che vengano destituiti.